WILLIE COLÓN & RUBÉN BLADES «Metiendo mano!»

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AUTORE

Willie Colón & Rubén Blades

TITOLO DEL DISCO

«Metiendo mano!»

ETICHETTA

Craft

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Torna in circolazione il primo dei quattro album realizzati tra il 1976 e il 1982 dall’alleanza tra il trombonista del Bronx (ma di famiglia portoricana) e il cantante panamense (però di madre cubana, padre colombiano e nonno caraibico di madrelingua inglese). In realtà ne esiste anche un quinto, inciso nel 1995 a mo’ di fasulla rappacificazione dopo che i due ex amici avevano per oltre dieci anni fatto volare gli stracci nelle aule di tribunale a causa di un disco sostanzialmente balordo («The Last Fight», 1982, colonna sonora dell’omonimo film diretto da uno degli attori-feticcio della Blaxploitation, Fred Williamson, e che aveva segnato l’esordio cinematografico di Blades). Ma litigiosi com’erano – soprattutto il focosissimo Colón, giunto alla fama anche per la finta immagine da malavitoso del barrio con cui amava rappresentarsi sulle copertine degli lp – i due si fecero nuovamente causa nel 2007 per svariati inghippi monetari e pare che da allora (Colón ha oggi 74 anni e Blades 76) non si siano neanche più rivolti la parola. In effetti non c’è da stupirsi che avessero litigato per bieche faccende di soldi perché, dall’uscita di «Metiendo mano!» per la Fania nel 1977 fino allo scivolone di «The Last Fight» la ditta Colón-Bladés è stata probabilmente l’act più redditizio nella frenetica scena della salsa, non solo su disco (il loro secondo album, «Siembra» del 1978, resta il più venduto nella storia del genere, con oltre tre milioni di copie di cui cinquecentomila soltanto in Venezuela, dove Colón è sempre stato popolarissimo, non ultimo per il suo attivismo politico) ma anche e soprattutto dal vivo. Blades era già apparso nel 1974 in un disco di Colón («The Good, the Bad and the Ugly») prima ancora che la loro collaborazione fosse ufficializzata, sostituendo in un brano l’autodistruttivo Héctor Lavoe, il massimo cantante di salsa di tutti i tempi, che lavorava col trombonista fin dal 1967 e che se ne stava andando per mettersi in proprio (finirà malissimo; ma il suo più grande successo, la celeberrima El Cantante del 1978, sarà scritto proprio da Blades e prodotto da Colón). Tracciata quindi un po’ di storia spicciola, non resta che parlare di cosa succede in questi cinquanta minuti di musica divisi in nove canzoni, tra cui un enorme successo come Pablo Pueblo, brano dal forte contenuto politico – nonché costruito sul giro armonico di Autumn Leaves – che difatti Blades adotterà come theme song nel 1994 durante la sua campagna elettorale per la presidenza di Panama (per la cronaca, rimediò una sonora sconfitta ma dieci anni dopo fu nominato ministro del turismo da una successiva amministrazione). Il sound è quello tipico di Colón, caratterizzato dal coro dei quattro tromboni (il cosiddetto sonido de trombones, qui rimpolpato dal basso tuba del gilevansiano Tom Malone) e che rappresenta il suo vero e proprio marchio di fabbrica, creato sulla base di esperienze analoghe del collega di strumento e arrangiatore portoricano Mon Rivera e prelevato di peso molti anni dopo da David Byrne per il suo «Rei Momo» (dove infatti Colón è presente). I tromboni – raramente all’unisono, quasi sempre in armonia con scelte mai banali – si interfacciano con Blades in un fitto call and response, mentre l’eccezionale sezione di percussioni guidata dal santero Milton Cardona funge da tessuto connettivo dei vari elementi, con un incredibile dispiegarsi di sottigliezze ritmiche. Come solista – lo possiamo ascoltare su Lluvia de tu cielo, mentre l’assolo su Fue varón è di Leopoldo Pineda – il legame più diretto di Colón è col trombonista supremo della Latin music, ovvero Barry Rogers (che era sì cresciuto a Spanish Harlem ma si chiamava Rogenstein ed era un ebreo polacco, così come ebreo era l’altro onnipresente trombonista nonché violinista, quel Lewis Kahn che appare non solo qui ma su mille altri dischi di salsa). Quella di Colón e Blades è pertanto musica consapevolmente diasporica, che raccoglie una gran quantità di influenze non solo africane, caraibiche e latine ma anche di stampo jazz e rock, e le infila a bollire in un pentolone che poteva essere messo sul fuoco soltanto nella New York di quegli anni, dove tutto si mischiava con tutto e la scena accoglieva senza problemi il free jazz e il punk così come la salsa e il r&b, spingendo spesso musicisti delle più disparate estrazioni a collaborare assieme. Quando poi nel 1980 da Cuba inizieranno ad arrivare i musicisti espulsi assieme ai cosiddetti marielitos, tra cui il percussionista Daniel Ponce, gli orizzonti si allargheranno ancora dando origine a lavori fortemente sincretici come quelli di Kip Hanrahan e di Bill Laswell. In conclusione, «Metiendo mano!» è un disco importante anche per la sua valenza simbolica, e può essere utile per scoprire aspetti e situazioni di cui le storie del jazz non parlano mai.
Luca Conti

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