William Parker: La nostra porta non è mai chiusa

Lunga intervista con il contrabbassista e compositore newyorkese, instancabile agitatore culturale degli ultimi decenni di jazz e di musica improvvisata

- Advertisement -

Prima di addentrarci nei meandri artistici, e se vogliamo anche filosofici, di una figura cruciale per la scena jazzistica americana contemporanea come William Parker, occorre ricordare che a New York tre sono le aree dove i nuovi linguaggi musicali si formano e trovano terreno fertile per svilupparsi: Downtown Manhattan (divisa in Est e Ovest) e Brooklyn. Ognuna di queste tre zone vanta i suoi eroi, le magnificenze del passato recente e del futuro possibile, e anche le defezioni, visto che il successo artistico a volte reca con sé un appropriato «trasloco». A dominare, è chiaro, sono le ragioni economiche, ma se il costo della vita nella metropoli per eccellenza è sempre più che ragguardevole, nessun musicista rinuncerebbe mai ad avere un suo spazio, diciamo pure una fetta della grande mela newyorkese a costo anche di notevoli sacrifici. La possibilità di suonare ogni sera gomito a gomito con musicisti affermati, a volte leggende viventi, con la conseguente, rapida ascesa artistica e professionale, ha il suo prezzo ma il ricavo spesso è ineguagliabile. Questo è il presente della città che più ha dato al jazz da tempo immemorabile: il futuro ha qui le sue radici, e in qualche altra città americana, ma senza voler fare paragoni improponibili, chi andrebbe in Minnesota a fare del jazz contemporaneo? È dal Minnesota che si viene a New York, prima o poi: Maria Schneider docet. Tornando alle nostre tre zone «calde» del jazz, a parte Brooklyn con la sua aria meno concitata, i costi più ristretti, e la facilità di interazioni artistiche fra i giovani musicisti, Downtown Manhattan West è identificabile con il Greenwich Village, dove tuttora domina il Village Vanguard, mentre Downtown Manhattan East è di solito denominata Lower East Side, e nel passato anche recente, è stata da sempre etichettata come «poco raccomandabile». È lì nel vecchio Slug’s, che non esiste più, che fu ucciso sul palco Lee Morgan dalla moglie tradita. È lì che la Beat Generation degli scrittori amanti del jazz come Allen Ginsberg, trovò il modo di radicarsi. Ed è lì tutt’oggi che la parte più iconoclasta dei jazzisti si ritrova e forma quelle aggregazioni artistiche necessarie per crescere e rinnovare la musica. Il Lower East Side, diciamolo, non è certo più quella zona difficile di un tempo, anzi ha in sé una vitalità, un’aria piacevole, eccitante. In questo agglomerato di vite desiderose di affermarsi, accanto a quelle che stentano e forse si sono adeguate ad una «normalità» che in qualsiasi altra città verrebbe considerata perlomeno eccentrica, due figure sono emerse in modo preponderante da tre decenni almeno: John Zorn e, appunto, William Parker. I due musicisti non appaiono certo in rapporti fraterni: hanno le loro aree di influenza, si evitano quasi (come vedremo presto in un gustoso paragone creato da Parker nell’intervista), ma rappresentano due poli d’attrazione assolutamente inevitabili nel jazz dei nostri giorni. Se volessimo a tutti i costi schematizzarne gli stili potremmo definire «dionisiaco» l’approccio di Zorn, che è onnivoro, amante delle sonorità e dei contrasti più stridenti; mentre «apollineo» è quello di Parker, ricco d’intenti spirituali, di rivendicazioni politiche, con una musica che ancora oggi propone un legame imprescindibile fra arte e messaggio sociale. Al di là di queste raffigurazioni di massima, le proposte musicali e gli «adepti» di questi due personaggi, che facilmente appaiono come due «guru», hanno ridisegnato il panorama del nuovo jazz, cambiandone – nel bene e nel male – i connotati. William Parker, assieme alla moglie Patricia Nicholson, ha dato vita a quello che è ormai considerato un festival leggendario a New York, il Vision, del quale abbiamo trattato a più riprese. E con esso un’istituzione culturale, Arts for Art, che ripropone senza mezzi termini i loro intenti creativi: non si può prescindere dall’arte per dare un senso alla propria vita, l’arte deve contenere un messaggio sociale ben preciso, deve combattere le ingiustizie, il razzismo e tutti gli aspetti controversi della società americana in particolare e capitalistica in senso generale. Al centro di questo universo, che col free jazz degli anni Sessanta ha i suoi legami più espliciti, il contrabbasso di William Parker segna il ritmo, la cadenza dal passo inesorabile, come quella che un tempo era la musica sacra: al i fuori di essa appartengono gli eretici. Gli accoliti invece troveranno sempre uno spazio caldo, sicuro: ecco perché non c’è inquietudine nei concerti del Vision, e per estensione in tutti i progetti di Parker. C’è sempre un grande amore per la volontà umana di riuscire ad esprimersi al di là delle leggi del mercato, dunque una serenità condivisa dagli stessi spettatori, che pure nelle situazioni più complesse, ardue all’ascolto, ne partecipano come se fossero parte attiva, sul palco. Personalmente ricordo un concerto di Bill Dixon anni fa, forse il suo ultimo al Vision, dove c’era un silenzio fra il pubblico, un’attenzione sacrale verso la musica che raramente ho riscontrato in centinaia di altre performance. Lo stesso accade con William Parker: che suoni in duo o con una grande orchestra, il suo approccio verso la musica è carismatico senza essere assertivo (come nel caso invece di John Zorn), avvolgente ma mai sfrontato, sicuramente invitante senza voler sedurre a tutti i costi. Si può ammirarlo o detestarlo, accettarlo o rifiutarlo totalmente, ma Parker è una presenza forte, calamitosa nel voler attirare a sé gli altri. Il suo è un mondo che ha delle regole precise, schiette. È un uomo che ha dovuto farsi strada con fatica, da ragazzo di colore nato e cresciuto nel Bronx, ma della musica ha fatto il suo tappeto volante e con esso ama visitare tutto e tutti, trascinando con sé chi ne condivide l’estetica. Non è dunque un caso che, pur arrivando quest’anno a festeggiarne i suoi settanta, la discografia che Parker si porta dietro è sterminata. Sono centinaia di titoli, spesso autoprodotti, e fra questi ci piace segnalarne almeno due recenti: un cofanetto di ben dieci cd intitolato «Migration Of Silence Into And Out Of The Tone World» (Centering Records, 2021) che lo vede protagonista in situazioni musicali diversissime ma in ogni caso interamente aderenti al suo stile; quindi un eccellente album in trio, «Mayan Space Station» (Aum Fidelity, 2021), con la giovane e straordinaria chitarrista Ava Mendoza e il batterista Gerald Cleaver.

Sei nato e cresciuto nel Bronx, William: cosa ricordi di quei primi tempi di giovane musicista? Che atmosfera si respirava?

Il sud del Bronx, dove sono nato, era un terreno fertile per i musicisti: gli affitti costavano molto poco rispetto a Manhattan e poi c’era un gran desiderio di incontrarsi, di frequentarsi. Molti venivano anche dal Sud degli USA perché a New York la musica era sempre in fermento. Quello era il nostro mondo e anche gli adulti, i miei genitori per esempio, ci sostenevano. Nella mia famiglia nessuno era un musicista professionista, ma tutti amavano ascoltare: ricordo che mio padre, quando tornava a casa – e io ero un bambino di sei o sette anni, quindi nel 1958-1959 – metteva sul giradischi un album di Duke Ellington, che era il suo preferito. In particolare amava Diminuendo And Crescendo In Blue, quello registrato al festival di Newport. Quindi vedi che già a quell’età c’era il jazz in casa: era così bello che lo ballavamo tutti! Lo swing dominava! Mio fratello, che suonava il sax, un giorno tornò a casa con una tromba per me. Il sogno di mio padre, uno dei suoi tanti sogni, era quello di vederci suonare nell’orchestra di Duke Ellington. Per esempio il sabato era per tutti noi il «music day»: compravamo dei dischi e li ascoltavamo assieme. Coleman Hawkins, Ben Webster, Johnny Hodges e tanti altri grandi maestri.

Quindi il tuo primo strumento è stato la tromba?

All’inizio sì. Poi, una volta arrivato al liceo, decisi di cominciare a suonare il violoncello. Da lì sono passato al contrabbasso, ma solo nei primi anni Settanta ho potuto averne uno tutto per me. Adoravo ascoltare i contrabbassisti dai dischi che avevamo a casa e cercavo di seguirli. Fu Charlie Haden, che avevo visto in concerto, a darmi i primi consigli per lo strumento: soprattutto ascoltare i grandi dai dischi. In pratica mi suggerì di studiare da autodidatta, perché quello credo fosse anche il suo background. In seguito ho seguito dei workshops per contrabbasso e il mio primo vero insegnante è stato Paul West, che suonava con Dizzy Gillespie, poi ho studiato anche con Richard Davis, Milt Hinton e Art Davis. Mi sono poi perfezionato con Jimmy Garrison – ricordo che andavo a trovarlo a casa sua nell’Upper West Side – e infine con Wilbur Ware.

Qual è stata la forma jazzistica verso la quale ti sei sentito attratto e che ti ha veramente formato come musicista?

Sicuramente la musica di Ornette Coleman, quindi Cecil Taylor, Archie Shepp, Albert Ayler. Dunque il free jazz, ma anche la forte spiritualità di John Coltrane con «A Love Supreme». Suonare quel tipo di musica afro-americana era diventato per me il modo di trasmettere un messaggio spirituale di speranza, compassione e amore verso la comunità di persone che ci ascoltava. Ed è tuttora così. Sono queste le ragioni fondamentali che mi hanno spinto a diventare un musicista, non altro, non perché era «cool» suonare di fronte a un pubblico. Il vero motivo risiede nella ricerca di un’illuminazione che arricchisca la nostra anima. 

Insieme a questo messaggio spirituale ce n’è anche uno di carattere politico?

Vedi, il messaggio spirituale è politico. Nel senso in cui la ricerca di quei valori che ho appena enunciato è già un modo politico di agire nei confronti degli altri, se si vuole arrivare all’illuminazione. Diciamo un modo politicamente corretto. Per esempio contro la guerra, contro ogni tipo di oppressione, di schiavismo, di razzismo. Credo che il cosiddetto «American dream» sia in realtà un incubo. Ecco perché con un certo tipo di musica cerchiamo di svegliare gli animi e quindi ricongiungerci tutti in una rivoluzione umanistica.

Sei mai stato connesso o vicino in passato a certi movimenti rivoluzionari della gente di colore, ad esempio i Black Panthers?

Certamente ero a conoscenza dei Black Panthers e ho visitato la loro sede nel Bronx. Ho anche cercato di farli interessare alla musica di Archie Shepp e a quella della Liberation Music Orchestra di Charlie Haden, ma loro non si sentivano coinvolti in quel tipo di ricerca artistica. Comunque mi sono adoperato per raccogliere fondi di beneficenza per i Black Panthers. C’erano anche i Black Muslims nel Bronx e per loro ho fatto qualcosa che li aiutasse nel loro messaggio verso la comunità nera, ma la mia protesta si esplicava essenzialmente attraverso la musica.

Da artista rivoluzionario di colore credo che tu abbia dovuto combattere per sopravvivere e affermarti, no?

Certamente. Quando hai a che fare con gente che odia l’arte, che odia i neri, la lotta emerge in modo naturale. Ed è tuttora così. Non è cambiato molto in tutti questi anni. La polizia continua a sparare alla nostra gente…C’è il movimento Black Lives Matter che cerca di modificare le cose, ma non vedo un vero cambio di marcia. Con il razzismo e il fascismo radicati in certa gente non c’è modo di far comprendere loro cosa la vita dovrebbe essere. C’è la totale mancanza di compassione. Pensa a ciò che sta accadendo ora in Georgia, dove stanno passando leggi che di fatto creano gravi limitazioni al diritto di voto. Questa è finta democrazia! In questo modo torniamo indietro fino allo schiavismo! Alla guerra civile dell’Ottocento! 

Col tempo sei diventato un punto di riferimento per tutti i musicisti dell’avanguardia di New York. Quando e come hai dato avvio a quelle iniziative che hanno prodotto quello che è senza dubbio un movimento importante per le innovazioni del linguaggio jazzistico?

Nel 1984 ho promosso un centro di aggregazione per i musicisti che si chiamava Sound Unity, con l’intento specifico, appunto, di creare unità, interconnessione fra i diversi aspetti del jazz. Per avere solidità, forza, c’era bisogno di unità d’intenti. Quindi nessun contrasto fra differenti stili: bebop contro swing, swing contro avanguardia o avanguardia contro rhythm’n’blues. Si doveva stare assieme, essere coesi. Anche altre forme artistiche, come poesia o danza, dovevano unirsi in un movimento totale di grande energia creativa. Da lì, assieme a Patricia Nicholson, è poi nato Arts for Art, che in questi ultimi venticinque anni ha prodotto moltissimi eventi, per prima cosa il Vision Festival, una realtà fondamentale per tutta la musica creativa. Quando i nuovi musicisti arrivano a New York vengono a bussare alla nostra porta. E la nostra porta non è mai chiusa!

Tutto ciò è senz’altro vero, però in tutta l’area di Downtown Manhattan che racchiude queste nuove energie musicali, nello specifico il Lower East Side, si è formata col tempo una spaccatura fra i due poli d’attrazione principali, il tuo e quello che fa capo a John Zorn. Sembra quasi che non ci sia né collaborazione né comunicazione fra di voi. Come mai?

Mi conosci bene e sai che io non faccio differenze: non mi creo problemi a suonare con chi mi pare. Però credo che tra le due tendenze ci sia una diversità di estetica: da un lato quella più intuitiva e dall’altro quella più accademica. Molti fra i nuovi musicisti provengono dai college, dalle scuole istituzionali, mentre altri, in particolare quelli di colore, provengono da altre tipologie di approccio verso la materia musicale. Dunque ciò crea inevitabilmente una certa differenza estetica. 

Ti faccio un nome a caso, ma emblematico a riguardo: Kris Davis. È una musicista di stampo decisamente accademico che però suona spesso al Vision o con altri dell’area cosiddetta «intuitiva». 

Se si tratta di suonare assieme e di comunicare bene fra noi, non vedo problemi. 

E con John Zorn, allora?

Ti faccio un esempio: hai presente quando entri in un ascensore mentre qualcuno arriva alle tue spalle per cercare di entrare anche lui, e tu di proposito non schiacci il pulsante per tenere aperte le porte? [risate generali]

Questa è bella!

Davvero, ma l’unica cosa che sarebbe giusto fare è comunicare fra noi. Incontrarci, frequentarci, parlare. Anche se promuoviamo una diversa estetica musicale non vuol dire che non possiamo suonare assieme. Per esempio sai che i suono spesso con i musicisti europei, che di sicuro provengono da altre esperienze formative, e questo senza alcun problema.

Ricordo tue collaborazioni con Peter Kowald, Han Bennink, Louis Moholo e tanti altri. Anzi, alcuni di loro siete riusciti a invitarli al Vision, superando pure certi problemi di costi, viaggi, residenze.

Derek Bailey mi diceva: «Tu sei l’unico musicista che conosco che suona davvero il free jazz, e sai perché? Perché suoni con me, non come me!». Io uso il mio vocabolario con lo strumento, ci metto il blues, le cose che mi appartengono. L’importante è sapere come trovare il proprio suono. C’era un batterista europeo che mi diceva: «Noi batteristi siamo stanchi di provare a suonare come Art Blakey. Dobbiamo trovare il nostro modo di suonare la batteria». E così anche per i trombettisti, i sassofonisti, eccetera…

Quando ti sei accorto di essere riuscito finalmente a trovare il tuo sound personale, il tuo stile peculiare nel suonare il contrabbasso?

Me ne sono accordo studiando. Ad un certo punto cercavo di riprodurre un assolo di Paul Chambers, ma non c’era alcun modo al mondo col quale io potessi riuscire a suonare come Paul Chambers! Non sarebbe mai potuto accadere nel corso di una vita. E poi, studiando con Wilbur Ware, il quale si accorgeva subito quando cercavo di imitarlo rispondendo al suo fraseggio e mi guardava storto, mentre mi approvava quando dialogavo davvero con il mio fraseggio. Bisogna trovare la propria voce con lo strumento: questo era il suo insegnamento. E ciò richiede tanto, ma tanto lavoro.

La tua produzione discografica è davvero sterminata e ti si può ascoltare in contesti del tutto diversi l’uno dall’altro, ma ciò che emerge è la facilità che hanno gli altri a raffrontarsi con te, a sentirsi sempre a loro agio. 

È come un linguaggio: io posso capire qualche parola di italiano o di francese, ma io parlo sostanzialmente col mio linguaggio. La comunicazione vera però avviene attraverso la musica, che è fondamentalmente un linguaggio universale. Non vorrei mica sentire Derek Bailey che prova a suonare come Wes Montgomery! Bisogna essere sé stessi. Quindi con la musica per comunicare non bisogna per forza suonare allo stesso modo o con lo stesso stile. Si può suonare assieme con stili totalmente differenti ed essere sulla medesima linea d’onda. Tornando alla mia esperienza con Derek Bailey: suonando con lui era come essere su due rette parallele, mai distanti. Eravamo comunque insieme. Era dialogare senza il bisogno di parole. 

C’è qualcosa di religioso in tutto ciò. Ti senti un uomo religioso?

[dopo una lunga pausa] Non nel senso letterale del termine. Credo nei valori comuni delle religioni: detestare la guerra, non odiarsi ma amarsi l’un l’altro, avere compassione. Ciò non vuol dire che io mi senta buddista o altro. Sono stato battezzato cristianamente, in chiesa, ma ho studiato anche altre religioni, come l’induismo. 

Dunque la musica è un linguaggio spirituale che si rivolge al nostro animo. In questo senso è un’esperienza religiosa, no?

Sì. Penso proprio di sì. Induce a raccogliersi assieme per un’esperienza comune che può provocare una consapevolezza superiore. 

Come vedi la scena musicale dei nostri giorni? Le proposte dei giovani musicisti?

Be’, io insegno anche, e noto che molti giovani sono tecnicamente molto preparati. Spesso dico loro di indagare le radici del loro essere: di vedere cosa fanno, come lo fanno e perché. Questo per fare in modo che il loro suono sia del tutto personale, che vibri, che possa cambiare anche nel tono. Se ciò avviene, allora qualcosa di rivoluzionario emerge nelle loro vite. Bisogna che la musica vibri ad alto livello, non solo che sia strutturata in modo complicato. È più importante che abbia una sua vibrazione. È come quando ascolti un assolo di Coleman Hawkins: vibra ad alto livello.

C’è stato un periodo in cui hai suonato con Cecil Taylor, verso i primi anni Ottanta. Ricordi come ti è capitato di essere chiamato da lui?

Verso i primi anni Settanta stavo suonando nel gruppo di Jemeel Moondoc, il Muntu Ensemble, all’Antioch College in Ohio e Cecil era lì per una serie di workshops. In seguito fu chiamato da George Wein per un concerto alla Carnegie Hall. Cecil voleva mettere in piedi un grande organico per l’occasione. Fu Arthur Williams a portarmi da lui, a casa sua: facemmo delle prove e Cecil mi prese subito. Nel 1975, quando suonavo al Five Spot con Don Cherry, Cecil era lì ad ascoltarmi: mi propose di entrare a far parte del suo Unit con Jimmy Lyons e gli altri. Per me fu un’esperienza molto importante. In quegli anni i miei eroi erano Ornette Coleman, Cecil Taylor e Sun Ra, quindi essere chiamato da uno di loro era un onore, un punto d’arrivo decisivo che si trasformò subito in un’apertura nuova nella mia carriera di musicista con la possibilità di sperimentare nuove direzioni, nuove strade musicali. Si viaggiava e si imparava tanto con Cecil: assorbivo i suoi concetti musicali e allo stesso tempo ne trovavo di nuovi da sviluppare tra i miei. Fu assolutamente importante per me fare parte del collettivo di un grande maestro come Cecil Taylor. 

Il tuo nuovo disco, «Mayan Space Station», è in trio con la chitarrista Ava Mendoza, che mi pare formidabile. Ti ha cercato lei o sei stato tu a trovarla?

È stato per via di William Hooker, anzi proprio il giorno della morte di Cecil Taylor, nel 2018. Lei suonava con Hooker, così abbiamo deciso di incontrarci e di fare un progetto assieme. Vedi, io cerco sempre situazioni nuove e mi piace confrontarmi con musicisti diversi in contesti di varia natura, dal duo completamente free alla big band sulla musica di Duke Ellington o Curtis Mayfield.

Ecco, hai citato un album tra i miei preferiti («I Plan To Stay A Believer – The Inside Songs Of Curtis Mayfield», 2010, poi ristampato in doppio cd/lp nel 2020, Aum Fidelity). Devo dire che rimasi sorpreso quando uscì, pur avendo un’ammirazione sconfinata per Mayfield.

Ho sempre amato la musica di Curtis Mayfield! [canticchia People Get Ready] Una sera, dopo un concerto, nel camerino parlavo con degli amici e un produttore, e ho detto che avrei voluto tanto fare un album su Mayfield. Sei mesi dopo il produttore mi chiamò: «Sei ancora sicuro di voler fare un disco con la musica di Curtis Mayfield oppure stavi solo scherzando?». «No, no, lo voglio fare sul serio!». Qualche mese dopo ero a un festival a Parigi a suonare dal vivo quella musica con un coro di ragazzini. Poi ho inciso quella che è la prima versione con Amiri Baraka, Dave Burrell, Hamid Drake. Ballavo in sala d’incisione!

Pensi di fare qualcosa di simile in futuro?

È possibile, non lo escludo. Per ora sto lavorando su un album per grande organico, penso quindici musicisti, che si chiamerà «Universal Tonality», che è anche il titolo della mia biografia, curata da Cisco Bradley, da poco uscita per la Duke University Press.

- Advertisement -

Iscriviti alla nostra newsletter

Iscriviti subito alla nostra newsletter per ricevere le ultime notizie sul JAZZ internazionale

Autorizzo il trattamento dei miei dati personali (ai sensi dell'art. 7 del GDPR 2016/679 e della normativa nazionale vigente).