Vijay Iyer: Compassion

Torna il pluripremiato pianista e compositore con un nuovo album in trio, un lavoro in apparenza «normale» ma che cresce a ogni ascolto per poi rivelarsi di grande sostanza.

- Advertisement -

Il New York Times lo ha definito – con le solite iperboli americane – come coscienza sociale, collaboratore multimediale, costruttore di sistemi, rapsodo, storico e pensatore multiculturale. In realtà, quando cominciò a farsi strada nella scena del jazz newyorkese, intorno ai primi anni duemila, Vijay Iyer era già una figura enigmatica, un «outsider» fin dallo stesso nome inusitato: ben presto riuscì a guadagnarsi, passo dopo passo, uno spazio tutto suo di encomiabile originalità. Il suo stesso carattere, taciturno, non certo esuberante, si mescolava facilmente con uno stile ricercato nella forma eppure privo di qualsiasi estetismo di maniera: un rivoluzionario bon-ton senza impalcature iconoclaste. In sostanza Vijay era, ed è rimasto, un pianista e un compositore di notevole stoffa che si è guadagnato nel corso del tempo uno status di primo piano nel jazz dei giorni nostri. Al tempo del suo affacciarsi con discrezione nel sempre vivido melting pot musicale di Manhattan, ogni concerto nei classici club del Greenwich Village provocava un inevitabile passaparola fra gli appassionati, che aumentavano sempre di più mese dopo mese, anno dopo anno. In breve sarebbe diventato un personaggio di spicco, anche alimentando inconsapevolmente news immaginarie, come un suo arrivo dalla lontana India assieme al sassofonista Rudresh Mahanthappa, suo compagno di viaggio – quasi un contraltare – è vero, ma solo musicale. Curioso come i due jazzisti siano sì indiani da parte dei rispettivi genitori, ma nati altrove: il nostro pianista ad Albany, capitale dello stato di New York; mentre Mahanthappa addirittura a Trieste, dove il padre lavorava per qualche tempo. Tutt’e due del resto cresciuti fin da bambini in USA, rispettivamente a Rochester, New York e a Boulder, nel Colorado. Non è escluso, comunque, che una certa affinità di lignaggio culturale abbia avvicinato l’uno all’altro e sia stata fonte di particolari esotismi nei loro stili individuali, almeno durante gli anni che li videro emergere assieme nel jazz americano. La storia però ha voluto che fra i due fosse Vijay ad assumere un ruolo di maggiore spicco, proprio per via di due caratteristiche principali che lo hanno distinto in modo evidente nel tempo: l’originalità come compositore e l’eterogeneità nelle scelte creative. Pur avendo poco più di cinquanta anni oggi Iyer ha dietro di sé una carriera di invidiabile consistenza: una trentina di album pubblicati a suo nome, la MacArthur Fellowship ricevuta nel 2013 (ricordiamo che si tratta di un premio in denaro per incentivare l’attività di individui di particolari capacità nel campo delle arti e delle scienze: attualmente è di 800.000 dollari), la United States Artists Fellowship, un paio di recenti nomination ai Grammy, oltre a una cattedra nella prestigiosa Università di Harvard. Ben pochi artisti nel campo del jazz possono vantare un curriculum così speciale. Vijay però non è certo il tipo che si riposi sugli allori: la sua attività procede a tutto spiano, anzi alcuni dei suoi album recenti, tra gli otto prodotti con ECM, hanno attirato l’attenzione dei critici più attenti e del pubblico, che ne ha entusiasticamente suggellato il successo, in particolare tra l’audience più giovanile, con una settimana di concerti sold-out al Village Vanguard in febbraio. L’ultimo di questi magnifici dischi s’intitola «Compassion» e vede il nostro pianista in azione con il trio che sembra aver consolidato le sue esperienze di interplay al massimo livello, cioè Linda May Han Oh al contrabbasso e Tyshawn Sorey alla batteria: come dire due musicisti della nuova generazione tra i più richiesti e importanti, bandleader a loro volta. Si tratta, in definitiva, di un musicista sulla cresta dell’onda e tutto fa pensare che Vijay ci rimarrà a lungo, date le sue caratteristiche creative, le quali sembrano avere sempre più luci che ombre da proiettare nel vivace scenario del jazz contemporaneo. Ne abbiamo parlato assieme nella sua bella casa nel cuore di Harlem: una tipica townhouse in mattoni rossi su due piani, nel cui salotto troneggia un bel pianoforte Yamaha gran coda. Una soluzione congeniale per un musicista a New York che gli permette di esercitarsi e comporre anche in piena notte senza disturbare nessuno.

Vorrei iniziare dal tuo trio più recente, assieme a Linda May Han Oh e Tyshawn Sorey, con i quali hai inciso due album di successo per la ECM, «Uneasy» e «Compassion»: com’è nata questa bella collaborazione?
Con Tyshawn avevo già suonato più volte fin dal 2001, quindi ci conoscevamo molto bene. Anche con Linda c’era stata una serie di notevoli incontri musicali iniziata nel 2008, quando lei era ancora una studente alla Columbia University. In seguito ambedue hanno sviluppato in modo diverso ma ugualmente importante le loro capacità di musicisti suonando in vari contesti, sia come solisti accompagnatori che come band leader. Poi nel 2016 li portai con me al Banff Center in Alberta, Canada, dove dirigo un workshop di jazz fin dal 2012. Proprio a Banff abbiamo dunque avuto tempo e modo di lavorare assieme in situazioni diverse, spesso in grandi ensemble. Nel 2019 abbiamo iniziato a suonare in trio, ricordo un ingaggio al Jazz Standard di New York, quindi ancora quell’estate a Banff: ci divertivamo ma allo stesso tempo sentivo che veniva fuori del calore, una bella intesa nell’interagire fra noi tre. 

Vijay Iyer

Si sente questa vostra sinergia in modo palpabile, specialmente dal vivo. Penso che la tua musica abbia acquisito una forte dimensione ritmica rispetto agli anni passati. Non credi? 
Il ritmo è un aspetto importante nella mia formazione di musicista e penso che con questo trio io abbia spinto in maniera più forte che in passato la scansione del tempo in certi brani, ma devo aggiungere che è proprio l’interplay con gli altri due ad accentuare questa dimensione nella configurazione dei pezzi. La potrei definire come sostanziale nell’economia della band. In una parola: incrollabile. Devo dire che riguardo all’album precedente, «Uneasy», c’è una differenza notevole nell’affiatamento tra noi: a quel tempo avevamo suonato assieme dal vivo non più di tre volte, visto l’arrivo della pandemia. Nel 2021, una volta riaperta la possibilità di girare in tour si è potuto suonare con frequenza molto maggiore, e i risultati si percepiscono in «Compassion».

Ho piacevolmente notato anche una forte presenza di giovani nel pubblico. Una cosa non tanto comune nei concerti jazz.
Mi fa molto piacere, forse ciò è dovuto alla grande attenzione che abbiamo ricevuto dai media, non solo quelli di solito dedicati al jazz. 

I brani del nuovo disco hanno delle specifiche dediche. Come mai?
Quando scrivevo la musica per quell’album stavo attraversando un periodo difficile: la morte di mio padre, poi di Greg Tate con cui avevo una forte amicizia, la pandemia, pertanto in quei brani ci sono commemorazioni ma anche celebrazioni. Quando si esegue della musica strumentale, senza le parole, la gente ha la difficoltà, se non l’impossibilità di coglierne il motivo, l’ispirazione. Magari il pubblico non se ne cura affatto, ma per me ogni brano ha un significato particolare. E quel significato rimane lì, inciso, anche se forse per altri può avere un senso diverso: va bene anche così. In quel caso ho voluto specificare le ragioni o i sentimenti che mi hanno spinto a scrivere la musica. È chiaro che era un periodo complicato e a volte le dediche mi servivano come appunti sentimentali, come quando si scrive un diario.

Anche il titolo stesso del disco, «Compassion», rimanda a un sentimento ben preciso.
È un sentimento che mi è servito a inquadrare la musica sulla quale stavo lavorando. In passato ho creato musica orientandomi più sulla mia mente che sul cuore. Ma il cuore è sempre lì! Per cui ho voluto condividere con la gente i sentimenti che provavo allora. 

Dunque c’è un conflitto o una ricerca di equilibrio fra razionalità e animo?
Credo che nel processo creativo, anche se c’è un regresso nella metodologia tecnica, il proposito principale è l’interazione umana, il lavoro costruito assieme. Quindi le conoscenze che hai, le tue stesse emozioni contribuiscono a creare un rapporto spirituale con gli altri. È ciò che cerco di realizzare. 

Difatti, al di là del trio tu continui a lavorare su progetti speciali, come l’album recente con la cantante pakistana Arooj Aftab e Shahzad Ismaily, «Love in Exile» (2023, Verve), che ha avuto la nomination ai Grammy. È un lavoro che riflette un altro aspetto del tuo essere musicista a largo raggio di azione. 
È stato davvero un progetto speciale per me, del quale sono molto soddisfatto e che mi ha permesso di suonare in teatri importanti, dove non ero mai stato. Se arrivano opportunità di questo genere, che stimolano aspetti diversi del mio lavoro, non esito a coglierle. Considera comunque che riunire assieme musicisti già molto impegnati in altre aree è sempre difficile: la stessa cosa si può dire del mio trio, visto che gli altri due sono strumentisti molto richiesti, anche immersi nei loro progetti individuali. Infatti spero di poter continuare con un terzo album assieme a loro, ma al momento non saprei dare una risposta concreta. 

Come definiresti il tuo rapporto con ECM?
Eccellente. Ho inciso otto dischi con ECM fino a oggi e ho avuto la massima libertà d’azione nel concepirli e realizzarli. Come sapete, oltre ai lavori in trio ce n’è uno in sestetto («Far From Oover», 2017), uno con Wadada Leo Smith («A Cosmic Rhythm With Each Stroke», 2016; uno con Craig Taborn «The Transitory Poems», 2019), uno con quartetto d’archi («Mutations», 2014) più il resto. 

So che Manfred Eicher segue da vicino, spesso in studio di registrazione, ogni progetto con i suoi artisti. 
Di solito è così, anche se per gli ultimi due dischi in trio abbiamo dovuto comunicare via internet e con il master che andava avanti e indietro con la Germania per il missaggio, a causa della pandemia. Il rapporto con Eicher è nato su sollecitazione del mio agente, dato che il contratto che avevo con la ACT era terminato. In effetti lui ha risposto subito in maniera positiva e si è mostrato disponibile e aperto ad ascoltare le mie idee su come realizzare il suono della band. 

E con gli archi hai intenzione di produrre qualcosa di nuovo?
Lavoro spesso con musicisti di classica e anzi ho scritto musica sinfonica per tre concerti, che al momento non sono stati eseguiti o registrati. Però è stata pubblicata di recente una mia composizione per solo violino, Violin Alone, eseguita da Jennifer Koh («Alone Together», 2021 Cedille) e anche una per voce e orchestra con la Boston Lyric Opera, My Boy (Song of Remembrance).. 

Questo tuo approccio polivalente nei confronti della musica nasce dall’ambiente in cui sei nato e cresciuto?
Non saprei dirlo con esattezza, ma è probabile di no. Sono stato cresciuto in una famiglia di emigrati indiani, con una buona cultura ma senza un particolare dedizione nei confronti della musica. Comunque ho iniziato con il violino già a tre anni, mentre mia sorella col pianoforte, anche se poi non ha continuato come professionista, Avevamo un’insegnante che veniva a casa. Poi ho cominciato a strimpellare al pianoforte anch’io, solo per gioco, ma la cosa mi piaceva sempre di più. Suonavo a orecchio le canzoni che sentivo alla radio. Non ho mai studiato in maniera formale la musica, però a scuola c’era un dipartimento musicale, ed è lì che ho potuto esercitarmi col piano fino ad entrare a far parte, anni dopo, della jazz band scolastica. Durante l’estate poi ho potuto seguire delle classi dedicate all’apprendimento della teoria musicale, che erano solo propedeutiche. Ero ancora un adolescente.

Quando sei venuto a vivere a New York?
Circa venticinque anni fa, alla fine dei Novanta. Ho cominciato con dei duetti assieme a Rudresh Mahanthappa, che già avevo conosciuto. E poi con Steve Coleman: suonavo in modo sporadico nella sua band ed è proprio da lui che ho imparato tanto in musica. Anche Amiri Baraka, Butch Morris e Roscoe Mitchell sono stati molto importanti per me quando suonavo con loro. 

Era comunque un ambiente musicale all’avanguardia in quegli anni.
Facevo già la mia musica: sono stati quei grandi musicisti a volermi con loro. Poi con Wadada Leo Smith in maniera più stabile fin dal 2005. Anche i critici, come per esempio Ben Ratliff che scriveva per il New York Times, cominciarono a notarmi e a parlare positivamente di me. Con Rudresh ho avuto modo di fare tour in Europa perché lui era ben collegato con un agente locale. Ci esibivamo in duo o in quartetto e abbiamo girato in lungo e in largo il Vecchio Continente, dove non ero ancora conosciuto.

Qual è stato per te l’album che ti ha fatto conoscere e apprezzare in senso generale, diciamo il punto cruciale della tua carriera?
Probabilmente «Historicity», il disco in trio con Stephan Crump e Marcus Gilmore, il primo per la ACT nel 2009, che mi ha permesso di farmi conoscere ovunque e di girare a lungo in tour. Anche «Accelerando», il secondo con lo stesso trio nel 2012, mi ha dato molta visibilità. 

Invece ora, per il futuro, cosa hai in mente?
Intanto un altro album in duo con Wadada Leo Smith, poi anche qualcosa con gli archi. 

Quindi con Wadada il rapporto musicale si fa sempre più stretto.
Sai, fu lui a chiamarmi la prima volta a fare parte del suo quartetto nel 2005. Abbiamo fatto molti tour assieme per circa cinque anni. Poi i miei impegni non mi hanno permesso di continuare con lui, se non per quell’album in duo del 2016, ma abbiamo sempre avuto un forte legame musicale, che veniva fuori già al tempo del quartetto, fino a volte a isolarci in duo durante un concerto. È venuto dunque il momento per tutt’e due di tornare a suonare assieme. 

 

- Advertisement -

Iscriviti alla nostra newsletter

Iscriviti subito alla nostra newsletter per ricevere le ultime notizie sul JAZZ internazionale

Autorizzo il trattamento dei miei dati personali (ai sensi dell'art. 7 del GDPR 2016/679 e della normativa nazionale vigente).