Varie sedi
16-18 maggio
Come tradizione vuole, il programma di Vicenza Jazz New Conversations si dipana nell’arco di una settimana. Nel caso di questa XXVIII edizione, dal 13 al 19 maggio, i numerosi eventi in cartellone si sono quasi esclusivamente concentrati nell’area del Teatro Comunale. Infatti, oltre ai concerti serali ospitati dal teatro, il programma comprendeva la rassegna pomeridiana Proxima, svoltasi nel Foyer del Ridotto, i concerti aperitivo e after hours allestiti al Vela, la terrazza esterna del teatro. Lodevole l’intenzione, da parte del direttore artistico Riccardo Brazzale, di concedere spazio a nuove realtà della scena italiana. Peraltro, la successione serrata e – in certii casi – la sovrapposizione oraria di alcuni eventi non hanno permesso di apprezzare appieno la qualità delle proposte.
Per quanto riguarda le tre giornate qui prese in considerazione, la rassegna Proxima ha messo in evidenza alcuni gruppi di indubbio valore e un ampio spettro di riferimenti.

È il caso del trio Nerovivo, guidato dalla batterista Evita Polidoro, nota ai più per la sua militanza nei Fearless Five di Enrico Rava. In Nerovivo Polidoro ha riunito i chitarristi Davide Strangio e Nicolò Faraglia, conosciuti durante la frequentazione dei seminari di Siena Jazz. In questo insolito contesto la giovane e talentuosa batterista esplora altre aree che comunque fanno parte della sua formazione: la passione per il canto, l’elettronica e varie tendenze dell’indie rock. Ne risulta una narrazione stilisticamente coerente, che abbraccia atmosfere rarefatte generate da sottili dinamiche e dalla varietà timbrica fornita dalle chitarre; sezioni ritmicamente più orientate verso il rock, con qualche possibile richiamo ad AlasNoAxis di Jim Black; una vocalità a tratti straniante che evoca vagamente Björk. Alla batteria Evita ricorre spesso a figurazioni scomposte, spezzate e giochi coloristici con l’ausilio di spazzole, battenti e oggettistica, come ad esempio le ciotole armoniche tibetane.

Il quartetto del bassista Marco Centasso – completato da Alberto Collodel (clarinetto basso), Giovanni Mancuso (piano) e Raul Catalano (batteria) – ha riproposto in gran parte il repertorio di «Hidden Rooms», pubblicato l’anno scorso da Parco della Musica. Le composizioni di Centasso nascono e si articolano spesso su ingegnosi giri di basso elettrico o contrabbasso che determinano iterazioni e andamenti circolari. I capienti alvei armonici favoriscono il lavoro approfondito del collettivo. Le trame vengono squarciate dal clarinetto basso, che si inerpica su percorsi impervi con un fraseggio ispido e un timbro viscerale. Nella scrittura di Centasso si riscontrano tracce di influenze disparate: da Steve Swallow (e Carla Bley) al retroterra classico europeo ed elementi di rock progressivo.

Di recente formazione, il trio Eddie & The Kids allinea due generazioni. Infatti, il ventiduenne chitarrista Edoardo Ferri è affiancato da due veterani quali il bassista Enzo Pietropaoli e il batterista Fabrizio Sferra. Uscito dai seminari di Siena Jazz, Ferri dimostra di possedere, oltre al talento, maturità e apertura sufficienti ad affrontare il cimento con i due valorosi colleghi. L’intento del trio è quello di individuare altre chiavi di lettura a brani prevalentemente prelevati dal repertorio rock e pop, nell’evidente tentativo di ampliare la concezione di standard. Ne è un esempio lampante Can’t Help Falling in Love with You di Elvis Presley: giocata su tinte delicate e sottili sfumature timbriche, esplorata con garbo nelle sue implicazioni armoniche. Un analogo criterio viene applicato, con misura spartana, a Hallelujah del cantautore folk americano Sam Amidon. Introdotta dalla sola chitarra, Exit Music (for a Film) dei Radiohead procede con la minuziosa analisi delle cellule melodiche, fino all’esplosione finale. Più aderente al dettato originale, ma non per questo meno godibile, risulta il trattamento riservato a un brano di Neil Young (Danger Bird, a meno che chi scrive non abbia preso un granchio). Un progetto gradevole e intelligente, che sarà presto documentato da Parco della Musica.

Com’è ormai consuetudine, Vicenza Jazz New Conversations ama offrire anche dei concerti di mezzanotte ambientati in spazi prestigiosi. Alla mezzanotte del 17 maggio, al Cimitero Maggiore, è stato possibile apprezzare la peculiare poetica dell’organettista Pierpaolo Vacca. Sardo di Ovodda, paesino della Barbagia in provincia di Nuoro, Vacca ha presentato materiale tratto dall’album «Travessu», recentemente pubblicato dalla Tŭk Music di Paolo Fresu. In lingua sarda travessu significa rovescio, contrario e anche bastian contrario. Il presupposto dell’operato di Vacca – cresciuto assorbendo l’humus della tradizione popolare sarda – è quello di attingere a piene mani a quel patrimonio, cercando di fornirne la sua personale interpretazione e in certi casi, appunto, rovesciandola. Il repertorio da cui trae spunto è fatto di balli e canti legati a feste, cerimonie e liturgie. Avvalendosi dell’elettronica, nella fattispecie effetti controllati da una pedaliera e laptop con basi registrate, Vacca riesce a creare efficaci bordoni e scenari sonori su cui innestare felici invenzioni melodiche e scoppiettanti improvvisazioni.

Negli ultimi tre brani in programma si è unito a Vacca anche Paolo Fresu, riavvicinandosi così alle sue radici attraverso un rapporto più intimo e genuino con la melodia. Poche ore prima, al cinema Odeon, Fresu aveva introdotto la proiezione del film-documentario Berchidda Live, realizzato da Gianfranco Cabiddu, Michele Mellara e Alessandro Rossi. Una documentazione vivida ed esauriente, nonostante alcuni tratti un po’ frammentari e dispersivi, del percorso compiuto dal festival Time in Jazz a partire dal 1987, tanto da trasformare il paese natale di Fresu, piccolo centro del Logudoro di 2600 abitanti, in un punto di incontro e di riferimento per una miriade di musicisti internazionali.

Alla mezzanotte del 18 maggio lo spettacolare Salone della Basilica Palladiana ha ospitato il piano solo di Paolo Birro, impegnato in un programma intitolato Piano Reflections. Giocando anche sui titoli di alcune composizioni eseguite, l’obiettivo del pianista vicentino era quello di compiere un excursus attraverso alcuni capisaldi della letteratura jazz afroamericana. Con una triade iniziale composta da Reflections in D, In a Sentimental Mood e It Don’t Mean a Thing, Birro ha celebrato l’arte pianistica di Duke Ellington, in passato sottovalutata dalla critica. Nell’approccio di Birro a questi materiali – così come alla conclusiva Retrospection – confluiscono grande sensibilità armonica, notevole controllo delle dinamiche, senso del blues e swing genuini, oltre alla capacità di alternare sapienti pause. Tutte caratteristiche che contraddistinguono la cifra di Thelonious Monk di cui Birro ha riproposto Reflections e ‘Round Midnight, evitando accuratamente trattamenti di maniera e, anzi, indagandone sagacemente ogni singola cellula. Dal repertorio di un altro gigante della tastiera, Bud Powell, Birro ha tratto I’ll Keep Loving You, accarezzando i risvolti melodici della ballad, e Oblivion, di cui ha sviscerato adeguatamente le scattanti linee di matrice bop. Infine, apparentemente fuori contesto, da Lonesome Lover di Max Roach ha saputo estrarre (senza enfatizzarlo) l’ampio respiro, degno di un inno gospel. Tutti validi esempi della capacità di costruire architetture sonore. A maggior ragione, nella città che ospita tanti capolavori del genio di Palladio.
Enzo Boddi