Unscientific Italians Play the Music of Bill Frisell

Cristiano Arcelli, Francesco Bigoni, Piero Bittolo Bon, Zeno De Rossi, Rossano Emili, Danilo Gallo, Federico Pierantoni, Mirco Rubegni, Alfonso Santimone, Fulvio Sigurtà, Filippo Vignato: Primo posto nel Top Jazz 2021 come gruppo italiano dell’anno

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Ognuno di noi tiene stretti al cuore i propri supereroi: che siano reali o di fantasia così è, poco importa. Sono supereroi coloro che nei modi più svariati hanno infuso in noi quel quid utile ad una virata nella nostra – più o meno – umile esistenza su questo pianeta. Un supereroe può essere fonte d’ispirazione assoluta di più individui contemporaneamente, seppur su piani temporali differenti, e così è stato per Alfonso Santimone, Francesco Bigoni, Filippo Vignato e Zeno De Rossi, quattro protagonisti dell’attuale scena jazzistica europea che, dando vita all’originale ensemble Unscientific Italians, hanno reso omaggio a uno dei loro supereroi, totalmente reale e – pensate un po’ – vivente, qual è Bill Frisell. A Musica Jazz hanno raccontato questa avvincente avventura musicale che di recente ha esordito su disco per la nuova etichetta HORA Records.

Partiamo dalla genesi del progetto: come e quando ha preso vita?

Zeno De Rossi: Il progetto ha preso vita intorno al 2007, in seno al collettivo El Gallo Rojo di cui facevamo parte io, Alfonso e Francesco, oltre ad altri musicisti presenti all’interno di Unscientific Italians, come Danilo Gallo, Piero Bittolo Bon e Beppe Scardino. All’epoca avevamo discusso la possibilità di creare un ensemble piuttosto consistente per lavorare a dei progetti monografici dedicati ad alcuni dei nostri musicisti contemporanei preferiti. Bill Frisell fu il primo nome che venne proposto e Alfonso accettò molto volentieri la sfida di confrontarsi con il repertorio di uno dei musicisti più influenti per la nostra generazione. Nel 2008 il Centro d’arte di Padova invitò il collettivo El Gallo Rojo per una due giorni all’interno del suo prestigioso cartellone e quella fu l’occasione giusta per presentare il lavoro. Purtroppo poi il progetto fu accantonato per anni per vari problemi, non ultimo quello di portare in giro un gruppo di queste dimensioni, oltre alla difficoltà di organizzare prove visto che tutti i componenti erano molto impegnati su più fronti. Fortunatamente negli ultimi due anni abbiamo deciso di riprendere le fila del discorso; siamo riusciti a ripartire grazie anche all’aiuto del Jazz Club Ferrara, che ci ha dato la possibilità di provare, e del Teatro Asioli di Correggio, che ci ha messo a disposizione la sua sede per registrarlo.

Questa scelta ambiziosa non ha incusso nessun timore, quantomeno iniziale?

Francesco Bigoni: Più che timore reverenziale, abbiamo discusso dell’imbarazzo che un approccio superficiale al repertorio friselliano ci avrebbe portato: il rischio era quello di non approfondire il rapporto col materiale ed andare ad aggiungersi alla sfilza di omaggi che attualmente sovrappopolano la produzione discografica nel nostro ambito. Alfonso è stato molto bravo a tirar fuori le idiosincrasie del Frisell compositore e chitarrista tramite la sua scrittura orchestrale. Sta al pubblico giudicarne gli esiti; dall’interno posso dire che è certamente un percorso ricco di ostacoli tecnici, ma anche di arricchimento personale e di occasioni di confronto soprattutto in tema di timbro e blend orchestrale.

In che modo vi siete accostati quindi al repertorio friselliano?

Alfonso Santimone: Si tratta di un approccio caratterizzato da due diverse fasi interdipendenti. La prima fase è stata di mia pertinenza e ha comportato mettere in moto la mia immaginazione sonora. È un modus operandi che adotto istintivamente quando devo scrivere nuova musica. Anche quando mi occupo di musica altrui, cioè non di mia composizione, molto raramente – per non dire mai – penso in termini di «arrangiamento». È come se avessi bisogno di far rinascere dentro di me quella musica sentendone il sound complessivo tutto insieme. Comincia poi un processo di «scomposizione» di questo suono che mi gira in testa e il processo di riscrittura e orchestrazione avviene materialmente in poco tempo. In sintesi penso molto a lungo e agisco in fretta. Tratto con le pinze il termine «arrangiamento» perché trovo che ogni musica abbia in sé il DNA necessario alla sua «materializzazione» in contesti diversi e che non possa prendere una forma arbitraria appiccicata a posteriori. Questo è ancora più vero nel caso di musiche che portano i segni distintivi della personalità del compositore. In questa mia prospettiva la musica di Bill è un esempio paradigmatico. L’opera di scrittura e orchestrazione che ho realizzato per questo nostro lavoro non poteva poi prescindere dall’essere pensata in relazione a un particolare insieme di musicisti improvvisatori. Ho mantenuto nella struttura ampi spazi di relativo vuoto, dove ritmica e solisti potessero sviluppare la scrittura improvvisando nel modo più libero e personale possibile. Ho limitato in modo significativo l’uso di background orchestrali completamente scritti, tanto che in alcuni casi sono improvvisati a partire da alcune indicazioni che avevo fissato in partitura. Ho anche limitato al massimo l’utilizzo del pianoforte per la sua natura intrinsecamente armonica e anche per non inserire un elemento timbricamente estraneo alle sonorità fiatistiche; inoltre dover dirigere l’ensemble durante le prove, i concerti e le sedute di registrazione mi toglie molte energie e arriverei al piano piuttosto spompato.

Volevo che questo ensemble avesse le modalità operative di più di un combo allargato che di un’orchestra ridotta, allo scopo di permettere quella mobilità e fluidità che sono l’anima della musica di Bill e a ben guardare di tutto il jazz (e non solo) che amo.

Un luogo dove si cammina costantemente sull’orlo del possibile e dell’impossibile. Un luogo dove spingersi oltre la propria zona di sicurezza, ascoltandosi e «sentendosi» come un solo organismo. E senza mai percepire la paura di precipitare…

Tutto questo porta alla seconda fase, che ha una dimensione collettiva e che rappresenta la realizzazione «udibile» della fase precedente. Questo nostro gruppo di amici è una tribù che condivide linguaggi e immaginari, pur con i vari differenti dialetti. Una molteplicità di approcci che nasce da una rete fatta di amicizia, condivisione musicale ed esistenziale. Questa musica è pensata soprattutto per questo insieme di musicisti.

Con che criterio sono stati selezionati i brani che costituiscono l’album?

AS: Ho scoperto Bill Frisell nella mia adolescenza tramite il disco «Before We Were Born», che regalai a mio fratello Daniele (grande chitarrista) per il suo compleanno, credo dei 14 o 15 anni. Un titolo che, riguardando alla mia storia musicale, sembra una profezia. Qualche anno più tardi, nel 1993, il concerto del trio di Bill con Kermit Driscoll e Joey Baron fu un’esperienza iniziatica per me. Uscii dal Teatro Nuovo di Ferrara volando a tre metri da terra. Quel concerto mi ha aperto porte su interi mondi. Secondo me quello è un gruppo che ha cambiato il modo di suonare in trio quanto altri trii fondamentali nella storia del jazz. 

Le mie scelte musicali sono sempre guidate dall’emozione. Le cose che suono o che scrivo devono portarmi all’estasi, contemporaneamente a qualche anno luce da terra e a qualche chilometro sotto terra. Zeno, ai tempi della prima lavorazione di questo progetto (nel 2007), ogni tanto mi proponeva qualche titolo del repertorio di Bill. Alla fine ciò che ha messo in moto la mia immaginazione è stato soprattutto quell’insieme di composizioni friselliane a cavallo degli anni Ottanta e Novanta. È stata una scelta emotiva… come al solito.

Quali le modalità di scelta degli strumenti che costituiscono l’organico?

AS: Le mie intenzioni erano quelle di ricreare con gli ottoni e le ance il suono della chitarra di Bill, il suo universo sonoro. In questo senso avere quattro ottoni e quattro ance (con diversi doublings di clarinetti e clarinetti bassi) mi è parso un buon bilanciamento tra un sound legato alla big band jazzistica e contemporaneamente a qualcosa dal sapore più cameristico. La mia scrittura è piuttosto lontana dal suono della big band (che comunque adoro e conosco bene anche nella pratica «comune») e direi che la mia orchestrazione di «Before We Were Born», title-track di apertura del disco di cui sopra, esemplifica bene le modalità che ho adottato. È un gioco di sottili risonanze, di polifonie disarticolate (le definisco «poglifonie» con la «g» dura che si riferisce al termine «glitch») dove la dialettica interna all’ensemble gioca a rimpiattino con le (a)sincronie. Attraverso questa modalità ho inteso ricreare il dialogo elusivo tra chitarra acustica e chitarra elettrica che è l’esordio di questa composizione di Bill. Ricordo ancora la magia del primo ascolto di oltre trent’anni fa. 

Nel nostro lavoro con Unscientific Italians c’è poi una presenza discreta dell’elettronica, che è un altro tratto saliente del linguaggio friselliano. I suoi stompbox sono parte integrante del suo linguaggio di improvvisatore e vanno ben oltre la semplice decorazione e la naïveté novelty. Francesco elabora dal vivo gli ottoni con il suo laptop e io i clarinetti con il mio. In conclusione posso dire che anche questo lavoro è per me di grande stimolo creativo, perché metto a punto e declino diversamente idee che elaboro anche nel contesto della mia musica, sia come improvvisatore che come compositore, e in generale in tutti i diversi aspetti della mia attività artistica. Dissemino sempre qualche indizio sul luogo del delitto…

Come ha accolto questo progetto Bill? 

ZDR: Bill ha accolto con molto entusiasmo l’idea fin dall’inizio ed è felicissimo del risultato: me l’ha ribadito proprio qualche tempo fa a Roma, dove l’ho incontrato in occasione del bellissimo concerto del suo trio con Thomas Morgan e Rudy Royston. Se ricordi bene, con Unscientific Italians fummo ospiti del Torrione di Ferrara proprio il giorno prima che lui suonasse con il suo progetto Harmony. Noi quel giorno iniziammo la registrazione del disco al Teatro Asioli di Correggio, e la sera ti mandai un piccolo video di un brano che avevamo appena registrato da fargli vedere e sentire: si trattava dell’orchestrazione visionaria di Alfonso di «Before We Were Born». Il giorno dopo Bill mi scrisse entusiasta ringraziandoci per quello che stavamo facendo, usando parole incredibili di stima che, come puoi immaginare, hanno riempito tutti noi di enorme soddisfazione. 

Un volume 1 presuppone l’uscita di (almeno) un secondo volume…

Filippo Vignato: Ben detto: il volume 2 è già pronto e la sua uscita è prevista ad un anno di distanza dal volume 1, quindi a primavera 2022.  Includerà materiale registrato nella stessa seduta del primo volume e altro materiale più recente. Entrambe le registrazioni si sono svolte all’Asioli di Correggio, bellissimo teatro all’italiana dalla splendida acustica particolarmente adatta al suono di un large ensemble come questo: l’aria e la naturalezza del suono rimangono intatte ascoltando il disco così come la spazialità tra gli strumenti. A dirla tutta, questo lavoro ci ha appassionato così tanto che è già nell’aria l’idea di un volume 3, che magari possa andare a focalizzarsi su un altro periodo della coloratissima tavolozza friselliana. 

Due parole sulla copertina dell’album e sull’etichetta, la nuova HORA Records…

FV: La copertina del disco è frutto di due menti geniali, e tra i nostri artisti preferiti. Il primo è nuovamente Bill che stavolta, in veste di disegnatore, ci ha donato alcuni suoi disegni tra cui quello scelto per la copertina. Il secondo è Francesco Chiacchio, straordinario illustratore fiorentino che ha completato l’opera disegnando a mano tutto il testo presente in copertina e sul retro. 

Questo disco è la prima pubblicazione dell’appunto neonata HORA Records, una nuova etichetta discografica fondata da me assieme a Zeno ed altri musicisti della scena creativa italiana. HORA è una struttura indipendente e completamente di proprietà di noi musicisti attraverso la quale produrre, pubblicare e distribuire alcuni dei nostri lavori nella più totale libertà creativa. Un’avventura che è appena iniziata ma che ci sta già dando tante soddisfazioni. Per tutti gli aggiornamenti sulle prossime uscite invitiamo a visitare il nostro sito (horarecords.com).

Dove potremmo ascoltare prossimamente gli Unscientific Italians? 

FV: L’interesse da parte dei promoter è notevole ma essendo un gruppo numeroso e composto da musicisti richiestissimi non è semplice programmare i concerti. Abbiamo deciso di concentrare gli sforzi in vista dell’uscita del secondo volume e presenteremo dal vivo l’intera opera a partire dalla prossima estate.

«The Unscientific Italians Play Their Own Music». È uno scenario futuro possibile?

FB: Chiacchierando con Zeno abbiamo, tra il serio e il faceto, ipotizzato un prossimo lavoro dedicato alla musica di Don Byron, musicista che sentiamo vicino a Bill Frisell per una serie di ragioni: l’anagrafe, l’incrocio dei loro percorsi, la trasversalità, la grande capacità di restituire il suono della New York degli anni Novanta (e non solo). Sarebbe un lavoro stimolante, così come è allettante l’idea di aprire ai contributi dei molti compositori e arrangiatori che fanno parte dell’ensemble. In fondo, però, la musica di Bill Frisell è un mare così vasto che si fa fatica a immaginare di uscirne!

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