In ricordo di Ethel Ennis

La quasi dimenticata cantante di Baltimora (1932-2019) è stata una significativa interprete in possesso di un fraseggio plastico e arioso, capace di leggerezza e puntualità ritmica, di grazia di enunciazione e intonazione, di una sobria evocatività: è doveroso ricordarla

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 Compositore dalla brillante ispirazione melodica, versificatore arguto e sofisticato, Cole Porter (1891-1964) è stato dopo Irving Berlin – e prima di Frank Loesser, Meredith Willson e Stephen Sondheim – il più completo e autonomo tra i grandi songwriter del Novecento: nativo del Midwest, di Peru, Indiana, è stato capace di assorbire il linguaggio e gli umori della New York ebraica e di personalizzarli attraverso un ampio ventaglio di registri, dal vibrante romanticismo di Night And Day al fine umorismo di You’re The Top, dal piglio swingante di I Get A Kick Out Of You al languido lirismo di So In Love e alla sensuale malizia di Let’s Do It. Scritta per un’eterogenea «rivista» che esordì allo Ziegfeld Theatre sul declinare del 1944, The Seven Lively Arts, lanciata sul palcoscenico da Nan Wynn, la vibrante e ardente canary appalachiana che da breve, a Hollywood, aveva doppiato Rita Hayworth nei kerniani Cover Girl e You Were Never Lovelier, e subito immortalata su disco dal quintetto di Benny Goodman (con la voce insieme ombrosa e accorata di Peggy Mann, italoamericana di Yonkers), l’agrodolce Ev’ry Time We Say Goodbye è una delle grandi ballads firmate da Porter: melodicamente, si sviluppa su una fine alternanza di respiro lungo e respiro breve, liricamente, concilia sentimentalismo e icasticità letteraria. E’ inoltre la rara canzone che permette al testo di commentare le sue stesse caratteristiche musicali, quando – nell’ultima parte della struttura ABAB – allude con virtuosistica eleganza al cambiamento di armonia «da maggiore a minore», contrastando in questo scatto di bizzarria l’apparente convenzionalità (già riscattata dalla eufonica prosaicità della rima identica) dell’immagine ornitologica dei versi precedenti: «When you’re near there’s a such an air of spring about it / I can hear a lark somewhere begin to sing about it / There’s no love song finer / But how strange the change from major to minor…» 

La sua stessa origine teatrale, oltre a quel tono di intima quanto scettica preghiera, ha a lungo mantenuto la canzone prevalentemente sul versante femminile: benché il setoso Gene Howard con la big band di Stan Kenton avesse data un’immediata risposta su Capitol al Columbia di Goodman e almeno i Delta Rhythm Boys, nel 1947 (poi i Four Freshmen e molto più tardi gli Hi-Lo’s) e il Joe Williams dell’album del 1960 «Sentimental & Melancholy» (seguito da Sammy Davis Jr, Dick Haymes, Tormé e – una scelta per lui quasi inevitabile – dall’anziano Little Jimmy Scott di «All The Way») abbiano saputo modulare la vulnerabilità della canzone da una prospettiva maschile. E forse anche grazie all’aggancio blue di quella sua ambiguità armonica, o forse grazie ai chiaroscuri stessi delle liriche, Ev’ry Time è diventato nel tempo uno degli standard preferiti dalle cantanti di jazz, in buona parte afroamericane. Tra le altre – in tante luci distinte – lo hanno registrato Maxine Sullivan (con Teddy Wilson nei giorni stessi in cui «apriva» la rivista a teatro, e poi nella tarda maturità), Mabel Mercer (l’Atlantic «Sings Cole Porter») e due grandi «stiliste» bianche del Midwest, Jeri Southern nel decennale della canzone e June Christy nei mirabili duetti con Kenton, le quattro grandi Ella Fitzgerald (nelle session porteriane su Verve, guidate da Buddy Bregman), Sarah Vaughan (con il duo Mundell Lowe-George Duvivier), Dinah Washington (con un arrangiamento di Ernie Wilkins per l’orchestra di Quincy Jones) e Carmen McRae (nell’album Kapp arrangiato da Luther Henderson, del 1959, che comprendeva un altro grande standard di Porter, I Concentrate On You), le soulful ladies Della Reese, Gloria Lynne e Irene Reid, le attempate signore di Brooklyn, Thelma Carpenter e Lena Horne, Nina Simone, Betty Carter (in un memorabile duo con Ray Charles e poi – anche su ispirazione di Rollins e Coltrane – come pezzo forte nel suo più creativo repertorio), le Bey Sisters (con Andy Bey), Irene Kral e Meredith D’Ambrosio e Rosemary Clooney in «For The Duration», l’album Concord rievocativo del repertorio della Seconda Guarra Mondiale, e nel nuovo secolo Mary Stallings nel suo Goodbye Medley. 

E – in un lp Atlantic del 1966 di sempreverdi e temi pop contemporanei rivisitati alla sua tormentosa ma controllata maniera bluesy – Esther Phillips. L’arrangiamento per big band di Oliver Nelson (che un anno prima aveva curato anche la bellissima e misteriosa cornice per la versione di Irene Reid, tra circospetta e ansiosa, nel memorabile album Verve «Room For One More»), in un gioco prezioso di crescendo e rallentando, accompagna con incisiva eleganza i contrasti e slittamenti di feeling della canzone, guidando la cantante texano-californiana ad un’interpretazione di grande puntualità lirica e ritmica. Esther fa riverberare l’idea della partenza come simulacro di morte e attraverso l’eloquente alternanza di asciuttezza e di decorazione (il suo tipico tremolo, il variegato lavorio melismatico, l’accentazione e dilatazione acidula di parole come «minor») accosta l’idioma porteriano – senza tradirlo – al linguaggio esistenziale del blues. E quel «I feel so bad» aggiunto al testo – con schietto tempismo – nella fremente coralità della coda, sembra sintetizzare la fluente, energica tensione colloquiale che il canto individua nella scrittura di Porter e amplifica nel segno della tradizione nera. 

Una lettura ben più moderata ma a suo modo altrettanto esemplare, quasi un decennio prima di Esther, è quella che nelle prime fasi di una carriera discografica iniziata proprio nel segno di Porter (con Love For Sale e I’ve Got You Under My Skin) aveva dato di Ev’ry Time We Say Goodbye la venticinquenne Ethel Ennis, piccola maestra di raffinata e luminosa dizione e acuta penetrazione dei testi: una cantante dalla calda e suggestiva tavolozza castana capace come poche di affidarsi – lo avrebbe poi sottolineato Arnold Shaw, cronista della vocalità nera – a quattro caratteristiche espressive tra loro combinate e coordinate (tanto da divenire quasi sinonimi): effortlessness, economy, taste, understatement. Questa gentilmente swingante combinazione di grazia, economia e buon gusto, con un tocco appena di perplessità e disincanto a sottolineare il tema del distacco, definiva l’interpretazione porteriana di Ethel: in una cornice sobria e cool in cui la presenza del vibrafono, sin dall’introduzione, sembrava alludere a quella di Red Norvo tanto nella versione del quintetto di Goodman quanto in quella (cauta e deliziosa) di Maxine Sullivan con la combo di Teddy Wilson.

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Come ben illustra la lettura di Ev’ry Time We Say Goodbye, quelle di Ethel Llewellyn Ennis (1932-2019), creatura di Baltimora, al pari di Lady Day (e di pianisti di molte generazioni – Eubie Blake, Ellis Larkins, Cyrus Chestnut), figlia di un barbiere e di una pianista-organista in una chiesa metodista, dove lei stessa si esibì giovanissima al pianoforte, erano una sensualità e una soulfulness più sfumate – anche se destinate nel tempo a rafforzarsi – rispetto a quella di tante sue coetanee tra le cantanti nere di area jazzistica (vengono alla mente, come chiaro esempio, Dakota Staton o Gloria Lynne). Ethel era una elegante balladeuse di generica matrice fitzgeraldiana – nel fraseggio plastico e arioso, nella leggerezza e puntualità ritmica, nella grazia di enunciazione e intonazione, nella sobria evocatività del registro bruno – mitigata da un asciutta combinazione di candore e arguzia filtrata attraverso un altro modello, quello, appunto, di Maxine Sullivan.

L’album dell’esordio, registrato nell’arco di poche ore sul finire del 1955, con un quartetto di Hank Jones e Kenny Clarke («Ethel Ennis Sings Lullabys For Losers»), venne prodotto dal suo mentore e manager George Fox, gestore del popolare club di Baltimora, il Red Fox, che l’aveva rivelata al pubblico nero e bianco della città di Edgar Allan Poe (città di confine tra Sud e Nord, ma il locale era pienamente integrato). Il disco, pubblicato su etichetta Jubilee, mostrava una cantante in cerca di una completa definizione ma già seducente: le flessibili curve ambrate, le cangianti pennellate di vibrato e certe orlature amabilmente, espressivamente essiccate, certi piccoli tratti blasé che parevano suggerire Bobby Troup e riflettevano l’epoca miscelandosi all’eco di una delicatezza à la Jeri Southern (ma lievemente più world weary), si susseguivano in soffici e sensibili letture del già citato Love For Sale o di Blue Prelude, di You’d Better Go Now (diretto richiamo a Jeri) o del finemente arcano e sognante Off Shore, dalla grazia disarmante. Una grazia e una cauta melodiosità, arricchite da una grana fine quanto eloquente, che in un primo, non fortunato tentativo di successo commerciale ben si adattano anche al clima country-pop di un solitario 45 giri ATCO di un anno dopo, A Pair Of Fools, firmato dallo specialista Bennie Benjamin (quello di Wheel Of Fortune, lo hit di Kay Starr) e incorniciato da coro e orchestra di Ray Ellis (prima di «Lady In Satin»), e che tra il 1957 e il 1958 illuminano in una luce sempre delicata ma più matura due album Capitol: «A Change Of Scenery» (con – oltre a Ev’ry Time… – un Taking A Chance On Love swingante con relax e con un garbo sottilmente alusivo e un prezioso My Foolish Heart ben arrangiato da Neal Hefti su spazi larghi e nudi) e «Have You Forgotten?», con un’orchestra diretta da Sid Feller in una vasta gamma di atmosfere, dalle eleganti sinuosità saturnine di Serenade In Blue alla vivace arguzia di A Little Bit Square But Nice, la voce di Ethel che danza mite sulle capricciose rime di Bob Haymes, chiosata da vibrafono e chitarra: in contrasto con le registrazioni più schiettamente jazzistiche con la band goodmaniana all’Esposizione di Bruxelles del 1958, tra cui un serenamente flessuoso ‘Deed I Do, uno squisito medley Arlen-Noble-Porter che prende il via da I Gotta Right To Sing The Blues, miscela ideale di Ella e Maxine, e un rapido e potentemente orchestrato A Fine Romance con il grande (e più colloquialmente estroso) Jimmy Rushing che si alterna al microfono e si unisce a lei nel breve unisono conclusivo. 

Sull’onda delle apparizioni con Benny Goodman, all’inizio degli anni Sessanta Ethel era in attesa di essere consacrata come erede delle grandi. Ella la citava come tale, la ospitavano locali come il Village Gate di Manhattan e il Jazz Workshop di Boston, il Playboy Jazz Poll la proclamò cantante dell’anno nel 1961, e tre anni più tardi la Ennis fu una delle attrazioni vocali del Festival di Newport, accompagnata dal trio di Billy Taylor. Leonard Feather la celebrò come pregevole discepola fitzgeraldiana (e come lei, occasionalmente, capace di un ottimo scat) ma caratterizzata da un timbro originale quanto affascinante. Gli lp RCA incisi nell’arco di pochi mesi tra il 1963 e il 1964 aggiunsero finezza e risonanza alle interpretazioni: a partire dal pop di classe e dal romanticismo vagamente esotizzante di «This Is Ethel Ennis», dal quale traspare il gusto per sottolineare gli importanti dettagli del racconto musicale e lirico, facendo risaltare suono e colore di parole come «hunger» e (nel senso di inebriato) «high», e di definire del racconto le atmosfere, come nella felice combinazione swing-latina del Joey di Frank Loesser (una delle diverse, felici esplorazioni della moderna Broadway) e nell’evocazione delle solitudini notturne del jazz in Night Club, un tema che recava la sua firma. L’album fu immediatamente replicato da un’altra raccolta vigorosamente orchestrata da Sid Bass, «Once Again…», con un repertorio dall’analogo, sofisticato equilibrio tra contemporaneo e standard, come un nuovo, superbo Love For Sale aggiornato ritmicamente (quasi nello spirito di Oliver Nelson) e letto con un disteso, maturo e a suo modo soave cinismo: e da quelli che emersero dalle prolungate session del luglio 1964. «Eyes For You» la vede perfettamente integrata in swing da un quintetto di Jimmy Jones (con Jimmy Wells, vibrafonista di Baltimora) su un glorioso repertorio di standard, dal pulsante staccato di Too Close For Comfort al morbido abbandono (non-holidaiano) di God Bless The Child: esemplare è un Angel Eyes cesellato in un sobrio quanto eccitante crescendo e giocato tra finissimi ed eloquenti contrasti di dinamica, tra sommessi fruscii, accentazioni risonanti ed eleganti silenzi. «My Kind Of Waltztime» è più dialettico ed eccentrico, nella cornice orchestrale creata da Dick Hyman (con sonorità meno usuali, clavicembalo, flauti) e attraverso un programma articolato tra Rodgers e Hammerstein – l’iniziale, cordiale Oh What A Beautiful Morning – e Irving Berlin – l’appropriatamente conclusivo The Song Is Ended, dalle lunghe e sorprendenti sospensioni – nel quale Ethel mostra la singolare capacità di controllare anche il fortissimo con elegante naturalezza, come alla fine del crescendo dell’ellingtoniano Petite Waltz, e di modulare atmosfere fiabesche o sognanti con asciutta colloquialità.

Questi album definirono il suo momento di perfetta concentrazione artistica e di massima visibilità, tra spettacoli televisivi, incontri radiofonici con Ellington e apparizioni all’Apollo di Harlem con Cab Calloway (altra creatura di Baltimora) e al prestigioso (ma anche famigerato) Astor Club di Mayfair. Ci furono anche aspetti commerciali. 45 giri RCA come San Juan, accattivante bozzetto caraibico, e il ruggente I’ve Got That Feeling, altro tema dal respiro latino, portarono la voce di Ethel nei jukebox nella sua veste più sensuale ed esuberante (e del secondo esiste anche una irresistibile versione Scopitone per i video-jukebox allora brevemente diffusi che mostra la sua ardente e vibrante presenza scenica, in una simpaticamente fasulla ambientazione in Technicolor da locale notturno). E una imprevedibile stravaganza. Nel 1967 la canzone del titolo del lungometraggio di Jules Bass Mad Monster Party?, parodia in stile puppetoon dei mostri hollywoodiani (animata anche dalle voci di Boris Karloff e Phyllis Diller), trova in lei un’interprete impeccabile: le ombre e anche la relativamente rara quanto efficace asprezza (il mad ripetuto del titolo) della sua voce ambrata danno vita a un misterioso racconto di notti gelide, luci strane e creature nascoste, in un’orchestrazione da tema di James Bond. Ma Ethel non era portata per le fatiche e i compromessi dello show business, e preferì, ancora giovane, lasciare New York, rientrare a Baltimora e concentrare lì, come piccola regina del jazz a livello locale, carriera e arte: forse il motivo principale della successiva, graduale perdita di carisma. Nel gennaio del 1973 ebbe ancora un lampo di celebrità. Spiro Agnew, il vice-presidente, era un suo fan e la invitò nella vicinissima Washington a esibirsi per la seconda inaugurazione di Richard Nixon: e lei cantò, a cappella, la versione più autenticamente jazzistica di Star Spangled Banner che si sia mai ascoltata. Quello stesso anno completò un album inciso nella sua città con un’orchestra arrangiata dal fratello Andrew Ennis, sassofonista tenore: il titolo era «10 Sides Of Ethel Ennis» e raccoglieva dieci composizioni di Gladys Shirley (nota per aver firmato Experience Unnecessary, uno dei dischi commerciali della Sarah Vaughan metà anni Cinquanta), tra le quali spiccava, cantata con misurata eloquenza soulful e fittamente commentata dalla chitarra funky del concittadino O’Donel Levy, la tormentosa ballad I Can’t Talk To A Wall. 

A Baltimora, nel cuore degli anni Ottanta, la cantante gestì insieme al marito, un giornalista del Baltimore Sun, il jazz club a lei intitolato, Ethel’s Place: e in altri locali della zona registrò abbastanza oscuri album dal vivo, «Ethel» del 1980 (su una sua etichetta, EnE) e «Ennis Anyone?» del 2005 (pun tennistico che suggeriva lo squisito lp RCA di Matt Dennis di mezzo secolo prima, «Dennis, Anyone?»). Qui, di fronte al suo pubblico, Ethel esprimeva la personalità più bluesy, con arguti e disinibiti elementi di vaudeville che affiorano in letture di Empty Bed Blues, Honeysuckle Rose o Brother Bill (insieme a più pallidi tentativi pop-soul come Deja Vu): sorta di alternativa scherzosa – come lei stessa ha dichiarato – alla sua indole e educazione ladylike. Il primo album in studio della maturità avanzata, «Ethel Ennis» (su Hildner, registrato a New York nel 1994), recuperava invece la sempre intrigante atmosfera del suo Night Club in un programma di grandi standard dilatati e personalizzati in un clima di ombroso intimismo, come But Beautiful e un suggestivo I Fall In Love Too Easily dagli spazi larghissimi (Marc Copland al piano), con un finale dal liquido scat quasi bettycarteriano, o (lei stessa alla tastiera) quel singolare bozzetto narrativo, Something Cool, legato al nome di June Christy. Un cd seguito nel 1998 dal più dinamico «If Women Ruled The World» (Savoy Jazz), con piccole formazioni di Marc Copland e Gene Bertoncini e un repertorio (scelta allora originalissima) tutto creato da songwriters donne, anche oltre il jazz: Joni Mitchell e Joan Armatrading, la Ann Ronell di un Willow Weep For Me obliquamente e arcanamente rielaborato, la Carole King di So Far Away, la stessa Ethel dello scettico Hey You – un registro questo, tra scetticismo e cinismo, che emerge qua e là nel raffinato romanticismo understated della sua immagine canora: quasi una proiezione, in effetti, del mix dell’antica ballad di Porter.

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