Townships: Sulle vie della musica, della grazia e dell’orrore

Breve excursus senza pretese di completezza, diciamo più una serie di appunti, sulla lunga e tormentata vicenda delle mille musiche che hanno animato il Sudafrica

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Khulu, Monthy e io bevevamo allo shebeen di Shirley Scott. Era il nome che davano alle birrerie dove si suonava solo jazz. Era una maniera per tenere lontani i cafoni delle townships, che preferivano la mbaqanga e consideravano il jazz una musica per gente altolocata a cui piaceva porsi al di sopra della gente comune, quelli delle townships». Così scriveva Mbulelo Vizikhungo Mzamane, un autorevole professore e poeta sudafricano, in «The Children of Soweto» un romanzo pubblicato nel 1982 e che parla delle rivolte degli studenti di Soweto (un’area urbana di Johannesburg e la più grande township di tutto il Sudafrica) che si opposero al metodo di insegnamento che gli Afrikaans (i bianchi discendenti dagli olandesi che per primi avevano colonizzato il Sudafrica) imponevano nelle scuole. Un libro importante per rendersi conto non solo delle tensioni sociali che da sempre affliggono una delle terre più belle del mondo ma anche di come, per molto tempo, la musica abbia rappresentato una sorta di spartiacque per individuare gruppi di persone che si guardavano in cagnesco anche attraverso di essa. Oggi le cose sono cambiate, ma è certo che per molto tempo i jazzisti sudafricani hanno guardato dall’alto in basso, quasi con disprezzo, la mbaqanga (basso poderoso, raffiche velocissime di chitarra, canti corali) una musica semplice, con pochi accordi, sfacciatamente commerciale e dove giravano soldi facili. Non è un caso che questa musica, con il suo suono duro e aggressivo, sia stata poi assorbita dal funk e dal soul per creare la base di quello che è stato definito il «pop delle townships». Ma per meglio comprendere quello che stiamo scrivendo e per capire come il jazz abbia in Sudafrica messo le radici molto più che in qualsiasi altro stato africano, dobbiamo andare un po’ indietro e partire dal concetto che il principale mezzo di espressione delle popolazioni rurali sudafricane è stata la musica corale. Proprio così, perché, al contrario di quello che si è portati a pensare, dal punto di vista musicale il Sudafrica all’inizio era una regione povera di percussioni. Quando, alla fine dell’Ottocento, sorsero le città minerarie, i lavoratori che vi venivano impiegati portarono con sé la loro musica e i quartieri di quelle città iniziarono ad echeggiare del suono dei gruppi tradizionali corali di ingoma ebusuku (il termine zulu con cui veniva indicata appunto la musica corale) i cui solisti passarono dagli strumenti a corde tradizionali a suonare alcuni strumenti tipici della cultura occidentale (la chitarra, il violino, la fisarmonica). 

township

Nelle townships iniziò a circolare una nuova musica, chiamiamola più urbana, e negli shebeens (le birrerie succitate) i tastieristi crearono una miscela di ragtime e di musica tradizionale, il marabi. Erano gli anni Trenta del secolo scorso e questa nuova musica, che forse prendeva il nome da Marabastad, un quartiere di Pretoria (la capitale amministrativa del Sudafrica), con le sue chitarre e con i suoi ottoni formò strumentalmente buona parte dei jazzisti che poi si sono fatti un nome anche al di fuori dei confini sudafricani. La febbre del marabi non durò molto – una decina d’anni – anche perché si trattava di musica da ballo che verso la fine degli anni Trenta fu sostituita nei gusti del pubblico dallo Swing, ma la sua carica vitale ispirò una serie di musicisti tra i quali Abdullah Ibrahim, che nel 1974 (all’epoca si chiamava ancora Dollar Brand) incise «Mannenberg», in cui riproponeva la forza ripetitiva del ritmo marabi filtrata dalla sua raffinata impostazione classica. Già da allora ci furono delle contrapposizioni che vedevano da un lato i ceti benestanti che rivolgevano le loro attenzioni a orchestre da ballo come i Merry Blackbirds (che intrattenevano i bianchi) in cui militava il trombettista Sterling Monkoe che imitava (anche negli atteggiamenti) Louis Armstrong, dall’altro i proletari che ballavano con la musica suonata dai Jazz Maniacs, guidati dal pianista Zulu Boy Cele e dal sassofonista Wilson «King Force» Silgee, il cui repertorio attingeva a piene mani dal marabi. 

Nel decennio successivo la vita in Sudafrica per i neri si fece ancora più dura a causa delle politiche razziali del governo. Nel 1948 quello che era da tempo nell’aria si formalizzò attraverso il rigido codice dell’apartheid, una struttura ufficiale che introduceva la supremazia bianca negli impieghi, nell’istruzione, negli alloggi, in ogni settore sociale. Nel 1950 entrò in vigore il Group Areas Act, che assegnava ai diversi gruppi etnici aree urbane ben definite circoscritte da confini che soprattutto i neri non potevano attraversare. Era incredibile: il mondo si evolveva timidamente verso i principi della democrazia e della integrazione e il Sudafrica tornava indietro di più di un secolo. Musicalmente il marabi traghettò i suoi suoni verso lo stile in quel momento imperante in Occidente, lo Swing, e venne fuori una musica di fusione chiamata jive. Ma il marabi non era l’unico stile musicale del Sudafrica in quel periodo: negli anni trenta si poté assistere alla diffusione di uno stile a cappella (retaggio della musica corale di cui sopra) cantato dagli zulu, lo isicathamiya, il cui momento di massima popolarità si registrò nel 1939 con la pubblicazione di Mbube (The Lion Sleeps Tonight) cantata da Solomon Linda con i suoi Evening Birds. Era una forma ancora embrionale (che poi si perfezionò nelle forme espressive di personaggi come i Ladysmith Black Mambazo) ed era il sottile filo di cultura zulu (ai cui affreschi vocali si è poi ispirato Paul Simon con «Graceland») che univa il Sudafrica allo Zimbabwe. Ma non era l’unico: c’era anche lo skokiaan, un distillato artigianale ad alta gradazione alcolica, illegale, che scorreva a fiumi nelle birrerie clandestine (shebeen), luoghi di ritrovo in cui si iniziava a suonare il venerdì sera e si finiva il lunedì mattina. Lì la scena musicale prendeva corpo, e insieme all’alcool e alla birra di granturco fermentavano i ritmi incalzanti del kwela e del jive con i Soul Brothers e i Boboyo Boys, dove quella musica si fondeva con il rhythm’n’blues e il jazz di estrazione americana. Furono proprio i legami culturali e commerciali con gli Stati Uniti a rendere il jazz più popolare nella Repubblica Sudafricana che in qualsiasi altra parte dell’Africa. Gli anni Cinquanta rappresentarono per il Sudafrica un periodo di grossi cambiamenti, anche dolorosi: il Group Areas Act combinò dei veri e propri disastri sociali, alcune townships furono rase al suolo quando si scoprì che la terra poteva essere utilizzata per costruire case per i bianchi. Tra le perdite maggiori ci fu quella di Sophiatown a Johannesburg, sede di numerose shebeens e di una fiorente scena musicale, e del District Six a Città del Capo. Le crudeli restrizioni del governo non intaccarono la voglia di libertà dei musicisti sudafricani, e la vertigine di riaffermazione della propria identità suggerita dalle star afro-americane iniziò a diventare irresistibile. Nelle strade imperversava il kwela in cui, sulle basi del jazz, si sovrapponeva il battito dello skiffle britannico (già di per sè una musica di fusione in cui il blues, il country, il bluegrass si mischiano al jazz), ancora un filo di congiunzione con la musica occidentale, e la danza, il sale di tutta la musica africana, veniva in quel periodo sublimata dalla esplosione del pata pata (cui Miriam Makeba, come tutti sanno, dedicò un successo internazionale) uno stile di ballo che in lingua xhosa significa «tocca tocca». 

Tutto questo miscuglio di musica da ballo e di stili, negli anni Sessanta, portò, nelle townships, all’affermazione di un linguaggio che prima fu chiamato simanje-manje e poi mbaqanga che letteralmente significa «pasta», una sorta di ratatouille, una zuppa di «quel che c’è», una invenzione della cucina povera sudafricana. Le sinestesie culinarie in genere funzionano con la musica e se, in occidente, lo mbaqanga è stato chiamato bubblegum music, un motivo di affinità ci deve pur essere. La mbaqanga apparteneva alle masse dei diseredati delle townships e non era altro che un veicolo di divertimento, senza alcun riferimento alla situazione politica del Sudafrica. Era questo il motivo principale per cui i jazzisti sudafricani, che in quel periodo storico avevano già maturato, sull’onda di quanto accadeva negli Stati Uniti, una consapevolezza politica unita a un linguaggio musicale piuttosto evoluto, guardavano i musicisti di mbaqanga (Simon «Mahlathini» Nkabinde, Ray Phiri, Sipho Mabuse) con un atteggiamento di superiorità. Così il mondo della musica in Sudafrica cominciò a dividersi: da un lato le dance bands (le Mahotella Queens in cui il succitato Mahlathini mosse i suoi primi passi, la Magkona Tsohle Band, Yvonne Chaka Chaka, Rebecca Malope; e la scena è continuata anche in tempi recenti con Brenda Fassie, una specie di Donna Summer sudafricana) dall’altro i jazzisti che si ispiravano alla musica di Coltrane, di Sonny Rollins, di Monk e che univano alla musica una consapevolezza che traeva spunto da quanto stava accadendo nel mondo occidentale con il movimento per i diritti civili degli afro-americani. Dollar Brand (che con la sua conversione all’Islam divenne poi Abdullah Ibrahim), Hugh Masekela, Sathima Bea Benjamin, i Blue Notes furono gli alfieri di una musica che immediatamente fece parlare di sé in Occidente (Chris McGregor, il pianista bianco dei Blue Notes, con i suoi Brotherhood of Breath dette poi  vigore alla scena del jazz inglese). 

Furono gli stessi che, in seguito alla oppressione razziale imposta dal governo sudafricano, scelsero di percorrere la via dell’esilio. Hugh Masekela fu il primo a lasciare Johannesburg: nel 1960, appena ventunenne, giunse negli Stati Uniti, insieme a sua moglie, Miriam Makeba, dove ricevette un tiepido benvenuto (solo verso la fine del decennio, nel 1968, grazie al successo di Grazing in the Grass, un hit da quattro milioni di copie, raggiunse una più vasta popolarità). Dollar Brand si trasferì in Europa nel 1963 insieme a colei che avrebbe poi sposato, Sathima Bea Benjamin, e in Svizzera grazie alla produzione di Duke Ellington incise «Duke Ellington Presents The Dollar Brand Trio» album che rimase allora inedito ma che fece capire a Brand che in Europa poteva esserci un mercato (e uno spazio) per la sua musica. Il capolavoro di Ibrahim rimane per chi scrive «Blues For a Hip King» (uscito nel 1976 in Sudafrica ma pubblicato in Europa alla fine degli anni Ottanta) composto come omaggio a Sobhuza II, re dello Swaziland dal 1967 al 1982. In Sudafrica, Masekela e l’allora Brand avevano militato nei Jazz Epistles, una band che si ispirava all’hard bop dei Jazz Messengers ed era completata da Kippie Moeketsi all’alto (notevole sassofonista scomparso nel 1983, il cui «Blue Stompin’», inciso originariamente nel 1977 con il contributo di Hal Singer, veterano tenorista statunitense, è stato ristampato nel 2021 dalla We Are Busy Bodies), da Jonas Gwangwa al trombone, Johnny Gertze al basso e Early Mabuza o Makaya Ntshoko alla batteria. Entrambi sono tornati a casa in Sudafrica per assistere alla sua rinascita con Mandela: Masekela è scomparso a Johannesburg nel 2018 e colui che nel frattempo era diventato Abdullah Ibrahim fa la spola tra la Germania e la terra natia. Anche i Blue Notes emigrarono e, contrariamente al loro nome, abbandonarono l’hard bop molto presto per dedicarsi a fondere il free jazz con il kwela, Si trattava di un gruppo misto con Mongezi Feza alla tromba, Dudu Pukwana all’alto sax, Nikele Moyake al sax tenore, Chris McGregor (l’unico bianco del gruppo) al piano, Johnny Dyani al contrabbasso e il batterista Louis Moholo (che è oggi l’unico sopravvissuto e il solo, dopo una vita di lotte e di lunghi esili, ad aver visto il giorno più bello del Sudafrica con la fine dell’apartheid e l’ascesa al potere di Nelson Mandela). 

Una menzione a parte va fatta per Miriam Makeba, una vera e propria «pasionaria» della musica sudafricana la cui vita è stata costellata, fino alla sua morte avvenuta nel 2008 a Castel Volturno, da una serie di vicende i cui alti e bassi ne hanno fatto un’eroina, a partire dall’esilio americano con il marito dell’epoca, Hugh Masekela, che si concluse con un foglio di via a causa del suo legame sentimentale e politico con la «pantera nera» Stokely Carmichael. La sua storia di cantante comincia con il kwela e il doo-wop grazie alla militanza nei Cuban Brothers e nei Manhattan Brothers e si dipana attraverso tutta la gamma di atrocità comprese nel sistema dell’apartheid, da piccoli soprusi a grandi traumi, come quando non riuscì a trovare nessuno disposto a curare i suoi musicisti rimasti gravemente feriti in un incidente stradale, o quando nel 1985 perse in circostanze drammatiche, in seguito ad un aborto (anche se Makeba ha più volte affermato che l’esilio ha avuto un ruolo in questa vicenda), la sua unica figlia Bongi (avuta dal suo primo marito James Kubay) oppure quando venne arrestata nella «civile» Danimarca per avere, anni addietro, annullato un concerto. 

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Una vita di sofferenze in cui si passa dai musical luccicanti, dai concerti per Kennedy, dalla nomina ad ambasciatrice dell’ONU a momenti di totale emarginazione; e che termina il 9 novembre del 2008 in seguito a un attacco cardiaco (sin da giovane soffriva di artrite reumatoide) alla Clinica Pineta Grande di Castel Volturno, località in cui si era esibita, trascurando una serie di dolori al petto, in un concerto contro la camorra che aveva ucciso sei immigrati africani. «Morirò cantando e in piedi» aveva detto, e andò praticamente a finire così. Quegli anni Sessanta in Sudafrica furono costellati da una serie di vicende che sono rimaste nella storia della musica contemporanea ma anche da atrocità che il governo continuava ad imporre alla popolazione, come le restrizioni che seguirono al massacro di Sharpeville (dove una manifestazione di protesta pacifica culminò con la polizia che aprì il fuoco sui dimostranti, facendo settanta vittime) per cui vennero addirittura proibiti gli «assembramenti» di più di dieci persone. Fu quello anche il periodo in cui l’etichetta discografica che negli anni Trenta era stata fondata da Eric Gallo (la più grande e antica etichetta discografica indipendente in Sudafrica), la Gallo Record Company, attiva ancora oggi, ebbe il suo momento di massimo splendore con la diffusione di quello che fu definito «il suono delle townships». Nel decennio successivo il jazz, proprio per la sua dimensione di musica «impegnata», fu ulteriormente osteggiato dal governo sudafricano e la dance music (marabi, kwela, mbaqanga) prese il sopravvento nei gusti del pubblico, anche se artisti come il pianista Tete Mbambisa (il suo album d’esordio risale al 1976 e si intitola «Tete’s Big Sound»), l’organista Pops Mohamed, il batterista Dick Khoza (originario del Malawi), il tastierista Lionel Pillay (di recente, ancora la We Are Busy Bodies ha ristampato tre suoi vecchi dischi, «Plum & Cherry», «Shrimp Boats» e «Deeper In Black» che vi consigliamo di procurarvi, se ci riuscite) e il pianista Pat Matshikiza riuscirono ad affermarsi, quantomeno in una dimensione locale. 

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Oggi questi musicisti sono oggetto di una ricerca che alcuni trendsetters europei (uno per tutti Gilles Peterson) stanno perseguendo anche alla luce del fatto che si trattava di una musica molto contaminata e in gradi di incontrare i gusti di un pubblico che purtroppo si sta sempre più restringendo). In quegli anni il jazz, almeno all’interno dei confini sudafricani, non godeva di un grande seguito, mentre in un campo più popolare è doveroso registrare l’esordio dei Ladysmith Black Mambazo con «Amabutho» (1973) , grazie al quale iniziarono a riscuotere successo. Negli anni Ottanta, in sintonia con quanto accadeva in Occidente, divennero popolari, soprattutto a Durban e a Johannesburg, un certo tipo di rock e il reggae; il jazz era rappresentato dal sassofonista Mike Makhalemele, che strizzava l’occhio alla disco e al rap degli esordi, e dal pianista Bheki Mseleku, che ha vissuto poi a Londra e ha suonato con giganti come Pharoah Sanders, Joe Henderson, Elvin Jones e Abbey Lincoln. Gli anni Novanta hanno rappresentato un periodo di svolta per il Sudafrica: nel 1994 terminò finalmente l’apartheid, Nelson Mandela divenne Presidente (carica che ha mantenuto sino al 1999) e musicalmente emerse uno stile che mutuava dall’hip hop l’utilizzo dei campionatori, il kwaito, che ebbe tra i suoi alfieri i Prophets of Da City, gruppo di cui si parlò anche al di fuori dei confini sudafricani. 

Dalla fine del mandato di Mandela in poi, tutti i Presidenti della Repubblica Sudafricana sono stati neri ma le tensioni sociali tra bianchi e neri non si sono ancora sopite, anzi, a detta di molti, si sono inasprite anche a causa di una crescente corruzione proprio tra le classi governative, anche se provenienti da un’area politica fortemente orientata a sinistra. In questo momento il Presidente in carica è Cyril Ramaphosa, ma nel settembre del 2021 il suo predecessore Jacob Zuma era stato condannato a quindici mesi di carcere per oltraggio alla giustizia per non essersi presentato in tribunale come testimone in un’inchiesta per corruzione avvenuta durante i suoi nove anni di governo. Suo fratello Michael, proprietario di una impresa di costruzioni, la Kumbula Property Services, ha ammesso di aver usato l’influenza del celebre fratello per assicurarsi contratti in cambio di proprietà edilizie vicine alla sua città natale, Nkandla nella provincia di Kwazulu-Natal. Dall’inizio del nuovo millennio è il jazz a farla da padrone anche se, in sintonia con ciò che accade in Occidente – e il Sudafrica, lo ripetiamo, è forse il più occidentalizzato tra tutti gli stati africani – si mischia con l’hip hop, con il soul, con il funk, con un certo tipo di elettronica, pure a costo di far riscontrare una certa diminuzione di genuinità del messaggio della musica così prodotta. 

In Sudafrica, anche presso i musicisti più consapevoli delle nuove generazioni, è molto presente il concetto degli «ancestors», degli antenati, e dell’esigenza di restare coerenti con i loro insegnamenti. Il dissenso ruota proprio intorno a questo concetto, un valore ritenuto prezioso in Sudafrica, e Johnny Clegg, il ben noto cantante e chitarrista dei Savuka (una band multietnica formatasi nella seconda metà degli anni Ottanta), ha affermato: «Il processo di tecnologizzazione è iniziato negli anni Settanta, quando il DX7 e la batteria elettronica hanno fatto capolino nella nostra musica, e l’apartheid ha generato atteggiamenti di rifiuto verso l’etnicità. Non si vuole sottolineare il fatto di essere uno zulu o uno xhosa ma di essere un cittadino del mondo. Noi non vogliamo essere né da una parte né dall’altra, amiamo usare le nuove tecnologie e nello stesso tempo vogliamo rispettare le nostre radici. Dovrebbe esserci una democrazia nella musicam e le nuove forme dovrebbero essere sostenutem così come le vecchie. Dovrebbe esserci un equilibrio». 

Su questo solco si muovono i musicisti delle nuove generazioni, alcuni dei quali si stanno facendo notare anche da noi in Europa come i pianisti Nduduzo Makhathini e Bokany Dyer il cui «Radio Sechaba» è in questo momento sul mercato grazie alla Brownswood Recordings, la sassofonista Linda Tshabalala, la batterista Ayanda Sikade, Siya Makuzeni (cantante e trombonista), il chitarrista Sibusile Xaba, il batterista Tumi Mogorosi (che suona con Nduduzo ma anche con Shabaka and the Ancestors) il cui «Group Theory: Black Music», uscito l’estate scorsa, è uno straordinario riferimento alla spiritualità della musica sudafricana. Ma i nomi da citare sono tanti: il vocalist Omagugu, la sassofonista Linda Sikhakhane, il vibrafonista Dylan Tabisher, Kyle Shepherd, multistrumentista dal piglio intellettuale che si muove in una linea di confine tra musica, cinema e teatro, Nina Mkhize, una cantante che viene da una township di Durban e ha esperienze nella Londra dei nostri giorni, il cantautore Mbuso Khoza. E potremmo fare ancora tanti nomi: quelli che abbiamo citato ci sono sembrati i più interessanti. La scena è davvero da tenere d’occhio, molto viva e in evoluzione, al punto che Don Was, presidente della Blue Note, ha pensato di creare proprio in Sudafrica una costola della sua etichetta chiamandola Blue Note Africa, con l’obiettivo di promuovere tutti gli artisti africani di jazz, non solo i sudafricani. Il guaio è che molti club hanno chiuso i battenti per due motivi principali: la pandemia da un lato e, dall’altro, la mancanza di attenzione per il jazz da parte del governo, unita a una politica economica che penalizza la cultura e le arti in generale. Tutto questo è in forte contrasto con la vivacità dell’ambiente jazzistico. I club che continuano a mantenere una programmazione degna di attenzione sono Untitled Basement a Johannesburg, il Blue Room a Città del Capo e il Chairman a Durban, le tre città in cui la musica ha un ruolo di rilievo tra i consumi culturali della popolazione. 

Il Sudafrica è un posto pieno di treni musicali e i suoi passeggeri sono ancora in tanti, basta un piccolo deragliamento e i polverosi vagoni si trasformano nel mitico treno di Zion, quello che riporta a casa i figli ribelli di Madre Africa con tutta la loro energia. Continuiamo a tenere d’occhio il loro itinerario. Prima o poi ci capiterà di acquistare il biglietto.

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