Tony, come vanno le cose al Berklee?
Direi bene. È il primo impiego a tempo pieno, lavoro tre giorni a settimana. Mi piace perché condivido ciò che amo e l’impressione di essere tornato sui banchi di scuola. Seguo un metodo personale e improvviso parecchio. Insegno che cos’è l’articulación, spiego che parlare in spagnolo è totalmente diverso dall’inglese. Oppure provo a descrivere cosa succederebbe se dovessi cantare in portoghese o parlare in italiano. Ogni volta l’articolazione cambia perché informiamo diversamente i muscoli. Un esempio fra tanti, non lavoravo così tanto su queste cose dai tempi del liceo. E la mia tecnica ne beneficia enormemente. In questo momento esta muy filosa: è molto affilata, come la lama di un samurai. Il solo fatto di essere di nuovo in sintonia con il sassofono mi eccita molto.
Ti confesso che ho reagito con un certo stupore quando ho letto il tuo nome associato al Berklee.
Si deve pur sopravvivere, a maggior ragione dopo il Covid, che è stata una mazzata. Mi sono ammalato quasi subito e di colpo si sono arrestati viaggi regolari in Europa e Sudamerica.
A quanto pare te la sei vista brutta.
Sì, è stata dura, ci sono voluti diversi mesi per recuperare. All’inizio, dopo quindici, venti minuti di esercizio avevo l’impressione di svenire. L’autonomia era ridottissima.
Hai dovuto ricominciare da zero?
Sì, tutto da capo. Capacità polmonare nulla, avevo l’impressione che la cassa toracica fosse «ingabbiata», e non riuscivo più a espandere il diaframma. Noi sassofonisti impariamo a fraseggiare utilizzando il diaframma, ci serve a gestire l’aria durante un assolo. È una parte fondamentale del corpo. Una volta George Garzone fece una considerazione divertente, mi disse che suono in «stile italiano» perché muovo l’aria come un cantante d’opera, proprio come lui e Joe Lovano. Ad ogni modo, ripresi a suonare con ance molto morbide, negli ultimi mesi sono tornato a suonare le Soft Four. Riesco a farle vibrare in un certo modo, ho ritrovato forza e resistenza, la trazione che mi piace. Le Turnpike Sessions, i concerti all’aperto che ho organizzato durante la pandemia, mi sono servite anche per recuperare dal Covid. Posso assicurarti che rimettermi ad articolare delle semplici crome, e coordinare il tutto con il diaframma mi è costato un grande sforzo.
Torneremo alle Turnpike, restiamo al Berklee.
Capisco il tuo stupore perché al Berklee manca tutta una realtà legata alla musica dalla quale provengo, una realtà – per dirla in parole povere – svincolata da licks e patterns. New York, mi manca tantissimo, talvolta è dura guardare da lontano cosa fanno tanti amici e colleghi. E Boston non è né Buenos Aires né Parigi né Chicago. Mia moglie mi dice che devo concentrarmi sul lato positivo e ha ragione: Boston apporta nuova linfa, un nuovo tipo di nutrimento. C’è una bella energia da queste parti. Sto provando nuove configurazioni. Un trio con un’allieva che suona il kyageum, uno strumento a corde coreano. Con lei adopero solo il soprano. Il batterista frequenta il New England Conservatory, dove gli studenti, all’opposto di quelli qui al Berklee, sono al corrente del mio lavoro.
E il livello degli studenti al Berklee?
Atletico, robotico. Tecnica eccezionale, ma si tratta di un’eccezionalità meccanica. Imparano a suonare con il computer. Non è il virtuosismo a cui era abituata la mia generazione, dove la tecnica veniva nascosta, e magari erano suono e ritmo a mandarti al tappeto. Molti studenti non hanno la minima idea di quanto lavoro ci voglia per ottenere un suono e acquisire senso del ritmo. Però alcuni di loro riescono a coniugare naturalezza e grandi qualità strumentali, e hanno un modo tutto loro di entrare in sintonia con la storia e lo strumento. Questo semestre gli allievi sono davvero in gamba. La suonatrice di kayagum di cui ti parlavo improvvisa incredibilmente bene. È un’onda che ti investe, ha qualcosa di Cecil Taylor che molto probabilmente dipende dai suoi studi con Joe Morris al New England, dove si è laureata.
E oltre a questo trio?
Un quartetto di sassofoni ispirato da una recente registrazione che ho fatto assieme a Ivo Perelman, Tim Berne e James Carter. Quell’esperienza ha piantato un seme in me. Ho selezionato tre sassofonisti del primo anno molto dotati, il repertorio è tutto improvvisato. Al Berklee ho la possibilità di fare cose del genere. I feedbacks che sto ricevendo sono molto positivi, ho già constatato ottimi risultati. I ragazzi con cui ho lavorato da settembre a dicembre, e fra loro quelli con cui sto ancora lavorando, sono musicisti completamente diversi, per certi versi migliori di tanti altri più esperti.
Cerchi nuove leve come un tipico jazzista vecchia scuola?
Sì, mi spiace solo che alcune di loro non sembrano molto interessate, e se hanno l’opportunità investono poche energie. Vivono con il telefono e dipendono dai metodi Aebersold! Le basi preregistrate sembrano filodiffuse. Fa parte della cultura contemporanea, devo abituarmici, anche se mi sembra di stare in un gigantesco videogame. Ho un figlio un po’ più giovane degli studenti. In qualità di padre, consigliere e docente, per me è importante capire come comunicare con le nuove generazioni. Sono critico, ma allo stesso tempo cerco di analizzare. Inoltre, sento che la mia presenza a Boston ha uno scopo, penso di poter dare una mano. E poi al Berklee c’è George Garzone. Insegna qui da oltre quarant’anni, se non erro. Il legame con Garzone risale a molti anni fa, a quando facevamo parte del quartetto dei fratelli Schuller, Ed e George, i figli di Gunther. Ci esibivamo spesso all’Internet Cafe: in tanti mi hanno sentito lì. E l’insegnante di Garzone, Frank Tiberi, classe 1928, è ancora attivo! Garzone e Tiberi sono discepoli di Coltrane, figure molto importanti. Il primo insegna elaborate linee cromatiche; Garzone fa lo stesso con le triadi. Insieme hanno sistematizzato il linguaggio di Coltrane e creato un’atmosfera. Non si contano i musicisti che hanno assorbito quegli insegnamenti.
Tenendo conto del tuo percorso, c’è un periodo in cui ti sei resi conto che stavi prendendo la giusta direzione?
Sì, quand’ero studente alla William Paterson University e intravedevo cosa poteva rappresentare New York. Una volta arrivato nel New Jersey, le occasioni si presentarono presto. Per circa un anno suonai con Joey DeFrancesco, entrai nel giro della Mingus Big Band e feci un concerto con la Mingus Dynasty. Cominciavo a toccare con mano il mondo dei club e mi resi conto di quanto vasto poteva essere l’argomento jazz. Mi capitò di suonare con il quartetto di Marty Ehrlich, insieme a Michael Formanek e Tom Rainey. Avevo incontrato Formanek attraverso la Mingus Big Band e anche Ehrlich suonava di tanto in tanto con loro. Formanek e Rainey accesero una miccia. Quei due improvvisavano parti in maniera compositiva; la musica continuava a evolvere, mutava di continuo eppure si teneva sempre assieme. E durante le improvvisazioni l’accompagnamento era costante. C’erano affinità, fino ad allora non avevo mai provato una sensazione del genere. Da par mio tentavo di suonare in & out a seconda dei momenti ma non sapevo bene come agire in un tale contesto. Pure Ehrlich era di grande stimolo. Avvertii chiaramente il bisogno di sviluppare qualcosa che fosse mio e di nessun altro. Quella presa di coscienza arrivò più o meno all’improvviso ma subentrò dopo un periodo di ascolti attraverso i quali tentavo di creare una mia estetica, e che probabilmente avrebbe comportato solo un leggero distanziamento da modelli consolidati. Il suono con DeFrancesco era florido, bello in forma. Guardavo a Stan Getz, cercavo il peso di Ben Webster, il suono argentato di Coltrane. Avevo attraversato una fase Michael Brecker, un’altra Joe Lovano: mode e tendenze di quegli anni. A New York si stava consolidando uno stile standard; la città mi attirava e al contempo incuteva anche timore. Formanek e Rainey avevano lasciato il segno. Anche il ritmo divenne un elemento da esplorare. Gestivano il tempo talmente bene che mi sembrava di galleggiare sulla lava, c’era sempre una tensione. Erano su un altro livello, dovevo trovare, si dice in questi casi, la mia voce, un modo per dialogare con loro. E così decisi di tornare in Arizona. La fiducia non mi mancava. Trovai un posto all’università dell’Arizona, insegnavo sassofono e fondamenti del jazz a bassisti elettrici e chitarristi heavy metal, e in parallelo studiavo come un matto. Cominciai pure a comporre.
Le notizie su quel periodo scarseggiano: vuoi raccontarmi qualcosa di quegli anni?
Mi dividevo tra Phoenix, dove oltre allo studio avevo carta bianca in un club tre sere a settimana, e Los Angeles. L’ingresso nella scena losangelena dipese dal trombonista e compositore Joey Sellers, un caro amico e un eccellente musicista. Alcuni musicisti del suo ensemble, il Jazz Aggregation, praticavano l’improvvisazione con Vinny Golia. Non a caso Joey è co-leader nel mio disco d’esordio, «Cosas», uscito per la Nine Winds di Vinny. A Los Angeles ho conosciuto due mentori: Billy Mintz e Ken Filiano. Con Mintz suoniamo assieme da quasi trent’anni! Ricordo che Formanek cominciò a venire da New York, i concerti erano distribuiti tra Arizona e California. Sempre per la Nine Winds feci un’altra bella registrazione in quartetto con il trombettista Dave Scott, uno dei miei più cari amici. E anche John Hébert, che avevo incontrato ai tempi della William Peterson University, veniva da quelle parti per stare con Mintz e Scott. Sono stato il primo di quel gruppetto a trasferirmi a New York. Molti pensavano che vivessi a Los Angeles ma in realtà non si può dimenticare che la base era Phoenix. Alla Tempe fui esposto alla musica del Novecento. Con un quartetto di sassofoni studiai le tecniche estese; eseguivo composizioni con nastro ed elettronica. E in ambito jazz le ritmiche erano ottime. Furono anni di studio sfrenato, febbrili, che ricordo con grande affetto. Agli studenti cerco di insegnare proprio questo: abbandonarsi all’immaginazione. Suoniamo con il metronomo? Bene: mettiamoci attorno Rainey oppure i piatti di Paul Motian. In Arizona ho sviluppato tutte queste cose.
Quando ti sei trasferito in pianta stabile a New York?
Nel 1995. Sono rimasto in Arizona tre anni, dal 1992 al 1995. Un periodo molto speciale e molto artistico. Lì, per tornare alla tua domanda precedente, mi resi conto che la direzione intrapresa era quella giusta, che si poteva studiare ed elaborare dei concetti senza tralasciare una certa artisticità.
Torno agli allievi del Berklee. Molti di loro pensano che l’apprendimento del jazz passi attraverso jam session ultra-competitive, e subiscono una specie di pressione anche da parte dei loro coetanei. Idem per le trascrizioni. Quando ho spiegato loro che avevo trascritto solo un paio di brani sono rimasti allibiti. A un certo punto della mia vita ho chiuso con quel genere di «sfide», e sono partito per intraprendere un lungo percorso. Non ce la facevo più a suonare con certi musicisti, e nemmeno a sentirmi obbligato ad ascoltare un certo tipo di musica. C’è voluto del coraggio.
In apertura hai fatto un breve riferimento all’articolazione. Su quali altri aspetti ti concentri quando insegni?
Provo a trasferire gli insegnamenti appresi a Phoenix e con il mio insegnante di liceo a Tucson. Mi baso su alcuni esercizi specifici che ti consentono di conoscere il sassofono in tutta la sua estensione, dal registro grave all’acuto. Oriento il discorso verso l’importanza delle dinamiche, imparare ad avere sott’occhio una mappa del brano, individuare dove si trova il forte, il mezzo forte, il mezzo piano e così via. Se vuoi imparare a sviluppare un suono devi esercitarti in maniera estremamente precisa. Devi concentrarti sull’aria senza distrazioni. E controllare l’imboccatura attraverso le labbra, comprendere l’importanza di laringe, polmoni, diaframma e via dicendo. Pensiamo a Getz, Zoot Sims, Lester Young, a Dewey Redman. Ecco cosa intendo. Raggiungere quella nota pura è la cosa più difficile, richiede un’applicazione rigorosa. L’obiettivo è far sì che lo strumento sparisca, che formi un tutt’uno con il corpo. Un musicista non viene identificato per il numero d trascrizioni o la velocità alla quale esegue le scale, ma per il suono, che non è un concetto né vago né astratto, ma uno strumento espressivo. Insisto anche sull’importanza del ritmo e sul fatto di suonare a tempo. Stare sul tempo non significa suonare «dietro» alla Dexter Gordon, significa saper stare sul tempo, perfettamente sul tempo. L’esercizio costante fa sì che il tempo venga interiorizzato. Solo allora puoi muoverti attorno al beat, non prima!
Vada per Getz, Sims e Young. Ma Redman?
Qui subentra un altro discorso legato ai poeti, agli storytellers. Redman rientra a pieno diritto in questo gruppo, a mio modo di vedere piuttosto ristretto. Ho sempre amato il suo fraseggio; il fascino che ho per il ritmo deriva anche da lui, dal modo in cui interagiva con Ed Blackwell, ad esempio. Anche in Charles Brackeen trovi una semplicità naturale, che non esiterei a chiamare folklorica. E pure John Gilmore. «Turning Point», con Motian, Paul Bley, Gary Peacock e Billy Elgart è un disco bellissimo. Insomma, sono più interessato ai narratori, alla poesia, che all’essere davvero metricamente alla moda oppure molto furbo. Puntavo a questo: a una modalità espressiva dove convivessero tratti poetici e la possibilità di giostrare in astratto, e al contempo mantenere una connessione stabile con Formanek, Rainey o il modo in cui Monder dondola e fluttua nei brani.
Visto che hai citato il quartetto, veniamo a «The Cave Of Winds» (Pyroclastic), dove l’interazione estesa ascoltata nel «Live At 55 Bar» viene concentrata in pagine più brevi e definite.
Un brano è solo un punto di partenza o di arrivo, un modello di base. Può essere Woody ‘n’ You senza però dover per forza somigliare a Woody ‘n’ You, il caso di Corinthian Leather. Senza passare per pretenzioso, devo dire che con i musicisti del quartetto tutto è possibile. Descrivere a parole quell’interazione è molto difficile, non ne sono capace. Direi che tutto si basa sulla fiducia: essere sé stessi convince gli altri a essere a loro volta sé stessi, a suonare come vogliono. La sensibilità di ognuno contribuisce alla coerenza dell’insieme. Il brano rock, per esempio, è spontaneo, non elaborato, però quella semplicità riesce a esprimere più di una composizione complicata. Anzi, per certi versi quel rock beat è persino più difficile.
Stai parlando di Scratch The Horse con l’introduzione «quasi» heavy metal di Ben Monder?
Sì, l’atmosfera generale del pezzo ha a che fare con Neil Young, con quel modo singolarissimo di suonare e cantare. La storia di quel pezzo comincia con le Turnpike Sessions. Le versioni suonate in quelle circostanze erano più energiche, più orientate verso Albert Ayler. Poi ne ho parlato a Tom, gli ho anche raccontato dell’impatto duraturo che da bambino aveva avuto il film Un uomo chiamato cavallo con Richard Harris, soprattutto la scena del rito di iniziazione scandita da tamburi e canti. Per anni ho pensato che fossero le donne a cantare invece erano gli uomini. Rimasi sbalordito quando anni fa assistetti a un pow-wow nel nord dello stato di New York. A dire il vero la transizione verso il backbeat alla Neil Young di Tom era già cominciata con Mintz, batterista ufficiale delle Turnpike. L’introduzione in stile Van Halen è un’idea di Monder. È stato uno spasso fare quel disco, preparare queste semplici, piccole cose.
Parli dell’esercitarsi «a tempo» e mi viene in mente Motian.
Un caso limite, sempre in time. Poi faceva quello che voleva. Anche dalle esperienze con Joe e Mat Maneri, Randy Peterson, con tutta quella «famiglia» ho imparato molto. Il modo in cui suonavano attorno al beat era unico, avevano un groove incredibile fatto di scatti, tensione, rilassatezza. La comunicazione era costante, sembravano cablati! Seguivano un filo immaginario che a volte c’era e altre volte scompariva, ma che in realtà era sempre presente. Dal punto di vista sonoro e delle dinamiche erano fenomenali. All’interno di ritmi astratti, che per loro erano definiti, potevano passare dal pianissimo al fortissimo in un batter d’occhio. New York significava questo: una sera potevo suonare in situazioni di questo tipo e l’indomani con Fred Hersch.
Ancora a proposito di ritmo e gestione del tempo, una caratteristica del trio con Monder e Rainey, e del live che avete registrato, è la precisione con cui si passa da una sezione all’altra, cambi di atmosfera e transizioni elaborate con grande accuratezza.
Per suonare in quel modo bisogna studiare tantissimo, altrimenti Ben e Tom non ti lasciano scampo: giocano un altro sport, parliamoci chiaro.
Ma per il «Live At 55 Bar» avevate stabilito qualche parametro armonico?
No, nessuno. Una delle cose che ho imparato stando al fianco dei vari Berne, Mark Helias, Jim Black, Mark Dresser e altri è la capacità di fondere composizione e improvvisazione al punto che non si è più in grado di riconoscere dove finisce una e comincia l’altra. Ancora oggi sono strafelice di aver visto da vicino, in quello specifico contesto newyorkese, come ognuno di loro presentava la propria idea di musica. Questi musicisti sono maestri del suono; le loro storie, le esperienze, i racconti sui musicisti con cui hanno suonato fanno parte della tradizione.
Veniamo a questi concerti all’aperto organizzati durante la pandemia, le Turnpike Sessions. Ci racconti come sono nate?
Avevo suonato laggiù qualche anno fa con Mintz. Dovevamo esibirci a New York, ma quando siamo arrivati sul posto, scoprimmo che il festival era stato cancellato per disturbo della quiete pubblica. Era domenica, pieno giorno, East Village. Avremmo dovuto chiudere il festival, invece arrivò la polizia. Siamo risaliti in macchina con una gran voglia di suonare. Mintz conosceva una scorciatoia per arrivare a casa mia, una specie di passaggio segreto frequentato da ninja che passava sotto tutte queste autostrade, non lontano dall’ingresso dell’Holland Tunnel. Quando ti infili là sotto sembra di stare in una realtà post apocalittica, il set cinematografico del futuro episodio di Batman. Ci siamo fermati e abbiamo suonato.
Non sembra un posto molto raccomandabile…
La sera eviterei di andarci da solo. Ci sono stato spessissimo con qualcun altro anche fino a tardi, e durante il giorno ci sono andato parecchie volte per esercitarmi per conto mio. C’è una ditta di traslochi, grandi camion che vanno e vengono, autisti che trasportano gente 24 ore su 24, ma la notte l’attività si riduce parecchio: non è il posto dove andresti a passeggiare. Detto ciò, l’acustica è sorprendente, ha proprietà tutte sue. Dopo quella prima volta con Billy, ci siamo detti che avremmo dovuto rifarlo. L’occasione si è presentata quando il Covid ha bloccato tutto. Con Hébert cercavamo un posto dove essere al sicuro. Abbiamo suonato qualche volta nel suo scantinato, ma le condizioni per suonare nei nostri appartamenti, a causa del confinamento, erano proibitive. Mi è venuta l’idea di tornare laggiù. Ci siamo dati appuntamento e abbiamo ripreso a suonare.
Dalle cinque sessions disponibili su Bandcamp, ce ne è una che preferisci o alla quale sei più legato?
No, sono tutte importanti perché inquadrano una piccola realtà che si è venuta a creare. Sceglierne una significherebbe fare un torto a chi quel giorno non era presente. Tutti hanno dato un grande contributo; gente del calibro di Berne, Helias, William Parker, Chris Hoffman, Ches Smith è venuta laggiù in un momento così particolare, di grande incertezza generale. C’era una gran voglia di ritrovarsi dopo tanto tempo, è stato incredibile. Oltre al recupero fisico, le Sessions mi sono parzialmente servite per la preparazione di «The Cave Of Winds», per capire come trasferire su carta alcuni suggerimenti fatti sul posto a Mintz ed Hébert, trio di base delle Sessions. Ho dato qualche indicazione a Hébert su come interpretare Just You, Just Me mentre Mintz seguiva la melodia senza contare le battute. La versione del disco, con l’aggiunta di uno strumento armonico, è tutta un’altra cosa. Le Sessions sono state una tappa essenziale per arrivare dove sono ora. Sento di avere riacquisito una grande padronanza tecnica, e che una nuova fase si sta aprendo. Ripenso a ciò che ti ho raccontato sulla forma, su come composizione e improvvisazione possono integrarsi senza soluzione di continuità. In fin dei conti voglio solo improvvisare, esprimermi ricorrendo agli stilemi del jazz, del free, dalla classica e continuare a modellarli e rimodellarli dentro zone di tensione costante. L’importante è trovare musicisti che capiscano dove voglio andare.