Tina Turner: gli anni del Blues

In tanti decenni di carriera la celebre cantante appena scomparsa è stata dapprima beniamina della gente del ghetto, quindi artefice dell’avvicinamento tra estetica popolare nera e bianca e idolo della generazione di Woodstock, infine diva senza più aggettivi. Si tratta di un caso pressoché unico e irripetibile.

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Fu nel corso degli Anni Ruggenti, il frenetico e rivoluzionario decennio che precedette l’avvento della Grande Crisi, che l’America per la prima volta subì il fascino delle sue voci femminili nere. Poderose, tonanti donne del blues, come l’Imperatrice Bessie Smith, e più sofisticate e versatili interpreti di canzoni, come Ethel Waters, uscirono allora dai confini dello spettacolo nero per imporsi all’attenzione di un pubblico vasto e generico, che scopriva nel loro canto e nel loro modo schietto di presentarsi sul palcoscenico un’inedita combinazione di sensualità, drammaticità, umorismo, e autentica grazia e inventiva musicale. Altre, come Josephine Baker da Harlem e Alberta Hunter da Chicago, esportarono presto questa magia espressiva a Parigi e a Londra: agli occhi del pubblico europeo anche un elemento esotico veniva ad aggiungersi al loro charme.

Sin da quegli anni Venti le cantanti popolari nere – assai più delle loro controparti maschili – hanno continuato a incantare l’America e il mondo: da Pearl Bailey a Diana Ross, da Ella Fitzgerald a Aretha Franklin, dalla regina del gospel Mahalia Jackson fino (e oltre) alle star pop-soul Anita Baker e Whitney Houston, la vocalità afro-americana femminile ha sempre rivelato una sua straordinaria vitalità e universalità di comunicativa. Tra tante magnifiche interpreti, tuttavia, il caso di Tina Turner appare unico, irripetibile. Nessuna come lei ha saputo – partendo da radici musicali nere le più profonde e genuine – conquistare platee tanto eterogenee e distanti, e intanto superare ogni gap generazionale, ringiovanendo via via l’appeal del suo canto e del suo personaggio e mostrando una capacità singolarissima di naturale adattamento al mutare delle mode dello spettacolo e della musica leggera. In tanti decenni di carriera trascorsa in buona parte ai vertici delle hit parade, e a lungo in un creativo sodalizio con il marito Ike, piccolo genio del blues, Tina è stata dapprima beniamina della gente del ghetto, quindi artefice dell’avvicinamento tra estetica popolare nera e bianca e idolo della generazione di Woodstock, dello hard rock e della filosofia hippy, e infine – splendida cinquantenne – diva senza più aggettivi. Parallelamente, sotto un profilo squisitamente artistico, è stata anche un’innovatrice, e con lei, allo sbocciare degli anni Sessanta, il canto soul afro-americano ha trovato una delle sue espressioni più vitali e determinate. Attingendo a una prepotente matrice gospel, e seguendo l’esempio di interpreti come Dinah Washington, Ruth Brown, e soprattutto Big Maybelle e LaVern Baker (e, sul versante maschile, Ray Charles, Sam Cooke e Little Willie John, suoi idoli di gioventù) che già nell’immediato dopoguerra avevano tradotto il linguaggio religioso in un’eloquente chiave profana, Tina ha sviluppato una vocalità aspra e volitiva, originale e a sua volta influente: una vocalità coerente con i colori forti e il lirismo sanguigno del blues delle sue terre ma proiettata in una dimensione tutta contemporanea, aggressiva, rivendicativa. Nel suo grido scabro e sferzante, sin dagli inizi, si poteva anche cogliere l’eco musicale dell’insofferenza e della stridente protesta che in quegli anni vibrava attraverso la società nera americana.

Anna Mae Bullock – questo il vero nome – era originaria dell’area musicalmente fertilissima di Memphis. Nacque il 26 novembre del 1939 a Brownsville, la cittadina dove uno dei massimi bluesmen prebellici, Sleepy John Estes, aveva perfezionato il suo peculiarissimo stile, il suo eccentrico e cronachistico raccontare, e crebbe tra la Poindexter Farm, in quei sobborghi della minuscola comunità agricola di Nutbush celebrati poi in una delle canzoni della maturità, Nutbush City Limits, l’ossessivo pezzo funky da lei firmato (una «one-horse town» dove si spendono i soldi al venerdì e si va in chiesa la domenica), e altre vicine località del Tennessee rurale, come Ripley, e fino a Knoxville, nella parte orientale dello Stato. L’educazione musicale della piccola Ann è religiosa, e la prima, fervida palestra del suo canto è la corale della Morning Star Baptist Church, nella quale suo padre Richard svolge la mansione di diacono. Ma mentre per via dei turbolenti rapporti tra i genitori è costretta a trovare spesso rifugio dai nonni (è dalla nonna materna, di sangue in parte Cherokee, che eredita i riconoscibili tratti nativi del volto), Ann si lascia convertire ai suoni «demoniaci» del rhythm’n’blues attraverso le trasmissioni della WDIA, la celebre emittente di Memphis che tra i suoi dj annoverava Rufus Thomas e B.B. King, e occasionali scappatelle in crudi juke-joints, già prima di raggiungere la madre, verso la metà degli anni Cinquanta, a St. Louis, altro grande centro tradizionale della musica nera nel Meridione.

A St. Louis agiva da tempo il popolare complesso del pianista, chitarrista e talent scout Ike Turner (uomo di Clarksdale, Mississippi), i Kings of Rhythm: la loro musica era una dinamica, asciutta combinazione del rauco blues del Delta, del moderno e pulsante rhythm’n’blues e del neonato rock’n’roll, per la cui affermazione e definizione stilistica il loro grande successo del 1951, Rocket 88, aveva rappresentato una tappa importante. «La chiamavano The Moving Band, a St. Louis, l’Orchestra in Movimento,» ricordò la cantante, «perché avevano una sezione ritmica scatenata, selvaggia, con Ike che suonava la chitarra in piedi sul pianoforte, e i fiati che camminavano continuamente intorno al palcoscenico.» Ann Bullock, allora una liceale sedotta dai dischi di Ray Charles e Sam Cooke e dalla loro fervida combinazione di sacro e profano, e decisa a cantare come loro, «come un uomo», trovava ispirazione nei Kings of Rhythm e si accompagnava sovente alla sorella maggiore per andarli ad ascoltare al Club Manhattan. Una sera, tra un set e l’altro, Ike era seduto all’organo e si stava gingillando con un blues di B.B. King, quando Ann trovò il coraggio per avvicinarsi al microfono e abbandonarsi al canto. Ike rimase fulminato, intuendo un raro potenziale espressivo: sotto la sua guida quella voce allora più chiara ma già pugnace, irruenta, poteva diventare lo strumento ideale per i suoi progetti musicali – e unita al magnetismo della ragazza permettere al gruppo di estendere la sua fama ben oltre i confini del Sud.

Come Little Ann, la giovane cantante fu così integrata ai Kings of Rhythm, prima a ogni fine settimana, quindi a tempo pieno. La cronologia degli eventi, in quegli ultimi anni Cinquanta, è confusa anche nel ricordo dei protagonisti. Certo è che nell’atmosfera di promiscuità che regnava intorno all’orchestra, Ann ebbe un primo figlio dal sassofonista Raymond Hill, prima di diventare la terza signora Turner. Pigmalione e marito, Ike le cambiò presto il nome da Ann, che alle sue orecchie suonava troppo banale, a Tina, più fiero e «da battaglia», che lui aveva già sfruttato anni prima nel titolo di un suo disco strumentale, Hey Miss Tina (un’incisione Flair nota anche come Cubano Jump), ispirandosi ad una «regina della giungla» ammirata in una pellicola hollywoodiana di serie B. La grande occasione giunse abbastanza fortuitamente. Ike aveva organizzato una seduta di registrazione con il cantante Art Lassiter, per il quale aveva composto un brano dal piglio gospelizzante, A Fool in Love. Ma Art non si fece vivo quel giorno, e Ike affidò la canzone alle sue tre coriste, le Artettes, e – come solista – alla stessa Tina. Entusiasta del risultato, Turner fece pervenire il demo alle diverse compagnie discografiche che si spartivano il mercato del rhythm’n’blues, come la Atlantic di New York e la King di Cincinnati. Ma se queste non risposero, più lungimirante si rivelò il nero Juggy Murray, presidente della newyorkese Sue Records, che aveva sede a Harlem, due passi dal Teatro Apollo: e A Fool in Love ripagò pienamente la fiducia in esso riposta balzando al secondo posto delle classifiche del rhythm’n’blues nell’estate del 1960 e toccando il milione di copie vendute. Ike e Tina Turner e le loro Ikettes (così avevano ribattezzato le Artettes, sempre sulla falsariga delle Raelettes di Ray Charles) erano sulla mappa della musica nera. Profondamente calato nell’estetica rhythm’n’blues di quel periodo, e affine, sotto un profilo ritmico e dialettico, a hit neri come What’d I Say del «Genius» e Ooh Poo Pah Doo di Jessie Hill, A Fool In Love, aperto su un richiamo a cappella, gridato e cangiante, proclama a chiare lettere l’identità e individualità del gruppo e in particolare della sua straordinaria solista. Tina ha già ben marcati i suoi caratteri stilistici, nella sua voce tra contralto e mezzosoprano sintetizzando impagabilmente l’esperienza del gospel, dei suoi predicatori e delle sue infuocate soliste, e quella della nuova musica popolare afro-americana. Tina grida come una belva ferita, piaga la dizione, scatena il suo strumento petroso e raschiante, trova momenti di esasperata tensione, e sempre chiede il conforto, l’incitamento, l’urgente sprone, le compatte risposte corali delle Ikettes. Già qui Tina offre il ritratto realistico, «di strada», di una giovane donna franca e bellicosa che con ardente, carnale estroversione supera la propria vulnerabilità e asserisce i propri diritti sull’uomo che ama. È il personaggio che Ike ha pensato per lei, e che Tina Turner, attraverso tutta una serie di abili variazioni emotive, interpreterà con successo lungo tutta la carriera.

L’energia vocale e l’arrogante bellezza di Tina, la istintiva sensualità felina dei suoi passi di danza e l’allusività dei suoi gesti e della sua mimica; la vitale cornice scenica delle tre Ikettes, cantanti-ballerine spesso non meno attraenti e (come nel caso della bravissima Joshie Armstead) ricche di talento; il dinamismo e l’impatto sonoro e visivo dei rinnovati Kings of Rhythm, con una piccola ma possente e mobile sezione fiati nel classico ruolo responsoriale e la guida della chitarra di Ike, sferzante e incisiva ma in realtà sapientemente misurata, dal suono personale, riverberante. Sono gli aspetti che, dopo l’affermazione di A Fool in Love, rendono eccitante la «Ike & Tina Turner Revue» agli occhi del pubblico nero, dai palcoscenici di mezza America.

Allo sbocciare del decennio del soul, per i teatri e club del ghetto – da Harlem a Los Angeles, da Chicago a Detroit, da Houston a Philadelphia – passano le grandi personalità del canto afro-americano con il loro formidabile contorno spettacolare. Gli spettacoli più brillanti, originali ed esilaranti sono quelli condotti da James Brown e da Jackie Wilson, «showmen» neri per eccellenza, da Ray Charles, con la sua orchestra di sapore jazzistico, da Bobby «Blue» Bland e da B.B. King, i più popolari bluesmen del Sud: e quello di Ike e Tina si inserisce al loro fianco in un ideale Gotha dell’intrattenimento nero. Tina diviene subito la più ammirata e animata showgirl della nuova Era. Di fronte al suo pubblico ha il carisma delle Regine della trascorsa Era del rhythm’n’blues, Dinah Washington o Ruth Brown, anche se non può vantare la loro classe, la loro sottigliezza e versatilità di interpreti e la loro più complessa comunicativa: in più ha però questa frenetica, irresistibile esuberanza che traduce in una chiave mondana e irresistibilmente sexy lo slancio celebrativo fisico della cerimonia nella chiesa battista. Con la sua schiettezza, la sua assenza di ogni sofisticazione teatrale, inoltre, si pone alla testa di una nuova e mirabile stirpe di «soul sisters» meridionali magari stilisticamente da lei molto diverse, spesso più sommesse e toccanti, capaci di esprimersi anche in filigrana, ma dal piglio vocale altrettanto immediato e sincero: Irma Thomas, Betty Harris, Barbara Lynn, Candi Staton, Ann Peebles, fino a quella Millie Jackson che un decennio più tardi recherà nella sua voce un messaggio erotico ancora più esplicito e dirompente.

Per qualche anno Ike e Tina continuano a registrare, prolificamente, per la Sue. Ci sono altri successi come I Idolize You, il furibondo Poor Fool (che inizia nuovamente a cappella, un breve sermone laico, feroce e corrosivo, con un efficace gioco drammatico di accenti e sottolineature, e prosegue su un tempo brioso, profumato di New Orleans, il canto che si apre fremente su larghi e acri vibrati e si chiude su caratteristiche ombreggiature cupe), Tra La La La La e soprattutto – nel 1961 – It’s Gonna Work Out Fine, che sale in alto anche nella hit parade pop: un’altra composizione di Ike, una canzone ilare e dal ritornello accattivante in cui alla voce di Tina, incrocio tra «un raschio intriso di whiskey e il grido d’un bambino» (Joel Vance), tutta strappi e torsioni e brutali escoriazioni di gola, si contrappone in un gustoso e ironico duetto quella recitante e dinoccolata di Mickey Baker, un veterano (anche e soprattutto come chitarrista) del rhythm’n’blues newyorkese. E appaiono diversi album, la maggior parte vocali (da «Dynamite!» a «Don’t Play Me Cheap», con orchestrazioni pop di Rene Hall: sorta di sfida ai dischi Argo di Etta James) e uno dei Kings of Rhythm, di ballabili strumentali, tra cui l’esemplare Prancing: uno scenario in cui l’incrociarsi tutto sudista di minaccia e devozione del grido sudato e dalla grana forte di Tina diveniva un elemento altrettanto (e più) rilevante del laconico, staccato fraseggio di chitarra di Ike. 

Ma presto Murray prova a imporre le proprie idee ai Turner, e Ike, mentalità indipendente, non ci sta. Il sodalizio con la Sue si spezza e Ike e Tina diventano dei vagabondi del panorama discografico. Intorno alla metà degli anni Sessanta, nella loro nuova base di Los Angeles, incidono per la Kent (due giocosi ballabili come I Can’t Believe What You Say e l’effervescente Goodbye So Long, scandito dalle argute risposte vocali di Ike e da quelle alte e forsennate delle Ikettes), la Warner Bros, di nuovo per la Sue (una variante in chiave adultera della tradizionale ballata nera Stagger Lee, cantata con esemplare ferocia da Tina e conclusa in un verace «rap»). Non ci sono nuovi successi, ma alcune prove sono memorabili e presentano una Tina venticinquenne colta nel suo migliore equilibrio tra ardente frenesia soulful e autentico, nudo tormento emotivo: così è in Tell Her I’m Not Home, appassionato racconto di inganni telefonici e sospetti amorosi, nel bluesy, essenziale Just So I Can Be With You, nell’incredibile monologo a cuore aperto di All I Could Do Was Cry, tutti su Warner Bros. Notevole è anche lo schietto album blues «Get It – Get It» (su Cenco), registrato nel 1965 con eccellenti musicisti di studio a Los Angeles: bello è il contrasto tra la versione relativamente cauta e espressivamente articolata dell’ironico, filosofico That’s All Right di Jimmy Rogers e quella fumante e persuasivamente gridata di Little Red Rooster di Willie Dixon, aperta sul registro acuto da Harmonica Fats e personalizzata da Tina in un eloquente e ansioso moaning sul coro dei fiati. Prezioso, inoltre, è l’unico 45 giri per la Tangerine di Ray Charles, che esprime tutta l’irrequieta anima blues di Tina, la ricerca disperata di un uomo e al tempo stesso l’affermazione senza mezzi termini della propria fiera identità, in Dust My Broom e I’m Hooked, in brillanti cornici orchestrali affini al soul contemporaneo.

Intanto il rapporto con il pubblico nero rimane vivo e intenso, come rivelano il programma massacrante delle loro tournée attraverso il continente (51 settimane l’anno!) e gli esplosivi album registrati in concerto in alcune città del Sud, che illustrano anche la varietà del repertorio (con omaggi a Ray Charles, a James Brown, agli Isley Brothers) e delle stesse alternative vocali a Tina in seno allo spettacolo, con brani interpretati da Jimmy Thomas e Stacey Johnson, cantanti dell’entourage di Ike a St. Louis (e dalla showband era passato in quel periodo anche il formidabile shouter texano Frankie Lee) e dalle «Ikettes» Robbie Montgomery e Venetta Fields, quest’ultima, originaria di Buffalo, destinata a divenire una delle più richieste vocaliste di studio nel mondo del pop.

Nel 1966 i Turner, entrando negli studi discografici della A&M, sembrano mutare sonorità e immagine: ma la fantasia di Ike è estranea al temporaneo cambiamento. È invece il produttore Phil Spector, celebre per aver imposto nella musica pop un «muro del suono» quasi-sinfonico, quasi-wagneriano, ad adattare il suo fortunato quanto discutibile credo musicale alla voce di Tina. Sulla melodia ariosa e incalzante e sul testo un po’ ingenuo di River Deep Mountain High, svettando alta dalla roboante cornice orchestrale e corale fornita dall’arrangiatore Jack Nitzsche, la cantante si esprime con bella intensità, anche se perdendo parte della abituale freschezza e libertà delle sue performance. Un fiasco negli Usa, per mancanza di promozione, il disco divenne tuttavia un clamoroso successo (e un futuro standard) in Inghilterra. Fu il primo vero segnale delle possibilità di affermazione della cantante al di fuori del suo habitat naturale, della sua cultura.

Ike e Tina guardavano però in una direzione diversa rispetto a Spector. Nel 1968, di nuovo con le Ikettes e i Kings of Rhythm, realizzano alcune eccellenti registrazioni per la Pompeii nelle quali lo spirito e la tensione dell’autentica musica soul sono dominanti: in particolare la lenta ballad It Sho’ Ain’t Me rimane una delle prove più concentrate ed evocative di tutta la carriera di Tina. Ma il soul, verso la fine del decennio, ha ormai trovato la sua vera, inarrivabile regina, Aretha Franklin, la cui combinazione di versatilità, dinamica, controllo tecnico e capacità di coinvolgimento emozionale fa apparire al confronto relativamente monocordi le prestazioni della urlatrice di Brownsville. E allora Ike, all’inizio quasi istintivamente, prende a pilotare la moglie verso il nuovo scenario del rock, dove la concorrenza vocale, per una come lei, è abbastanza insignificante (la bianca texana Janis Joplin può aspirare al più ad apparire una sua caricatura) e dove oltretutto girano molti più denari, tra grandi compagnie discografiche e circuito spettacolare bianco giovanile.

Tra il 1968 e il 1969, due pregevoli album per la Blue Thumb – «Outta Season» e «The Hunter», registrati a Memphis – vedono il ritorno del duo alle più asciutte e ruvide radici, e alla penetrante essenzialità, del blues. È un idioma che Tina padroneggia come poche, alla sua maniera agra, frustando e facendo sanguinare i versi (e non è un caso se molte emergenti donne del blues, da Koko Taylor a Maxine Howard, sembrano fare riferimento a lei), e che permette un rapporto dialettico palpitante con la chitarra di Ike e – nel secondo lp – con quella del grande «Master of the Telecaster» texano, Albert Collins: la cantante fa scintille in standard come Rock Me Baby di B.B. King, I Smell Trouble di Bobby Bland, You Got Me Running di Jimmy Reed, nel pulsante episodio della spietata e sarcastica «cacciatrice» (firmato dai quattro di Booker T. & the MGs e legato in chiave maschile ad Albert King), e pure nell’accorata soul ballad di Otis Redding, I’ve Been Loving You Too Long, che entra nelle classifiche e che rimarrà nel suo repertorio dal vivo come (opinabile) tour de force erotico. La gente del rock, che ha riscoperto la semplice, terragna bellezza lirica del blues, scopre così anche Ike e Tina, che nello stesso 1969 sono chiamati a fare da spalla ai Rolling Stones durante la loro pubblicizzatissima tournée americana. Rapidamente, nello spazio di una stagione, i Turner si rinnovano. Entrano nella importante scuderia discografica della United Artists, e mentre è Tina a convincere il marito a farle incidere canzoni pop e rock come With A Little Help From My Friends e Come Together dei Beatles o Everyday People di Sly Stone, è l’immaginazione musicale di Ike a creare una nuova, fortunata sintesi tra sostanza e cornice blues e soul e colorazioni, accenti, tematiche del rock e del funk. L’album «Come Together», registrato a Los Angeles nel gennaio del 1970, in un periodo in cui la scena soul è dominata dall’iridescente proto-funk dei Temptations, dalle dilatate eccentricità sinfoniche di Isaac Hayes e dalla danzante freschezza degli emergenti Jackson Five, rappresenta il manifesto dei nuovi Ike e Tina. Mancano i tempi lenti cari all’estetica tradizionale nera, e su una ritmica più pesante e ossessiva che in passato, con la chitarra di Ike frequentemente quanto sapientemente distorta, Tina comincia ad abbandonarsi ad una poetica dell’eccesso, arroccandosi nel solo registro gridato. La sua sensualità è tutta ringhiosa e aggressiva (I’m Too Much Woman for a Henpecked Man) o portata ai confini della pornografia (nei sospiri di Doin’ It), e la sua grinta serve anche a esprimere le allucinazioni della droga (Contact High) e messaggi di fratellanza universale (Why Can’t We Be Happy): Tina, con la sua lunga e lucente parrucca da squaw, può essere ormai fuori moda nel ghetto, dove prevalgono chiome afro di varie dimensioni, ma intanto, attraverso una parziale identificazione, sta seducendo schiere di hippies e figli dei fiori. E anche se il disco seguente, «Workin’ Together», torna a vantare dei momenti più soulful in una bella rilettura del classico di New Orleans Ooh Poo Pah Doo e in un paio di brani originali di Ike, You Can Have It e The Way You Love Me, la loro singolare versione del Proud Mary di John Fogerty, con recitativo iniziale di Tina, l’intreccio melodico tra la sua voce dura e corrosiva e quella pigra e catramosa di Ike, e un furibondo finale funky, a tutto vapore, sale più in alto nelle classifiche pop (al quarto posto nell’inverno del 1971) che in quelle nere. Il gioco stridente-rilassato a due voci illumina anche episodi di «‘Nuff Said», gustoso e a suo modo verace delirio in funk del 1971 realizzato negli studi losangeleni costruiti da Ike, i Bolic Sound, che vi registra anche il suo eccellente «Blues Roots», che mette in bella evidenza, in una dinamica quanto essenziale atmosfera rhythm’n’blues, la sua ironica vocalità dal fremito cupo e colloquiale e il suo puntuale storytelling, imbevuti di echi di Percy Mayfield e Guitar Slim e integrati tanto dal suo solido pianismo quanto dal suono vibrante e tagliente della chitarra. 

Lo show di Ike e Tina Turner conquista un formidabile successo internazionale (fino ad Accra, nel Ghana, dove la loro torrida versione di I Smell Trouble viene immortalata nell’album e nel documentario Soul to Soul), e nell’arco di pochi mesi la United Artists pubblica tre album doppi dal vivo, uno realizzato all’Olympia di Parigi, uno alla Carnegie Hall, uno tratto da concerti in vari paesi europei. Non sempre però al successo si accompagna la qualità, e nel forsennato erotismo di Tina e delle Ikettes, con le loro vertiginose minigonne, si comincia a notare l’artificio, la volgarità talora fine a se stessa, e nel canto, urlato ai confini dell’orgasmo, una certa ipnotica ripetitività: un’immagine visiva-sonora che la figura blasé e cool di Ike, e la sua musicalità più asciutta, continuano a bilanciare. Ike e Tina vivono assieme altri rilevanti episodi musicali, come il citato singolo che dà titolo e respiro funky all’album «Nutbush City Limits» e, ancora tra 1973 e 1974, un lp di classici del gospel astutamente aggiornati negli arrangiamenti, con il grido acre e abrasivo di lei ad alternarsi alla lugubre cautela bluesy dello scuro baritono di Ike. Ma su un piano personale, il loro rapporto – da sempre burrascoso – sta ormai franando. 

Tina registra un primo lp da sola nel 1974, una discreta raccolta di canzoni country e country-rock, in un apprezzabile arco di atmosfere emotive da Kris Kristofferson a Bob Dylan («Tina Turns the Country On», comprendente anche una fiera rivisitazione di I’m Movin’ On, memore di Ray Charles), e intanto mostra sorprendenti doti drammatiche nel ruolo della «Acid Queen», nel film tratto dall’opera-rock dei Who, Tommy (un decennio più tardi replicherà a fianco di Mel Gibson nel fantascientifico Mad Max Beyond Thunderstorm). Forte anche di questa positiva esperienza, nel 1976, a Dallas, lascia il marito e partner: per quindici anni – rivelerà più tardi alla rivista Rolling Stone – ne era stata la «piccola schiava», vittima della sua brutalità.

Tina trova allora rifugio nei teatri-casinò nel Nevada, dove si esibisce a lungo, salutata come la «Ann-Margret del rock’n’roll», la sua chioma ormai trasformata in bionda e leonina. Finché nel 1984 la sua versione di un classico del soul di Memphis, Let’s Stay Together di Al Green, la restituisce alle scene della musica leggera, in una chiave contemporanea che, considerando l’accompagnamento strumentale-corale del gruppo inglese Heaven 17, il critico Stephen Holden definisce «fusione innovativa di canto soul vecchia maniera e New Wave synth-pop.» In realtà, come confermarono i grandi hit degli anni Ottanta avanzati, What’s Love Got to Do With It (che avrebbe dato il titolo al film biografico del 1993, con Angela Bassett nei suoi tormentati panni e Laurence Fishburne in quelli crudeli di Ike), Private Dancer, We Don’t Need Another Hero, Simply the Best e Typical Male, il ruspante, palpabile soul della Tina di un tempo era rimasto più come colore che come autentica sostanza, lasciando il posto a una maturità tecnica e a un controllo della propria tavolozza cromatica rimarchevoli, ma usati in un contesto francamente pop. La schietta emotività e la tensione dolente o gioiosa del blues erano scomparsi: ne emergeva una nuova, ben distinta Tina, più serena, che abbandonando l’ardore e i conflitti della fede battista abbracciava la filosofia buddista, che si confessava in un libro autobiografico di successo, guardava con fiducia al cinema e rinunciava volentieri alle fatiche delle tournée. Sceglieva dapprima una residenza a Londra (dove nel 2018 si sarebbe visto il musical teatrale a lei dedicato, Tina) e poi in Svizzera (qui morirà nel 2023 da cittadina elvetica, a Küsnacht, vicino a Zurigo), tenendosi a distanza, ormai, dalla realtà e dall’estetica nera di soul e blues, ancora vissute da sue talentuose conterranee e contemporanee come Ann Peebles, Shirley Brown o Barbara Carr.

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