Thomas Bangalter: Mythologies

Dopo aver dominato per oltre 25 anni la scena dance-elettronica con i Daft Punk, Thomas Bangalter torna ad affrontare la musica «da ballo» ma stavolta come compositore classico

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La danza francese è di antica tradizione. Molti storici indicano quale primo esempio del genere il Ballet Comique de la Reine realizzato nel 1581 da Baldassarre Baltazarini di Belgiojoso, poi Balthasar de Beaujoyeulx (1535-1587), violinista e compositore lombardo (o piemontese, non è chiaro) che serviva alla corte di Caterina de’ Medici. Esso fu ballato dalla stessa regina, che della danza era follemente innamorata. A partire dalla seconda metà del XVII secolo, su iniziativa di Luigi XIV che era un ballerino di talento, nasce in seno all’Académie de Musique l’Acàdemie Royale de Danse. Il Ballet de Cour raggiunge il suo apogeo nelle grandi feste di Versailles e dopo il 1670 un altro genio italiano, Giovanni Battista Lulli, poi Jean–Baptiste Lully (1632-1687) sviluppa su questo genere la Tragédie lyrique, nuova tipologia di melodramma di ambientazione mitologica con un ampio spazio riservato alla coreografia. Nelle epoche successive l’attenzione verso la musica per la danza non diminuirà mai, tanto che oggi diverse partiture di autori francesi sono considerate vere e proprie pietre angolari, come per esempio La Sylphide di Jean Schneitzhoeffer, Giselle di Adolphe-Charles Adam, Paquita di Edouard Deldevez, Coppélia e Sylvia di Léo Delibes, Namouna di Edouard Lalo. 

La danza, in Francia, è anche una delle componenti tipiche del genere operistico: diversi libretti includono episodi coreografici che creano varietà e risultano molto graditi, specialmente nell’Ottocento, quando l’emergente borghesia cittadina è in cerca di spettacoli sempre più raffinati, costosi e d’effetto. Possiamo qui citare, oltre ai precedenti, tanti altri nomi: Étienne Nicolas Méhul, Rodolphe Kreutzer, Ferdinand Hérold, Fromental Halévy, Daniel Auber, Jacques Offenbach, Aloisius Ludwig Minkus,, André Messager, Ambroise Thomas senza dimenticare colui che, forse, è il più grande (quanto purtroppo oggi nell’oblio), Giacomo Meyerbeer, autore di un’opera fondamentale per il melodramma francese come Robert le Diable (1831). 

Nel XX secolo la tradizione prosegue con compositori quali Jacques Ibert, Georges Antheil, Claude Debussy e, più vicini a noi, Jean Françaix e Georges Delerue, solo per citarne alcuni. A questo parterre de rois si aggiunge ora Thomas Bangalter, musicista e dj francese noto anche come metà, insieme a Guy-Manuel de Homem-Christo, dei Daft Punk, duo che ha dominato la scena dance per quasi 15 anni (l’ultimo lavoro «Random Access Memories» è del 2013). «Mythologies», appena pubblicato da Warner in doppio cd, contiene la musica concepita per il balletto omonimo del brillante coreografo Angelin Preljocaj, presentato nel luglio del 2022 presso il Grand Théatre de Bordeaux. Una sorprendente partitura orchestrale, ben incisa in questo album dall’Orchestre National Bordeaux Aquitaine diretta da Romain Dumas. Un lavoro fresco, ispirato e anche coraggioso, che sceglie di scansare soluzioni a effetto al fine di calarsi convintamente nella tradizione. Musica che è quindi anche un atto d’amore per la danza, il che per Thomas Bangalter non è certo un caso poichè tale espressione umana e artistica, sia pure secondo modalità diversissime (il French touch qui è davvero lontano), è stata la stella polare che ha accompagnato l’intero suo cammino artistico. Abbiamo avuto il piacere e il privilegio di conversare con l’autore.

Thomas Bangalter, con questo lavoro si ritrova a percorrere territori diversi rispetto a quelli d’origine. Considera «Mythologies» una digressione o un punto d’arrivo della sua scrittura?

Non considero «Mythologies» una deviazione, piuttosto un passo consequenziale nel mio itinerario, un genuino progresso. Avevo già esplorato in passato la relazione tra musica e tecnologia, ma per me la vera esplorazione riguarda lo spazio che intercorre tra musica e vita reale, e questo aspetto così importante non è cambiato.

Del resto, non posso neppure dire che si tratti di un approdo finale, poichè ritengo di trovarmi ancora nel bel mezzo di un viaggio. Potremmo forse paragonarlo a una corsa in treno, in questo caso si tratterebbe di una tappa, una fermata in stazione. Ma neppure il treno è l’immagine più azzeccata poichè il suo percorso è fisso, predeterminato. Meglio allora pensare a una camminata! Non è la prima volta che lavoro con l’orchestra, l’opportunità l’avevo già avuta ma in quel caso la situazione era molto differente, si trattava dell’interazione tra un’orchestra sinfonica e l’elettronica.

L’esperienza di «Mythologies», con la pura scrittura orchestrale, è stata totalmente diversa e più naturale.

Approfondirei, se è d’accordo, questo allunaggio sul pianeta della composizione orchestrale. C’è uno stupendo passo di Rilke nelle Lettere a un giovane poeta: «Il futuro entra in noi, per trasformarsi in noi, molto prima che accada». È il passato della sua formazione che torna a farle visita richiamandola a sè, oppure si tratta di una seconda vita, una nuova e magari inaspettata esperienza? 

È una bellissima immagine! Credo di trovarmi in una posizione intermedia. Adoro i romantici come i surrealisti, i brutalisti, gli astrattisti, ma ciò che mi eccita maggiormente è la coesistenza tra diverse estetiche. Tutti noi ci confrontiamo continuamente con un annoso cliché, quello che porta a separare la vita in categorie. In musica, ad esempio, ci sono l’elettronica, il rock, il punk, la disco music e così via. Separare questi generi è certamente comodo e può avere un senso, ma solo per le etichette che hanno l’esigenza di organizzare il mercato e decidere in quale scatola collocarti. La medesima tavolozza può esistere nel futurismo, nel retrofuturismo, nell’accademismo, nel romanticismo… Gli strumenti in mano a un artista sono sempre gli stessi, qualunque sia lo stile in cui sta creando. Il futuro è esplorazione e assimilazione di idee. Per tornare al cuore della sua domanda, si è trattato di un processo spontaneo, che forse non sono neppure in grado di spiegare del tutto. Questa musica, come ripeto, non è il frutto di riflessioni ma dell’istinto e, nel crearla, non ho trovato mai il tempo per la teoria. Una volta amavo molto teorizzare e mi rivolgevo alla scrittura pressappoco come mi rivolgerei al gioco degli scacchi. Qui invece, giusto per ricorrere a un’immagine mitologica, mi sono sentito come il Minotauro nel labirinto, una condizione indubbiamente molto stimolante.

Mi colpisce la naturalezza con cui questa musica respira e vive anche lontano dalla coreografia per cui è stata concepita. Ha scelto per «Mythologies» un linguaggio tradizionale, ma la musica appare circondata da un carattere onirico, fuori dal tempo. Come se venisse da lontano, non tanto dal passato, piuttosto da un luogo rimosso della contemporaneità.

Grazie, sono molto contento che percepisca tutto ciò, perchè verbalizza bene ciò che mi sono proposto di fare con l’istinto. Da molto tempo mi interesso alle mitologie e ai miti e in particolare, in anni recenti, ho letto diversi libri di Joseph Campbell, come questo [estrae un libro dalla sua libreria e me lo mostra] L’eroe dai 1000 volti» Campbell era un insegnante di mitologia comparata e nei suoi numerosi scritti troviamo uno studio comparato dei miti dell’umanità, allo scopo di dar forma al mito originario che per lui è fondamentalmente uno soltanto, presente secondo vari schemi in tutti i popoli nativi. Campbell è stato di grandissima ispirazione per diversi artisti degli anni Sessanta e fu anche uno dei consulenti di George Lucas per la sceneggiatura di Guerre Stellari. Decisi tempo fa di provare a comporre qualcosa ispirandomi a queste tematiche che tanto mi appassionano. Poi, un giorno, Angelin Preljocaj mi chiamò invitandomi a scrivere per una sua coreografia. A quel punto, siccome non aveva un «concept» preciso, pensai di sottoporgli l’ascolto di alcuni degli sketches che avevo già composto, parlo di 15/20 minuti di musica, non di più. La cosa interessante fu che dopo averli ascoltati Angelin tornò da me e mi disse:» Penso che potremmo lavorare sul tema dei miti»! Ovviamente mi misi subito al lavoro… Mi ripromisi di tradurre in musica l’essenza di molti miti universali, ma soprattutto il loro carattere atemporale. 

È interessante la maniera in cui lei, prima, ha descritto questa mia musica poichè è la stessa con cui io descrivo i miti. Essi appartengono al passato e anche al futuro e, per natura, si pongono al di fuori di ogni contemporaneità. Per questa ragione ho scelto di non utilizzare in questa composizione alcun elemento elettronico. Le tecnologie, l’elettronica, le macchine e l’amplificazione sono fatti recenti. Afferiscono al presente, non al passato e direi, specie in un momento di rapida evoluzione come quello attuale, neppure al futuro, destinate come sono a trasformarsi costantemente in qualcosa di diverso, più evoluto… potremmo addirittura immaginare, perchè no, un mondo post-apocalittico del tutto privo di tecnologia! Essa quindi è destinata a connotare un tempo molto ristretto. Anche l’orchestra esiste in un perimetro temporale limitato, è vero, ma la sua ricchezza, il fatto che non richieda elettricità per funzionare, i diversi secoli di storia che l’accompagnano, tutto questo ne fa la sorgente luminosa ideale per illuminare col proprio cono di luce questi miti. Il senso di distanza cui lei accennava prima deriva dal fatto che simili storie provenienti dal passato sono in grado di illustrare sia il presente sia il futuro. Per rappresentare musicalmente tutto ciò ho sentito l’esigenza di concepire melodie che ispirassero l’idea di un folklore immaginario, linee melodiche totalmente costruite che però risuonassero familiari, tradizionali.

Anche Bartók e Albeniz fecero la stessa cosa. Iberia, per esempio, non contiene autentico folklore spagnolo, si tratta di un folklore «sognato», però quasi più vero del folklore reale…

Certamente, ed è una prospettiva molto interessante. Pensiamo per esempio a un artista come Frank Capra. Di lui si dice che inventò il sogno americano. James Stewart, il suo personaggio di cittadino ideale in un film come La vita è meravigliosa, intriso di tutta quell’etica, quella filosofia… Difficile dire se Capra sia stato il catalizzatore di quel sogno, se ne abbia sintetizzato lo spirito preesistente o se abbia invece iniettato nella storia la propria umanità individuale di artista…

Probabilmente tutte queste cose insieme.

Probabilmente, ed è proprio questa la cosa più interessante dal punto di vista creativo! Come dicevo prima, è un avvicinarsi al futuro guardando al passato, comprendere la relazione con le proprie radici per coglierne l’evoluzione futura. Una posizione molto più sfumata rispetto a quelle schematiche dei conservatori da una parte, tutti focalizzati sul passato e desiderosi che ogni cosa resti com’è, e degli utopisti dall’altra, che mirano a distruggere e reinventare tutto quanto. Invece io sento la necessità di una coesistenza di queste polarità, ed è soprattutto al giorno d’oggi che questa convivenza ha maggiore senso.

Nella scrittura orchestrale e in particolare nella musica da balletto quali sono i suoi compositori di riferimento?

Penso che in questo progetto l’unico compositore che abbia avuto come riferimento, meno forse sul piano estetico che su quello drammaturgico e dell’approccio formale, sia stato Sergej Prokof’ev. Ammiro enormemente la libertà con cui, nei balletti, organizza le diverse scene, con eclettismo, sorprese e cambiamenti repentini. Lì ritroviamo un carattere meno rigido e solenne rispetto alle forme sinfoniche. Sebbene nello snodarsi delle scene vi siano temi ricorrenti e riprese, l’obiettivo principale di «Mythologies» è creare sorpresa. Amo l’inaspettato, da ascoltatore, poichè il problema con la musica iterativa, anche nell’ elettronica, è che siccome tutto è basato su questo aspetto binario della ripetizione, il cervello è in grado di anticipare ciò che avverrà nella battuta successiva, perciò ritengo che sia proprio l’idea di una forma molto «aspettata» e «rispettata» a funzionare meno! Preferisco stimolare svolte inattese ed è proprio questo che amo nei balletti di Prokof’ev. Così è del resto anche il mio procedere, intendo creare qualcosa che funzioni raccogliendo tutte quelle idee casuali che sempre si manifestano quando lavoro, catturarle, custodire la loro spontaneità, metterle insieme. Curiosamente «Mythologies» ha ripercorso certi processi creativi dell’ultimo album dei Daft Punk. Nel bel mezzo della realizzazione di quel disco, infatti, regnava un senso di caos, la sensazione di poter andare in qualsiasi direzione, ma senza una meta. Poi fu individuato il titolo, «Random Access Memories», e improvvisamente il solo fatto di aver elevato questa semplice parola, random, a una sorta di manifesto, di dichiarazione programmatica, ci ha dato la chiave per organizzare quel caos permettendoci di indirizzare il nostro lavoro.

E ne è uscito un album importante e significativo. Se qualcuno si meraviglia nel vedere Thomas Bangalter cimentarsi in un lavoro orchestrale, io non sono stupito. Nei Daft Punk infatti ho sempre trovato, al di là della doverosa osservanza dei canoni del genere, una cura del dettaglio, un approccio «autoriale» che rende i vostri dischi sempre attuali. Vedo un unico pensiero che si sviluppa in modalità differenti. Che ne pensa?

È buffo, sa? Discutevo recentemente con un giornalista che si occupa di musica classica che, a proposito di questo disco, ha fatto un’osservazione simile! Non vedo rotture, per me è semplicemente la continuazione di un percorso. Forse una frattura stilistica la incontrai quindici anni fa, quando realizzammo la colonna sonora di TRON: Legacy della Disney in cui, come accennavo prima, era prevista un’apparizione di elementi orchestrali su una base elettronica: ecco, quello è stato effettivamente un esperimento nuovo per me, differente da quanto avevo fatto in passato. Ma l’orchestra è parte del mio mondo da molto tempo. Inoltre, mi piace sempre considerare i singoli aspetti musicali come frammenti di un tutto costituito da elementi connessi tra loro. 

Com’è stata l’esperienza di scrivere per la danza e, in particolare, la collaborazione con un artista visionario come Angelin Preljocaj?

La mia famiglia, in realtà, era connessa al mondo della danza. Mia madre era una ballerina di danza classica e contemporanea, mia zia era pure ballerina, mio zio un coreografo, quindi ho trascorso la mia infanzia circondato da questo mondo e sebbene abbia percorso poi altre strade vi sono sempre rimasto legato nel subconscio. In più, sin da bambino, ho amato anche il cinema. Uno dei miei idoli era ed è tuttora Charlie Chaplin, sia per i film, che vidi già in tenera età, che per la musica che componeva, soprattutto la sincronizzazione tra i movimenti e la musica dove si manifesta il suo fortissimo istinto coreografico. Da allora ho sempre approcciato la musica in maniera visuale, cinematografica, ogni volta che scrivo penso sempre a realizzare una colonna sonora per immagini. Ed ecco che, mentre scrivevo e fantasticavo sugli aspetti di un balletto immaginario che si stava creando nella mia mente, Angelin mi chiede se fossi interessato a scrivere un balletto vero! Ho colto al volo questa opportunità, quindi, non solo per esplorare l’orchestrazione ma anche per tornare a quelle radici che mi ricollegano a mia madre. Sul piano più strettamente tecnico, una cosa che volevo assolutamente fare era rompere quella struttura binaria che caratterizza la disco music che avevo sempre fatto in passato, con la sua pulsazione eternamente 1-2-3-4. Nel mio balletto ci sono pochissimi elementi percussivi, in compenso abbondano ritmi in 5, in 7, in 6, in 12, in grado di guidare quei corpi danzanti lontano da quell’aspetto binario. Penso che Angelin sia stato molto gentile a darmi carta bianca. Dopo avergli sottoposto alcuni brani, come dicevo, ha postulato anche questa idea delle mitologie ed è stata una buona coincidenza, essendo io appunto focalizzato da tempo su quelle tematiche.

Successivamente mi ha inviato una sorta di libretto con un elenco di tutte le principali mitologie. Sono stato io ad assegnare gli sketches ai singoli soggetti, gli ho fatto le mie proposte («questo è ciò che ho in mente per Perseo, questo per il Minotauro…») e lui ha accettato tutti i miei accoppiamenti. Quindi, dopo una fase piuttosto lunga e solitaria di composizione, è iniziata una stretta collaborazione con il direttore, Romain Dumas, che è stato la mia ancora di salvezza verso la scrittura orchestrale. Nel corso degli anni ho studiato composizione e consultato diversi trattati, alcuni come quello di Rimskij-Korsakov li tengo sempre a portata di mano; ho assimilato una serie di convenzioni e regole che mi ero ripromesso di seguire e, in qualche caso, infrangere. Ma sono molte le cose che non si trovano nei trattati. La misura del rapporto tra un’idea musicale e lo sforzo richiesto all’orchestrale per realizzarla, ad esempio, la gestione dei respiri e delle arcate, la praticabilità strumentale di certi passaggi, una serie di questioni, insomma, alle quali potevo rispondere soltanto con un bagaglio di esperienza che non avevo. Romain Dumas mi ha dato un grande aiuto nell’illustrarmi cosa poteva funzionare e cosa no, e davvero fantastico è stato il modo in cui ho potuto condividere apertamente con lui una parte importante di questo processo creativo. Così, dopo molti mesi, ho potuto tornare da Angelin portando in dote circa un’ora e 45 minuti di musica! Alcune parti erano state rimontate, proprio come avrebbe fatto un regista cinematografico con le sue scene, alcune espunte, altre riscritte, altre ancora ripetute per adattarmi alle sue idee. A quel punto il lavoro coreografico vero e proprio ha potuto finalmente prendere vita. Ma solo quando eravamo molto vicini alla première mi sono reso conto di trovarmi di fronte a un secondo balletto, non quello che avevo in mente quando scrivevo la musica, uno totalmente diverso, ed è stato commovente ed emozionante scoprire la sua nuova coreografia, con venti danzatori e l’intera orchestra. Dopo molti, molti mesi di lavoro solitario, determinati anche dal lockdown e dalla separazione da esso imposta, eravamo finalmente giunti al risultato.

Devo dire che l’Orchestre National Bordeaux Aquitaine, che confesso di aver ascoltato nel suo disco per la prima volta, è eccellente.

È vero.

La nostra rivista cerca di osservare tutte le esperienze musicali ma da un punto di vista ben preciso, il jazz. Qual è il suo rapporto con questa musica? E che ruolo riveste l’improvvisazione nei suoi processi compositivi?

Direi che in questo progetto abbia giocato una parte maggiore del solito. Nel passato la mia relazione con l’improvvisazione si consumava principalmente durante gli assolo, ora con il vocoder, ora con il sintetizzatore, poichè la musica pop è basata su strutture armonicamente rigide di otto battute. Qui l’improvvisazione l’ho praticata a un livello diverso, e mi spiego. Lei menzionava prima quel senso di distanza, ecco io credo che derivi da una combinazione istintiva di armonie consonanti e dissonanti. Chiaramente i modi di gestire la dissonanza nel tessuto armonico sono davvero illimitati e possono offrire soluzioni infinitamente interessanti, basti pensare appunto a Prokof’ev, a Stravinsky o alla musica strumentale e sinfonica dell’inizio del XX secolo. C’è in quel meraviglioso repertorio un’enorme curiosità e sperimentazione verso l’ignoto. Purtroppo tutto ciò non funziona, di solito, nella pop music a meno di sospingerla verso regioni diverse come quelle del progressive rock, con combinazioni più bizzarre. Ma è tutto un altro mondo! La palette dell’orchestra sinfonica ti fa sentire più a tuo agio sia con l’improvvisazione che con la sperimentazione. Talvolta si può improvvisare anche «logisticamente», dislocando i passaggi! Stravinsky, che scriveva a matita, sperimentava anche copiando e incollando certi frammenti, sottoponendoli a permutazioni ed inversioni. Esiste una sperimentazione che va oltre l’improvvisazione, un’improvvisazione concettuale! Allo stesso modo, per creare quelle melodie popolari cui accennavo prima, decisi di comporle quasi di getto, come in una sorta di scrittura automatica, cercando la connessione con qualcosa di più profondo. Direi quindi di aver sperimentato maggiore libertà qui rispetto a quando creavo musica orientata sul pop, genere che richiede un artigianato differente e «exercices de style» più rigidi. È stato interessante anche concepire con l’orchestra sonorità intrecciate, fatte di elementi e timbri sovrapposti, al fine di evocare certi aspetti misteriosi, mistici, sconosciuti o trascendentali. In sintesi, il confronto tra queste differenti libertà è la connessione che io sento tra gli autori jazz e i compositori che citavo prima, grandi creatori che hanno sbaragliato i confini armonici. È questo l’interessante mistero che sento in comune tra quelle due ricerche.

Come artista libero, che ha raggiunto una larga popolarità, cosa sente sia emerso negli ultimi anni dalla società contemporanea? L’arte ha ancora una funzione sociale?

[Prima di rispondere, Thomas Bangalter riflette quasi per mezzo minuto] Questa sì che è una domanda complicata! Fin da quando ho iniziato a lavorare con le macchine ho interrogato ed esplorato la qualità del rapporto tra me e la tecnologia, mi sono interessato alla natura dell’interazione tra tecnologia e creatività e tra il creatore e la tecnica, ma sono anche sempre stato attratto da una tecnologia che potessi dominare. Volevo dominare gli utensili del mio lavoro al fine di esprimere qualcosa che avesse senso per me stesso e per la società. Ed è vero che, specie negli anni più recenti, sono stato testimone di diverse tipologie di rapporto tra la tecnologia e la società, più o meno qualitative, così come ho potuto soppesare l’equilibrio tra tecnologia, società ed artista. La sua domanda solleva una questione sull’arte in generale. Artista è qualcuno che dovrebbe in primo luogo essere libero, come lei ha detto, non dominato da alcuno e con facoltà di esprimere il proprio punto di vista, oltre a essere in grado, questa libertà, di poterla coltivare. L’opera di un artista, sia pure indirettamente, dovrebbe anche essere esemplare. Persone che hanno a cuore la libertà se ne trovano oggigiorno in differenti aree sociali. Sicuramente in passato era facile individuare nell’artista la persona «libera» per eccellenza, oggi invece ci sono molte iniziative nella società civile, e non solo in campo artistico, tutte intraprese da persone che, semplicemente, vogliono fare del mondo un posto migliore. E poi è diventato più difficile per gli artisti interpretare questo ruolo. Ciò vale specialmente per gli artisti più popolari, che si trovano inseriti in un sistema sempre più dominato da algoritmi e tecnologie. Non possono dirsi veramente liberi da questi processi, quando di fatto ne sono dominati.

È quindi ancora possibile oggi, in un’epoca in cui lo star-system è pilotato da TikTok e dai talent show, la congiunzione astrale tra il successo planetario e la qualità della ricerca musicale? Penso ai Daft Punk ma anche a Giorgio Moroder, cui è dedicato un brano nell’album del 2013 «Random Access Memories») ?

Credo di sì, io resto fiducioso in tal senso. Certo, oggi sono gli algoritmi a determinare in modo automatico i meccanismi di selezione del gusto. Il pubblico, intendiamoci, ha un forte interesse per la creatività, ma si cerca di indirizzarlo e incasellarlo secondo modalità molto opache, creando di fatto un ostacolo tra l’individuo e le nuove proposte artistiche. E questo meccanismo sta divenendo via via più autoreferenziale, il suo significato sempre più oscuro persino per coloro che lo programmano! Sembra di assistere alla rivoluzione delle tecnologie che vogliono affrancarsi da coloro che le hanno concepite. Tuttavia credo ancora che le persone, su scala globale, abbiano la mente aperta, vogliano fare scoperte, sorprendersi ed essere libere da un algoritmo che dice: «Ti piace il jazz? Voglio nutrirti solo di jazz. Ti piace la urban music? Di quella ti rifornisco». L’algoritmo non capisce le nuances, il fatto che il gusto musicale si genera a livello emotivo per cui, come essere umano, puoi venir commosso e toccato da qualcosa che assolutamente non ti aspetti. Il fatto è che una volta la musica ci arrivava attraverso i dischi in vinile, oggi attraverso gli smartphone e TikTok, ogni giorno vengono rilasciate sulle piattaforme decine di migliaia di canzoni nuove, come fai a organizzare questi big data? Nessuno lo sa e questo provoca vertigini. Ecco spiegati gli ostacoli verso chi ha sete di conoscenza, quegli incasellamenti di cui parlavamo prima. Tutti meccanismi messi lì apposta per semplificare le cose quando il mondo e la natura umana sono invece molto complessi, differenziati, ricchi di sfumature.

Accennava prima al suo rapporto col cinema. Ce ne vuole parlare più a fondo? Lei ha lavorato per la settima arte in più occasioni, da TRON: Legacy (Joseph Kosinski, 2010, con i Daft Punk) a Climax (Gaspar Noè, 2018). Il cinema, questo sogno ad occhi aperti, è divenuto nei tempi moderni il vero erede del melodramma.

Sono d’accordo. È un discorso un po’ complicato poichè non si tratta di una forma d’arte in senso totale, piuttosto direi una forma d’arte industriale. Il cinema è industria, questa è la sua natura. Lo ritengo una grande fonte d’ispirazione e motivazione creativa per il godimento fisico che traggo dall’esperienza cinematografica in sè, ma allo stesso tempo mi sento portato ad amarne di più la parte non industriale. Il filmmaking è in realtà un processo molto collaborativo, un film è il frutto dell’azione di un gruppo di persone. Nel suo saggio Sapiens, Yuval Noah Harari ci parla della capacità dell’uomo preistorico di organizzarsi in gruppi non grandissimi, dalle 100 alle 150 persone, allo scopo di raggiungere obiettivi comuni ed evolversi. Ecco, questa immagine mi ricorda un po’ la troupe di un film! Trovo meraviglioso, persino commovente veder scorrere tutti quei nomi nei titoli di coda di un film che ho amato, persone che hanno concorso a creare quell’opera d’arte. Questo avviene anche nel teatro e nell’opera lirica. Anche in «Mythologies» c’è stato il concorso di 55 professori d’orchestra, 20 ballerini, 30 o 40 tecnici. Parlavamo prima di funzione sociale dell’arte, non il sacrificarsi ma il dedicarsi anima e corpo al raggiungimento di uno scopo. È bellezza, questa, una bellezza che va oltre l’idea dell’artista come figura romantica, isolata e solitaria.

Thomas Bangalter, un’ultima ma importante domanda. «Mythologies» avrà un seguito? Ha in animo di ritornare alla composizione orchestrale?

Guardi, sto lavorando (lo faccio incessantemente) a nuove idee, che in parte scarto e butto nel cestino, in parte elaboro e conservo. Attualmente mi sto dedicando a qualche progetto di colonna sonora per il cinema. Il processo di scrittura e orchestrazione è stato complicato, come dicevo, ma anche stimolante, ho imparato moltissimo e maturato una maggiore confidenza con questo tipo di composizione. Probabilmente tutto ciò mi porterà nel futuro a ritornarci. Magari non sarà un altro balletto di 90 minuti, forse qualcosa di diverso, però è stata un’occasione unica per ridiscutere il mio rapporto con la tecnologia e collegarmi a nuovi processi creativi. Nel passato ero davvero, come si usa dire, un uomo multitasking, occupandomi della composizione, del missaggio, della produzione, dell’esecuzione. Attualmente mi interessava dedicarmi a un aspetto soltanto, e approfondirlo. Volevo provare a vivere una vita che non fosse quella che avevo vissuto finora. Mi sento molto grato per tutto ciò.

 

Opere citate:

Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta (Adelphi, 1980)

Joseph Campbell, L’eroe dai 1000 volti (Lindau, 2016)

Yuval Noah Harari, 

Sapiens. Da animali a Dei: breve storia dell’umanità (Bompiani, 2017)

Daft Punk «Random Access Memories» (Columbia, 2013)

Frank Capra It’s a Wonderful Life (1946)

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