The New Definitive Tristano

La pubblicazione di un box di sei cd di materiale quasi completamente inedito e sparso su un arco di venticinque anni permette di riesaminare «il caso Tristano» in maniera ben più approfondita e forse, una buona volta, definitiva

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Alla data della morte, avvenuta il 18 novembre 1978 (all’età di cinquantanove anni), la discografia in long playing di Lennie Tristano la si poteva contare sulle dita (non tutte, peraltro) di una mano. Proprio nella seconda metà degli anni Settanta, aveva iniziato a circolare in Europa, pur con una certa difficoltà, il 33 giri «Descent Into The Maelstrom», il cui brano omonimo risultò da subito talmente spiazzante e fuori da ogni possibile catalogazione da non fare ben considerare l’importanza delle altre track contenute in quella sorta di strana antologia: quelle del trio del 1952 con Peter Ind e Roy Haynes e del trio 1965-1966 con Sonny Dallas (basso) e Nick Stabulas (batteria). D’altro canto, solo nel 1972 era stato pubblicato «Crosscurrents», dalla Capitol, come raccolta dei sette, fondamentali brani incisi in 78 giri nel 1949 e che nel 2013 sarebbe stato incluso nella Grammy Hall of Fame. Fino ad allora, quanto a 33 giri, la musica di Tristano era quella dei due Atlantic: l’omonimo «Tristano», uscito nel 1956, contenente la Requiem Sonata, oltre a una manciata di brani in quartetto con Lee Konitz, registrati live al Confucius Restaurant di New York l’11 giugno 1955, e «The New Tristano», in piano solo, del 1962.
Dall’anno dopo la morte e nei primi anni Ottanta, iniziano a fuoriuscire diversi live dai cassetti, alcuni molto importanti: innanzitutto l’Atlantic pubblica un doppio lp con l’intera session del Confucius, quindi su Elektra Musician escono le home recordings del trio con Peter Ind e Tom Weyburn, sempre del 1955-1956; la Phontastic mette sul mercato i primi assolo del 1945 e l’italiana Raretone i trii del 1946-1947; entrano in scena infine vari live dalle sedute in piccolo gruppo all’Half Note, il locale dove il Nostro si era esibito tante volte. La meritoria azione e il costante impegno dei tristaniani (la famiglia e gli ultimi allievi, soprattutto Carol Tristano, Connie Crothers e Lenny Popkin) e, non meno, il lavoro degli storici e dei musicologi (dal notevolissimo saggio di Gunther Schuller su I Can’t Get Started, come epilogo del volume sulle orchestre bianche e i complessi al limitare della Swing Era, sino alla biografia di Eunmi Shin del 2007, passando fra gli altri per il volume di Peter Ind) definiscono in modo sempre più preciso il volto musicale di Tristano. Eppure, l’impressione è che si tratti di limature e, appunto, ridefinizioni ma che quanto si sa del Maestro (così lo ha sempre chiamato Lee Konitz che gli dedica le sue conversazioni con Andy Hamilton) non fosse né in discussione, né comunque meritorio di ampia analisi: Lennie Tristano era e resta un «musicista per musicisti» e nel suo dorato limbo poteva rimanere.

Ora, d’un tratto, quasi un fulmine a ciel sereno, giunge questo cofanetto della Mosaic con ben sei cd i quali, beninteso, non sostituiscono ciò che già abbiamo e ben conosciamo (non ritroviamo, per intenderci, gli storici Wow, Intuition, Requiem, Turkish Mambo, C Minor Complex) ma danno un completamento per certi versi definitivo dell’opera e del percorso complessivo di Tristano.

Nello specifico si tratta di sei cd ben suddivisi per periodi, organici e indirizzi stilistici. Il primo riguarda il trio del 1947, con Billy Bauer (chitarra) e Arnold Fishkin (contrabbasso), ma con una registrazione anche del 1946 e tre dell’estate 1948. Il secondo è tutto dedicato al piano solo, per lo più all’esperienza che sta dietro a «The New Tristano» del 1962, tuttavia con due interessanti intromissioni: un brano del 1952 (tra l’altro registrato benissimo da Rudy Van Gelder e pure con i procedimenti di overdubbing, in post-produzione) e, a chiusura, un trittico del 15 ottobre 1970, destinato a rimanere, di fatto, l’ultima testimonianza discografica tristaniana. Il terzo disco vede protagonista il sestetto del 1949, quello con i due sax di Lee Konitz e Warne Marsh, e la ritmica con Billy Bauer, Arnold Fishkin e Jeff Morton alla batteria. La particolarità deriva dal fatto che, per lo più, le registrazioni sono del 1950, a riprova del fatto che quel gruppo (con il suo bassista titolare, Fishkin) continuava a suonare e, fra l’altro, con qualche successivo aggiustamento nella ritmica, avrebbe continuato a farlo negli anni successivi. Il disco contiene anche un brano cronologicamente di qualche mese precedente e un paio (ma con Joe Shulman al basso) di un live alla Carnegie Hall della vigilia di Natale del 1949: quest’ultimo è l’unico dell’intera serie già edito e noto. Il quarto disco copre un periodo nevralgico ben preciso, quello della metà anni Cinquanta, con un paio di formazioni in trio, entrambe con Peter Ind al basso ma con due diversi batteristi, una con Tom Weyburn e l’altra con Al Levitt, per undici brani tutti registrati nello studio di Tristano all’indirizzo della East 32nd Street.

Il quinto disco è centrato sul periodo a metà degli anni Sessanta, al ritorno dalla tournée europea, in duo con Sonny Dallas al basso e in trio con l’aggiunta di Nick Stabulas alla batteria. Infine, con il sesto disco la Mosaic si concede una chiosa «creativa», accostando sette brani dell’ensemble del 1948, tutti legati dal fil rouge dell’approccio atonale-informale, ad altri sette che invece documentano l’attività all’Half Note del 1962, con Dallas e Stabulas, ma con la sorpresa finale di una versione di How Deep Is The Ocean in quartetto con Zoot Sims al sax tenore.

La prima, opportuna domanda sul senso e sulla sostanza di tanto materiale inedito, merita una risposta semplice: sì, questi cd aggiungono molta sostanza al quadro generale dell’opera di Lennie Tristano, soprattutto per quel che riguarda le prove in solo e in trio, ma non meno, per altri versi, i sette brani informali del 1948. Naturalmente ciò non significa che questa musica porti a dei cambiamenti sostanziali sul giudizio storico che noi tutti abbiamo su un artista che chiuse la sua stagione creativa più di cinquant’anni fa. Essa, tuttavia, non solo completa l’immagine di Tristano ma soprattutto ci restituisce il suono di una mente assolutamente unica.

La musica in trio del primo cd è purtroppo registrata abbastanza male, soprattutto quella relativa alle prime cinque tracks del 1946, al White’s Restaurant di Freeport, Long Island. I tre musicisti suonano e improvvisano su brani e basi armoniche che erano e sarebbero rimaste negli anni fra gli abituali percorsi tristaniani, anche se contrassegnati da titoli diversi, per quanto spesso molto indicatori: Just You Just Me (Lennie’s Song), I Surrender Dear (Surrender), What Is This Thing Called Love (Stream Line), Night and Day (Day and Night). Tutto sommato il clima è abbastanza mainstream ma già al sesto brano, documento di un live di un anno dopo (siamo nell’ottobre 1947, in una delle prime puntate del «Dave Garroway Show»), Tristano è molto più libero, sperimentatore e, non casualmente, questa libertà è avvertibile sul tempo medio-lento di un brano come I Can’t Get Started (segnato come Rhapsody) che il pianista andava indagando costantemente da almeno un anno. È un duo senza chitarra e il bassista non è accreditato ma la l’apertura della concezione armonica non ha eguali, dentro a quell’alveo di nebuloso camerismo impressionistico che cala Tristano in una unicità sua propria. Per il resto, i live confermano un interplay efficacissimo, soprattutto fra pianoforte e chitarra, con una virtuosistica fluidità che dà spesso il senso del rincorrersi fra le linee come in un gioco, a volte compiaciuto.

Il secondo cd inizia con un solo inedito del 1952, della stessa temperie creativa di Ju-Ju e Pastime, completato in overdubbing, in fase di post-produzione, ma registrato molto bene rispetto ai due brani autoprodotti. Si intitola Spectrum ed è un brano che, di nuovo, dà il senso dell’unicità di Tristano che qui, senza proclami, allinea i percorsi del jazz a quelli della musica eurocolta, dove il suo pianoforte si pone gli stessi problemi di natura estetica che, di là dell’Atlantico, si stanno ponendo Pierre Boulez, Jean Barraqué e Karlheinz Stockhausen. I problemi sono gli stessi ma le soluzioni sono diverse perché l’atonalismo del jazz è pragmatico, perché il compositore-creatore è qui un improvvisatore-performer: questo Spectrum è un brano di cui tenere conto, assolutamente attualissimo, poggiante su una poetica mai pienamente indagata e frequentata.

Seguono ben quattordici brani, «restituiti» dagli archivi Atlantic, dalla seduta di incisione del 1962 da cui era scaturito «The New Tristano». Si tratta, in realtà, di molte alternate takes che qui appaiono con titoli un po’ diversi ma tutte, inevitabilmente, derivanti dalle medesime strutture armoniche più o meno rispettate: Pennies in Minor (New Pennies e C Minor Fantasy), It Could Happen to You (Dusk), These Foolish Things, My Melancholy Baby (Tania’s Dance), What Is This Thing Called Love? (Call It Love e Studio Time Medley), Foolin’ Myself (No Foolin’), All Of Me (When Your Lover Has Gone, Bud Line), Day By Day (Palo Alto Days), These Foolish (Thing Foolish Again).

Come per tutti I brani di «The New Tristano», il filo conduttore è quello della poliritmia costruito dal contrasto della mano destra sul walking della sinistra. Incuriosisce il ritorno in repertorio di quel These Foolish Things che era stato fra i punti fermi della scaletta del live al Confucius in quartetto con Konitz di sette anni prima; incuriosisce perché questa versione fa proprio da ponte con quella stagione, mettendo da parte lo scavo fra i meandri poliritmici e tornando a tirare in ballo gli antichi amori: i block chords e, nel finale, la linea lunga snocciolata come un rosario in caduta libera. Ma il furore poliritmico riprende il sopravvento con i vecchi pezzi forti che a suo tempo erano andati a costituire i movimenti della suite Scenes And Variations: Carol, Tania, Bud.

Di notevole interesse è in ogni caso il Tristano che torna agli standard della gioventù: in tal senso, le due introduzioni di Call It Love e di Studio Time Medley (da quel What Is This Thing Called Love? che è tfra le dita di Tristano dalle prime registrazioni del 1945) sono davvero esemplari, come una sorta di libere «toccate» che potrebbero, esse stesse, continuare e conchiudersi come pezzi a sé stanti. Per altri versi è altrettanto interessante la versione di C Minor Complex: una vera e propria alternate take che avrebbe potuto benissimo stare in «The New Tristano» se poi non ci fosse stata la versione (disumana) che tutti conosciamo. In ogni caso Tristano era in una forma smagliante e avrebbe potuto tranquillamente produrre un triplo: solo che la sua musica era, di suo, già scarsamente commerciale per un singolo.

Verrebbe da dire che, dopo il pianista debordante del 1962, il Tristano del 1970 potrebbe apparire come un nulla di nuovo. Invece quei Love Chords finali, quei titoli di coda estratti da Don’t Blame Me, incredibilmente vicini nell’idea di base al Monk estremo di Londra 1971, quello dei best regards di Chordially, ci lascia nella convinzione che il nostro avrebbe potuto dire ancora molto se non avesse capito di essere, a quel punto, sostanzialmente escluso dal mondo esterno, appena fuori dalle sue mura.

A puntigliosa, pignola riprova della visionarietà tristaniana, i live in sestetto del 1950, del terzo cd del cofanetto, iniziano da un brano free (è titolato Live Free), naturalmente il free da camera tristaniano, con il cameristico contrappunto informale delle linee che si inseguono come fantasmi di corsa fra i tetti. La strana bellezza è che tutte le linee si incatenano le une con le altre, dal primo all’ultimo brano, anche quelli formalmente strutturati ma sostanzialmente aperti a ogni via parallela (al di là della quadratura metrica fornita dalle spazzole di Jeff Morton), anche attraverso inaudite, virtuosistiche fughe in avanti (come in Lennie’s Changes). Su un repertorio che, specie dal vivo, comprendeva anche brani di Konitz (Ice Cream Konitz e Sound Lee) e di Fishkin (Fishin’ Around), il gruppo mostra che da anni lavorava con continuità e in progress alla ricerca di un equilibrio che in effetti richiedeva un approccio fortemente razionale che da più parti già si etichettava come freddo, mentre per il Maestro si trattava, calvinianamente, di una pensosa leggerezza.

E la leggerezza la si ritrova d’incanto nel relaxing swing della serie in trio nel quarto cd, quello che ci riporta nel Manhattan Studio di Tristano, al civico 317 di East 32nd Street, dove in trio con Peter Ind e Tom Weyburn, per intanto il nostro ricorda sommessamente che il ricorso alla manipolazione elettronica della Requiem Sonata quantomeno non era stato deciso, banalmente, per poter correre sulla tastiera più di quanto egli non fosse capace di suo. Le strutture armoniche sono per lo più quelle allora normalmente indagate: Foolin’ Myself (Lennie’s Lines), My Melancholy Baby, If I Had You (e non How Deep Is The Ocean per Oceans Deep), That Old Feeling (That Trading Feeling), You Go To My Head, There Will Never be Another You (ma anche un glorioso non-blues come Limehouse Blues). Non c’è soverchia tensione poliritmica ma, in questa tranquilla stagione tristaniana a metà degli anni Cinquanta, l’idea che la scuola tristaniana potesse anche cullarsi nella leggera pensosità.

Nello stesso clima si muove il trio con un fido batterista, Al Levitt, che avrebbe spesso costituito con l’inglese Peter Ind un duo affiatato e soprattutto affidabilissimo e non è un caso che qui l’esercizio poliritmico tenda a riaffiorare più spesso. Le tracce armoniche sono fra quelle note (Somebody Loves Me e pure Out Of Nowhere da cui già si era originata 317 East 32nd e che qui appare come Lennie’s Place) ma anche uno standard come You’d Be So Nice To Come Home To (qui Trio Lines) che sarebbe rimasto in carniere per i decenni successivi ma connotando principalmente il periodare in solitudine di G Minor Complex in «The New Tristano».

Di ritmica in ritmica, con il quinto cd si giunge al duo con Sonny Dallas di circa un decennio dopo, registrato a Palo Alto Street, nello studio della casa di Hollis. Siamo a metà degli anni Sessanta, di ritorno dalla esaltante ma faticosa tournée europea, tutta in piano solo (eccezion fatta per le situazioni messe a punto sul momento, come in fondo era stata quelle delle giornate berlinesi), e Tristano cerca nella ritmica un po’ di tranquillità. Così Sonny Dallas si incarica semplicemente di fornirgli lo scorrere dei 4/4 sulle armonie di Day By Day (Duo Days), You Stepped Out of Dream (Dream Sequence), My Melancholy Baby (Melancholy Up), Just Friends (Friends), You Go To My Head; e lo stesso accade quando si aggiunge Nick Stabulas alla batteria, sulle strutture di I Should Care e di I Remember You (Lennie’s Groove).

Ma chi era Lennie Tristano? Col sesto cd, il cofanetto della Mosaic tira le somme e prova a rispondere alla domanda, tornando a ritroso ai primi esperimenti informali del 1948 e meritandosi subito un merito incontenstabile: quello di dichiarare ufficialmente che quegli esperimenti non erano evidentemente degli unicum (Tristano, Konitz e tutti i tristaniani lo avevano per altro detto e ridetto più volte), di colpo entrati nel mito delle prime forme di free jazz ante litteram; erano più semplicemente, comunque assai audacemente, il documento di un modo di suonare, di improvvisare fuori dagli schemi e dagli standard, così all’avanguardia che, al di fuori di quella cerchia di pitagorici, lì per lì e per qualche anno, nessuno avrebbe inteso continuare a praticare. Solamente Tristano, in persona, non avrebbe smesso, con le sue sovrincisioni pianistiche, sino al Maelstrom, pur rimasto per decenni nel cassetto. Quando, nel 1949, il sestetto entra in studio e incide Intuition e Digression, ciò che ne esce è il risultato di un apprendistato su cui a lungo tutto il gruppo stava lavorando con grande consapevolezza. Si prenda il brano nominato Formation che è proprio uno studio «di formazione»: anche se nella cattiva salute di registrazioni tecnicamente maldestre, questo dicono i brani della prima parte del sesto dei sei cd Mosaic.
La seconda parte dell’ultimo cd diviene, stavolta sì, una sorta di riepilogo, coi titoli di coda di una lunga storia. All’Half Note, inizia il trio con Sonny Dallas al basso e Nick Stabulas alla batteria, ed è come se si riprendesse un filo interrotto non si sa quando, sulle armonie di You Stepped Out of Dream, When You Are Smiling, Will You Still Be Mine, How Deep Is The Ocean. Ed è qui, su How Deep Is The Ocean, che è come se se ne uscisse un fuori programma inatteso, con il trio che diventa quintetto con Lee Konitz all’alto e Zoot Sims al tenore. Tristano è a suo agio, alterna sprazzi di energia a onde calme, prima del rientro delle due ance nel contrappunto finale. È come un presagio: stava finendo una storia che per tanta parte del mondo del jazz era sempre stata quantomeno ai margini. Dopo le ultime note e gli applausi, chiude la voce di Tristano: «It’s OK».

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