Rufus Reid: un fuoriclasse del contrabbasso

Abbiamo avuto l’occasione di intervistare di persona uno dei grandi maestri del contrabbasso: un’opportunità rara, perché ormai Rufus Reid si è stancato di una vita in tour e si fa vedere poco in giro. Lo ascoltiamo mentre ci racconta i momenti salienti di una vita piena di incontri

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In occasione di una residenza didattica durata una settimana presso la Guildhall School Music di Londra, abbiamo avuto modo di intercettare Rufus Reid, uno dei contrabbassisti più importanti della sua generazione, che negli ultimi anni ha diradato le proprie apparizioni live, specialmente in Europa, per potersi dedicare completamente alla composizione e all’arrangiamento di nuovi brani. Uno dei bandi al quale Reid ha partecipato ha portato alla genesi di una suite per orchestra che, per motivi di costi, ha avuto poche occasioni di essere proposta dal vivo. Per questo motivo, oltre all’aspetto pedagogico dell’ingaggio, il contrabbassista era molto contento di poter vedere il proprio repertorio eseguito dal vivo. Nel pomeriggio antecedente il concerto abbiamo parlato di questo e molto altro.

La prima cosa che vorrei chiederle è un breve riassunto delle tappe fondamentali che hanno portato un ragazzo di Atlanta a diventare uno dei contrabbassisti professionisti più richiesti di New York.
Non è facile rispondere a questa domanda, ci sono molti episodi da rimarcare, ma proverò a non divagare troppo. Sono nato ad Atlanta ottant’anni fa ma ho lasciato la città quando avevo sette anni, visto che la mia famiglia si trasferì a Sacramento, in California. Mentre andavo a scuola amavo già la musica e iniziai suonando la tromba, che continuai a studiare anche quando frequentavo le scuole superiori. Mi piaceva molto anche lo sport, il basket e il baseball ma, sai, a una certa età devi decidere, non puoi fare tutto. E alla fine ho sempre scelto la musica. A quell’epoca, inoltre, negli Stati Uniti c’era la leva obbligatoria. Le alternative per evitarla erano l’iscrizione al college o sposarsi, e non volevo fare nessuna delle due cose. Quindi fui reclutato nell’aviazione, dove partecipai e superai il provino per entrare nella banda, cosa che nell’esercito probabilmente non sarebbe bastata, dovevi anche piacere a chi decideva. Avevo 17 anni, quindi mia madre firmò per me anche se non era molto convinta perché voleva che andassi avanti con gli studi. Allora le dissi: «Vuoi che impugni un tromba o che impugni un fucile?» Questa domanda la convinse a firmare e non ci furono problemi. La maggior parte delle persone non ha un bel ricordo dell’esperienza militare. Per quanto mi riguarda posso dire che mi ha cambiato la vita. Ho imparato da autodidatta a suonare il contrabbasso negli anni Sessanta e ho iniziato a suonare dal vivo a Montgomery in Alabama. Ero lì quando Kennedy fu assassinato, e il problema della segregazione razziale era molto sentito. Nonostante queste tensioni fu un periodo piacevole in quanto potei vedere le esibizioni di James Brown, esponenti della Motown, Ike & Tina Turner e fu fantastico! In seguito fui mandato in Giappone, continuavo a suonare e a migliorare ma l’esperienza in quel Paese fu fondamentale. Vidi il trio di Oscar Peterson, Ray Brown, l’orchestra di Duke Ellington, Il Modern Jazz Quartet, Philly Joe Jones, Charli Persip, Buddy Rich, Benny Golson, Blue Mitchell, Toshiko Akiyoshi, la prima donna orientale a suonare jazz a un livello altissimo. Sono rimasto lì fino alla fine del 1967, quando mio fratello mi permise di trasferirmi a casa sua a Seattle, Washington. Quindi per due anni ho avuto delle spese molto contenute ma investivo tutto quel che risparmiavo in lezioni di musica e frequentavo le jam session locali la sera. Le cose andarono così per un po’ ma un giorno decisi che volevo iscrivermi al college, così mi trasferì alla Northwestern University di Chicago e quello fu un altro momento chiave. Chicago era una grande città, infatti avevo bisogno di un posto dove ci fosse abbastanza lavoro per sbarcare il lunario e all’epoca apprezzavo qualsiasi tipo di musica, non sapevo ancora che sarei diventato un professionista, ma penso che nessuno sa di esserlo finché non lo diventa! Le cose accadono sempre quando meno te lo aspetti, ma ho sempre amato la musica e con il tempo sono migliorato. 

A Chicago ho incontrato colui che fu il mio primo boss: Eddie Harris. È stato il musicista che mi ha influenzato di più durante la mia intera carriera, ci ha insegnato così tante cose e dovevi suonare sul serio, perché lui era a un livello altissimo e non potevi fare cavolate quando stavi sul palco nella sua band. Ma dal punto di vista lavorativo non gli si poteva appuntare nulla. Pagava puntualmente e aveva solo due regole: arrivare in orario ed essere nelle condizioni per poter suonare. Come puoi immaginare molti si presentavano alterati ai concerti ma con lui non potevi permettertelo. Ho imparato un sacco da lui su come registrare, su come viaggiare, e fu lui a spingermi a scrivere il mio metodo per contrabbasso. All’epoca ero riuscito a vendere a dei ragazzini venticinque copie del metodo di Ray Brown, quindi Eddie Harris un giorno mi disse: «Perché non scrivi il tuo, di libro?» All’inizio ero scettico, non pensavo di esserne già in grado. «Sei andato al college, sei intelligente, suoni e incidi con me da qualche tempo: è ora di scrivere il tuo libro! Ma devi fare tassativamente due cose: finirlo, perché la maggior parte delle persone non riesce a finire le cose che inizia, e possederne i diritti». E così è in giro dal 1974 e si può ancora trovare sul mercato. Se fosse stato un metodo per pianoforte o chitarra sarei milionario, ma purtroppo non ci sono così tanti bassisti in circolazione. 

Oltre a lavorare con Eddie mi capitava di suonare con gente che veniva da New York e dalla California. Ogni settimana avevo occasione di suonare con musicisti speciali quando ero il bassista di casa al Jazz Showcase di Joe Segal. Insieme al Village Vanguard il suo era uno dei locali più storici negli USA. Quella fu la mia scuola. Due dei musicisti più impegnativi da accompagnare erano Harold Land e Bobby Hutcherson, loro non si limitavano a fare un rapido soundcheck ma volevano provare con attenzione i brani in scaletta la sera del concerto, e furono anche i primi a portarmi in tournée in Europa. Era il 1972, suppergiù, e poter assaporare l’atmosfera dei festival europei fu un’esperienza fantastica. Ho ricordi di Perugia, Nizza, Pescara. Ero al settimo cielo ed ero sempre più convinto di ciò che stavo facendo. Fare il musicista ti permette di vedere posti incredibili e conoscere persone diverse, cose che non avrei potuto fare se avessi scelto un’altra carriera. Amo l’Italia: io e mia moglie abbiamo trascorso un anniversario di matrimonio prendendo delle lezioni di cucina nel vostro Paese. 

Ma per tornare alla tua domanda, la prima band che vidi quando arrivai a New York fu la Thad Jones e Mel Lewis Orchestra, con la quale poco dopo iniziai anche a suonare (rimanendo per tre anni e mezzo nella band prima che si sciogliesse). Ma all’epoca la gente mi chiedeva da dove venissi, nessuno mi conosceva. Io e mia moglie volevamo trasferirci già da qualche anno a New York ma, sai, quando hai pochi soldi non hai certezza sul dove andrai e cosa farai, perciò per tre anni abbiamo aspettato. Non sapevo ancora nemmeno se fossi pronto mentalmente per una sfida del genere. Per parecchia gente l’ostacolo economico è molto importante, mentre per altri il problema è che non suonano abbastanza bene per poter competere con la concorrenza. New York ha il meglio e il peggio per ogni cosa, come molte altre città d’altronde. 

Alla fine ci trasferimmo a New York nel 1976, un anno dopo la nascita di nostro figlio. Tutti e tre passavamo molto tempo insieme durante i miei spostamenti lavorativi, finché il ragazzo non è cresciuto e ha preso la sua strada. Sono stato fortunato a incontrare una moglie che capiva sul serio quel che stavo facendo e non mi faceva mancare il suo sostegno. A New York ho suonato per quattro anni con Dexter Gordon, tre anni con Jack De Johnette, tempi incredibili. In tutto ciò ho anche registrato con musicisti come Andrew Hill, col quale incidemmo un disco a Milano per la Black Saint.

Volevo sapere qualcosa di più sul suo strumento, so che ne possiede uno molto particolare e mi piacerebbe che mi raccontasse la sua storia.
Il fatto è che al giorno d’oggi è molto difficile viaggiare con il proprio strumento su un aereo. Una volta c’erano queste grandi custodie ma erano scomode da trasportare e anche le compagnie aeree non le vedevano di buon occhio. A Montreal c’è un famoso liutaio chiamato Mario Lamarre. Io faccio parte dell’International Society of Bassists e in uno dei nostri incontri annuali lui portò con sé alcuni contrabbassi. Il mio strumento è tedesco ed è stato prodotto nel 1805 ma non aveva più il suo manico originale. Così Mario mi ha chiesto se fossi stato interessato a convertire il mio strumento in un contrabbasso col manico smontabile. Per convincermi mi disse che non era una sua invenzione, ma che già nel 1840 alcuni liutai europei avevano creato un contrabbasso del genere. Si trattava di uno strumento abbastanza grezzo, che attualmente è conservato in un museo, ma era la prova che l’idea non era del tutto irrealizzabile. C’era un periodo in cui andavano di moda i contrabbassi piccoli, come per esempio quello che usa Dave Holland. Hanno provato a farne suonare uno anche a me, ma non mi ci ritrovavo. Se solo potessi avere ogni sera uno strumento che suona come il mio! Ma purtroppo, come ben sai, non è così. La situazione è comunque migliorata negli ultimi anni, ma è un particolare che può rovinare la performance. Il bassista ha sempre la facoltà di distruggere il lavoro di tutta la band, se lui non suona bene il gruppo non può dare il meglio di sé. Mentre suono non posso recriminare sullo strumento che mi è stato affidato e allo stesso tempo essere concentrato sulla musica. Per questi motivi la proposta di Mario mi interessava sul serio. Prima di prendere una decisione, comunque, mi sono confrontato a lungo con Mark Dresser che è stato uno dei primi ad acquistarlo, proprio perché per quanto intrigante, mi pareva ancora un’idea abbastanza bizzarra e avevo bisogno di fare le mie ricerche. Alla fine mi decisi e da circa quindici anni suono il mio basso ovunque nel mondo, così ora non posso più avere scuse quando suono male! 

Alla mia età quando suono, specialmente coi miei gruppi, non voglio dover pensare alle condizioni del mio strumento. Ormai sto diradando sempre di più le tournée, un po’ perché sono stancanti un po’ perché mi sto dedicando molto di più alla composizione, e di solito suonare e comporre non vanno molto d’accordo come attività. 

Pensa che la musica possa portare un messaggio politico o è meglio che rimanga una forma di puro intrattenimento e resti slegata dalla politica?
In realtà penso che musica e politica non possano essere separate. Allo stesso tempo ci sono musicisti che cercano di creare messaggi ma molto spesso non sono iniziative molto fortunate perché quando suonano stanno pensando a qualcos’altro e non alla musica. È una domanda interessante. Torniamo a Eddie Harris: ogni sera suonavamo bebop, ballads, brani funky ma anche avanguardia, nel senso che suonavamo cose che dovevano tenerci alla larga dal concetto di accordo. Facevamo questo ogni sera. Dipende tutto dai tuoi intenti: se stai prendendo in giro il pubblico sul palco, la gente se ne accorgerà. Eddie era così genuino e onesto. Spesso la gente non lo apprezzava perché le sue registrazioni erano così: sul lato A c’erano i brani pop e funky mentre nel lato B c’era tutt’altro materiale musicale. Io lo ringrazio perché mi ha preparato a fare qualsiasi cosa. Non penso alla politica quando suono, specialmente ora; ma preferisco non discuterne e lo stesso discorso vale per la religione, dal momento che ognuno la pensa a suo modo e io rispetto tutti. 

Ora vorrei passare in rassegna alcuni dischi della sua sterminata discografia e avere un suo commento. Mi piacerebbe partire da «You Make Me Smile» di Art Farmer, uscito per la Soul Note nel 1984. È un disco che apprezzo molto, sia per la scelta dei brani sia per l’atmosfera unica creata dalla coppia Farmer-Jordan.
Il titolo del disco è il titolo di un mio brano che apre l’lp e ho una storia divertente da raccontarti. Amavo suonare con Art Farmer, era un musicista veramente speciale. Una volta Art suonò questo mio brano e dopo un po’ disse: «Ascolta, Rufus, cosa succede a questo punto del brano?» Gli risposi, sorpreso: «Cosa intendi?» E Art replicò: «Mi sembra che queste battute siano fuori contesto, ti va di provare a suonare il brano togliendole?». Fu gentile a chiedermelo, bisogna prestare attenzione con le creazioni altrui, ma all’epoca io stavo ancora imparando a comporre. Insomma, lo suonammo come diceva lui, e sai cosa? Non sentii per nulla la mancanza di quelle otto battute. Ho detto: «Cavolo! Perché le avevo messe?». Comunque Art lo apprezzò così tanto da sceglierlo come titolo del disco, ma se avessi avuto un ego smisurato non glielo avrei certo permesso! Purtroppo abbiamo suonato pochissimo dal vivo con quel gruppo, ma suonavamo spesso assieme negli USA. 

Lavoravo con Art anche nel Jazztet con Benny Golson, ma posso dire che l’intesa fra Art e Clifford Jordan era qualcosa di speciale. Lo apprezzavo anche perché ogni volta portava nuovi brani da contesti apparentemente lontani dal suo background, come in questo disco accade con il brano di Skrjabin che era un arrangiamento del pianista austriaco Fritz Pauer, col quale Art collaborava in quegli anni. Era così divertente poter suonare musica diversa ogni giorno.

Il prossimo disco di cui voglio parlare è a nome di un personaggio di cui si hanno pochissime notizie, dal momento che pare abbia inciso solo questo disco. Sto parlando del batterista italo-americano Al Defemio, gestore di un ristorante nelle vicinanze di New York dove si organizzavano jam session nelle quali poteva dilettarsi lui stesso alla batteria e duettare coi migliori solisti della città. Che ricordo hai di lui?
Sì, ricordo che gestiva un ristorante italiano appena fuori da New York, nella contea di Westchester. Era un cosiddetto «OK drummer», sapeva tenere il tempo, ma non ho altri grandi ricordi.

Qual è il suo parere a riguardo della sua esperienza nel secondo Standard Quartet di Anthony Braxton?
Abbiamo fatto due dischi per la Magenta/A&M a metà anni Ottanta, ma penso che la motivazione principale dietro la pubblicazione di questi lp fosse la volontà dell’etichetta di liberarsi di un po’ di soldi, dovevano spenderli se no li avrebbero persi in tasse e altri oneri, perciò si inventarono questo incontro fra Braxton e il bebop. In quel contesto Anthony era come un pesce fuor d’acqua. Lui non pensa la musica in questa maniera, la sua reputazione è totalmente agli antipodi. Fu davvero difficile, facevo davvero fatica ad ascoltarlo quando suonava, cercavo di seguire Hank (Jones) e Victor (Lewis). Il secondo giorno delle sedute Anthony pensò che fumando un po’ più di marijuana avrebbe suonato meglio, ma non fu così! Quando abbiamo ascoltato le registrazioni eravamo tutti un po’ perplessi. Abbiamo comunque fatto quello per cui eravamo stati pagati. Non abbiamo mai suonato dal vivo assieme ma penso che sarebbe stato un disastro!

Ci racconti di quella volta in cui fu ingaggiato nella band di J.J. Johnson
Quando mi contattò per ingaggiarmi, J.J. si era trasferito ormai da una ventina di anni sulla West Coast, dove principalmente componeva musica per film e pubblicità, aveva praticamente smesso di suonare il trombone. Con il tempo quegli ingaggi diminuirono sempre di più e J.J., in accordo con la moglie, decise di tornare nella natia Indianapolis per dar vita ad un nuovo gruppo. A quel punto chiese al suo manager di ingaggiare il bassista che suonava nei dischi didattici di Jamey Aebersold, con i quali era solito esercitarsi a casa, e per puro caso quel contrabbassista ero io! Questo è il motivo per cui dico sempre ai miei studenti che non sai mai chi ti sta ascoltando, per cui bisogna sempre dare il massimo. E questa ne è la riprova. 

Sono stato nel suo gruppo per nove anni. Dopo i primi tre anni, sua moglie Vivian ebbe un infarto in Giappone e J.J. si prese un anno sabbatico per starle vicino, fin quando lei scomparve circa un anno più tardi. Successivamente J.J. si risposò e rimise in piedi la band per almeno altri tre anni, poi se ne andò anche lui. Fu una bell’esperienza suonare con lui, era un musicista speciale.

Volevo sapere qualcosa di più sul World Bass Violin Ensemble, un gruppo che registrò un disco per la Black Saint nel 1984, composto da sette contrabbassisti e da Thurman Barker alla batteria
Brian Smith era il bassista che mi aveva introdotto nella scena di Chicago, fu lui a portarmi a suonare con Muhal Richard Abrams e Eddie Harris. Muhal era fantastico, mi ha insegnato molto, specialmente per quanto riguarda alcuni aspetti compositivi, d’altra parte era un compositore eccezionale. Per tornare al disco, a essere onesti non fummo i primi a proporre questo tipo di formazione: nel 1980 il New York Bass Violin Choir condotto da Bill Lee, pubblicò un disco per la Strata East con sette contrabbassisti fra cui Ron Carter, Richard Davis, Milt Hinton e altri. Bill Lee era il padre di Spike Lee ed era un ottimo contrabbassista, ma la sua dipendenza dalle droghe non lo aiutò. Il nostro era un progetto un po’ differente, dal momento che Fred Hopkins aveva portato molte idee sviluppate da Henry Threadgill, che già all’epoca utilizzava quattro contrabbassi nei suoi gruppi («X-75 Volume 1»). Fu una bellissima esperienza ed è fantastico che se ne parli ancora oggi.

L’ultimo musicista di cui vorrei chiederle un ricordo è Stan Getz. So che ci ha suonato per poco tempo verso la fine della carriera del sassofonista, ma immagino che sia stato un incontro importante: i dischi di Stan di quel periodo sono uno più bello dell’altro
I nostri dischi in quartetto (usciti come «Anniversary!» e «Serenity») in realtà furono registrati prima del celebre «People Time», quando Stan ormai stava peggiorando ed era già stato operato. Quando ci suonai assieme gli avevano già diagnosticato la malattia e doveva operarsi ma disse che aveva bisogno di fare questo tour e non poteva annullarlo. Kenny e Victor avevano già registrato con lui in passato mentre a me era capitato di accompagnarlo per alcune serate quando era di passaggio a Chicago. Nel 1987 aveva smesso di bere e questo era molto positivo. In passato aveva avuto da ridire con molti bassisti, li ingaggiava per poi scacciarli dopo poco tempo, ma era troppo alterato dall’alcool per fare diversamente. Durante il nostro tour aveva con sé una ragazza cinese che cucinava per lui, e per quanto non avesse toccato alcolici non si negava il piacere della sigaretta. Stavano cercando di tenerlo d’occhio in vista dell’operazione. 

Sono così grato di aver fatto parte di questo gruppo, sai? Stan Getz, «The Sound», è oro puro. So che con molte persone non si comportava benissimo, ma personalmente non ho mai avuto problemi con lui. Se voleva mandarmi a quel paese era libero di farlo e me ne sarei andato, non avevo bisogno di essere trattato in quel modo. Era una specie di bulletto, questo sì, e se il bullo sa che gli dai corda continuerà a prenderti di mira. Ma con Kenny e Victor non poteva comportarsi così e in quelle serate suonò da dio, sono felice che quell’incontro sia stato documentato. Ricordo che una volta Stan mi disse: «Sai cosa? Non sono un grande fan degli assolo di contrabbasso. George Mraz ha una preparazione molto solida e improvvisa molto bene, ma sinceramente non mi piacciono nemmeno i suoi assolo». Però alla fine Stan mi concesse comunque molto spazio, e lo ricordo ancora con affetto.

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