Rosario Bonaccorso: Senza Far Rumore

A colloquio con il ben noto contrabbassista ligure, strumentista di pregio ma anche compositore dalla forte vena melodica ed emotiva, come dimostra il suo più recente album realizzato con Fulvio Sigurtà, Fausto Beccalossi, Olivia Trummer e Roberto Taufic

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Ritrovo Rosario Bonaccorso dopo l’ultima edizione del suo PercFest a Laigueglia. L’atmosfera è rilassata e interloquire con lui sempre molto facile. E c’è una sorta di malinconia che traspare costantemente dalle sue parole, ogni volta che lo incontro: anche quando il suo umore è luminoso il pensiero va sempre a Naco, il fratello percussionista che ha perduto nel 1996 e che aveva onorato con il suo suono sfaccettato gli album e i concerti di Fabrizio De André, Fossati, Capossela e di moltissimi grandi jazzisti. Anche in questa nostra chiacchierata lo abbiamo evocato, ma in un modo sorridente.

Ultimamente ci siamo visti spesso, ed è stato bello. Laigueglia al PercFest, e poi Imperia in quella piazzetta magica dove abbiamo ripercorso in pubblico la tua vita. Lì ho scoperto anche quanto importanti siano per il tuo cammino le radici siciliane.
Decisamente. Sono nato in Sicilia nella vecchia «Ionia», il nome che nel ventennio univa Giarre e Riposto. Secondo me era un nome bellissimo, evocativo dell’idea di viaggio che in me è così forte. Pensa che mio padre mi raccontava che io avevo sempre la tendenza di scappare di casa, già da piccolissimo: abitavo veramente vicino al mare, non c’erano auto quindi io attraversavo la strada da solo e quel giorno non mi trovarono più. Erano tutti disperati, mi poi mi scoprirono davanti al mare con due uova in mano, rubate a mia nonna Caterina che aveva le galline sul tetto, come si usava a quei tempi. Ero in contemplazione del mare, solo quello. Dovevo già covare in me quella voglia di scoprire… E poi a tre anni mio padre, che navigava, seppe che alcuni nostri parenti si erano trasferiti a Imperia, così volle vedere la città e gli piacque molto. Per questo ci siamo trasferiti per un anno in una grande casa al centro di Oneglia e successivamente in un appartamento dove vivevamo con i miei fratelli Giuseppe e Linda.

Chi è stato il primo in famiglia ad accorgersi di avere un talento musicale?
Sono stato io. All’inizio della scuola media io giocavo a pallavolo, però mi sono reso conto che mi piaceva suonare la chitarra e avrei voluto fare sul serio. Allora con un mio amico che suonava la batteria ci siamo procurati degli strumenti e abbiamo cominciato a strimpellare. Siamo arrivati a quindici anni pensando assolutamente che non potesse esserci alcun futuro, poi abbiamo incontrato un paio di musicisti amici nostri: uno suonava la tastiera e non aveva alcuna esperienza. Però aveva il Moog… Ci siamo messi a suonare in chiesa barattando la prestazione con un piccolo teatrino dove si poteva provare, e lì abbiamo cominciato. La cosa più bella è stata che un giorno il nostro bassista ha deciso che non gli piacesse più suonare il basso e così l’ha dato in mano a me. E io ho detto subito «Che meraviglia!» comprendendo che era proprio il mio strumento. Dopo un anno che suonavamo eravamo già bravi abbastanza e soprattutto coraggiosi. Abbiamo partecipato a un contest, uno dei primi, che si chiamava Monzino d’Oro. Quella sessione di concorso era nel 1973, mi sembra. Abbiamo partecipato prima a Porto Maurizio e abbiamo vinto. Siamo andati a fare le semifinali a Silvi Marina e abbiamo vinto anche in quell’occasione così siamo finiti a Milano davanti alla Premiata Forneria Marconi: c’erano Pagani, Di Cioccio e Djivas. E abbiamo vinto…

Quindi suonavate progressive?
Ma certo, però eravamo giovani inesperti, senza cultura musicale, niente. Facevamo delle cover, copiando i vari stili benché io abbia sempre avuto la mania di comporre: lo facevo a modo mio, con gli accordi scritti, ma scritti veramente! Scrivevo Re maggiore o Fa bemolle proprio in italiano (ride). Comunque vincendo il concorso abbiamo cominciato poi a prenderci gusto, anche se io sono l’unico, insieme al mio amico batterista, che poi della musica ha fatto una professione. Poi nel frattempo sono cambiato un po’ di cose: il diploma o il periodo da militare, dove non ho mai smesso di suonare il basso, me lo portavo anche quando ero in caserma e tutti si arrabbiavano…

E poi finito il militare sono entrato nell’orchestra del Casinò di Sanremo, eravamo una decina e un anno dopo il mio ingaggio ho fatto entrare mio fratello Giuseppe. All’epoca mi facevo chiamare Naco (una sorte di diminutivo del mio cognome) e lui di conseguenza era Nachetto… Qualche anno dopo il mio pseudonimo se lo è preso lui. Comunque nell’orchestra del Casinò lui suonava i bonghetti. Sai, quelli marocchini con quell’odore curioso…

Ma certo! Erano gli anni Settanta, ovvio! 
Davvero! C’è poi un aneddoto bello: mio padre navigava e ci portava a casa sempre strumenti dall’Argentina e dal Brasile, un po’ come souvenir senza pensare alle nostre inclinazioni musicali. C’erano le congas tipiche del carnevale, o quelle di legno fasciate, oppure delle chitarrine; c’era mio fratello che era molto creativo e ha cominciato a prendere in mano uno strumento dell’Argentina nel periodo in cui ascoltava la musica dei Santana (erano i tempi di «Abraxas»). E lui poi suonava completamente otto ore al giorno, una cosa incredibile: io l’ho seguito in questo meraviglioso accanimento e solo nostra madre che urlava «È pronto!» poteva distoglierci da quell’impegno.

Allora non c’è stata una vera formazione accademica nella vostra musica…
Zero assoluto. Dopo tre anni nell’orchestra del Casinò di Sanremo, ho cominciato a leggere la musica e mi sono fatto la mia gavetta mentre Naco è rimasto nell’orchestra ancora tre anni, suonando le percussioni. Nel frattempo si era appassionato anche di musica brasiliana, come me, e infatti credo che nel mio ultimo lavoro si percepisca vero?

Davvero tanto, e mai in modo stucchevole.
Ne sono felice. Comunque con Naco, quando eravamo insieme nell’orchestra, facevamo a un certo punto musica da ballo e scaturiva sempre qualche brano di Jobim sullo stile di Joao Gilberto: all’epoca non cantavo ufficialmente, ma qualche vocalese veniva fuori e poi ci pensava il capo orchestra a riportare tutto alla base e cantare in quel modo un po’ da casinò. Però per me è stata una bella scuola, formativa e poi soprattutto il rigore, sai, tutti gli orchestrali erano anziani, io avevo vent’anni, il più giovane aveva cinquant’anni, dovevo rigare dritto e ho imparato tantissimo. E poi nel 1979 facevo il bagnino…

Rosario Bonaccorso

Ma dai, non ti ci vedo neanche a morire!!!
Invece ho salvato tante belle ragazze!!! Ti racconto questa: a un certo punto mi chiamano per un salvataggio e vedo questa donna meravigliosa che avrà avuto la mia età, quindi 18 anni, e lei chiama «hilfe, hilfe» («aiuto» in tedesco) e io mi butto veloce, me la abbraccio così e lei mi urla «Non io, mia madre!!»: una donna di 150 kg che annaspava, mentre io delusissimo stavo pensando che avrebbe galleggiato comunque per la legge dei fluidi di Archimede… Insomma, pesava il doppio di me e mi stava trascinando sotto. Per fortuna sono riuscito ad afferrarla e a portarla a riva, non so nemmeno io come, e dalla bella bionda neanche un bacio di ringraziamento, accidenti.

In quel periodo Giorgio Gaslini teneva un corso a Diano Marina nella Villa Scarsella, quindi andavo lì la sera, quando finivo di raschiare la sabbia da buon bagnino. Non avevo mai suonato il contrabbasso, ma lì c’era il contrabbasso di Marco Vaggi, ho chiesto a Marco se potessi provarlo ed è stato amore a prima vista. E la cosa bella è che dopo alcuni giorni poi mi hanno permesso di fare il saggio anche se io non partecipavo al workshop perché lavoravo durante il giorno. Andavo lì la sera e lì c’erano Tiziana Ghiglioni, Riccardo Bianchi, Roberto Soggetti… Poi da lì ho continuato, mi sono messo a studiare da solo il basso, non potevo neanche frequentare il conservatorio perché a quei tempi dopo i ventidue anni non ci si poteva più iscrivere.

Una volta era così e quella regola aveva fermato anche me. Ma qual è stato il musicista che in quel periodo ti ha illuminato di più, quello che avresti voluto essere?
Sicuramente quando ho sentito la prima volta My Funny Valentine nell’esecuzione di Miles Davis, Ron Carter mi è rimasto nel cuore. L’ho rivisto due anni fa a Sanremo e ho avuto finalmente il coraggio di parlargli e confessargli «Mr. Carter, tu sei responsabile del fatto che io suoni!» E lui mi ha risposto «Bene, spero che non mi mandi il conto». Poi ci siamo abbracciati ed è stato davvero molto bello. Poi mi sono appassionato a Eddie Gomez, seppure musicista molto differente. E poi ero pazzo per Scott LaFaro e ho scoperto più tardi Charlie Haden; anche Ray Brown è stato un mio mito, poi c’è stato Slam Stewart. Per esempio negli anni Ottanta ho suonato tanto jazz tradizionale, perché usavo l’archetto doppiandomi con la voce, e facevo assolo alla Slam Stewart.

Adesso stai ripercorrendo questa strada, in un certo senso?
Sì, adoravo e adoro questo senso della melodia, perché secondo me è la cosa più bella che ci sia. La melodia è come una farfalla che ti si posa sulla spalla e devi avere la fortuna di prenderla, perché se non la vedi magari lei se ne va… però se hai avuto la fortuna di vederla la puoi portare in mano. E a volte lei ti viene nella mano. La melodia è questo, e può essere applicata a tutti gli strumenti. Quanti batteristi hai veduto cantare e quanti bassisti, seppure si suoni uno strumento più ritmico. È molto affascinante.

Parli di fascino, ritmo e melodia e per analogia penso a Jaco. Quanto è stato importante nella tua musica?
Jaco Pastorius è stato per me, come dire… Ecco: per i miei tempi Jaco era come Florinda Bolkan, una che ti fa innamorare perdutamente pur sapendo che sarà un amore impossibile da vivere. È stata una meteora, no forse proprio una stella. Diciamo che per me è stato Gesù, uno che ha lanciato il suo messaggio potente e se ne è andato via troppo presto. Era veramente unico: io poi ho lasciato il basso elettrico nei primi anni Ottanta e ora lo suona mio figlio Matteo. Però questa cosa di Jaco, il suo talento stupendo, ha fatto smettere di suonare di un buon cinquanta per cento di musicisti, secondo me…

È vero, funziona proprio per eliminazione! E ora parliamo della tua Signora, come definisci tu il contrabbasso che ti contraddistingue (perdonami l’allitterazione, ma ho reso l’idea). Da quanto ti accompagna il tuo strumento?
Questo strumento l’ho comprato nel 1983. Me lo ha venduto il famoso contrabbassista di Sanremo Dodo Goya, io lo desideravo già da molto tempo e poi un giorno sono riuscito a esaudire questo sogno. Ero giovane, ma sul senso di responsabilità ha prevalso l’azzardo: e la mia vecchia Signora adesso ha compiuto 174 anni. Era d’inverno, una giornata strana e un po’ buia e Dodo aveva due strumenti da farmi scegliere: tutti e due suonavano talmente bene che ho preso quello più scuro e tenebroso che aveva la voce più morbida. Però a quei tempi mi ero sposato e ho cercato comunque un lavoro normale.

«Normale» è un termine molto indicativo!
Vero, ma non è durata molto. Quando è nata mia figlia Flavia ho ritrovato la forza di essere me stesso e sono subito partito iniziando a suonare tantissimo jazz tradizionale, poi la scena di Torino con Fabio Boltro e quella di Milano, e negli anni Novanta ho fatto un sacco di tournée con Massimo Faraò; con Dado Moroni invece suonavamo con Clark Terry, Red Holloway, Bobby Durham, Charles Tolliver, Jimmy Cobb… Una vera fortuna, perché quella è stata una scuola pazzesca, tu cominci a suonare e poi senti Jimmy Cobb e il suo suono ti commuove profondamente. Poi piano piano ho iniziato a comporre musica.

Song for Flavia è un pezzo che amo davvero moltissimo.
L’ho composto nel 1987, e mi ero detto che mi sarebbe piaciuto suonarlo con Elvin Jones. È un brano molto bluesy e ho iniziato a proporlo nei concerti con Luigi Bonafede alla batteria, e in fondo lui era l’unico strumentista che potesse suonarla «à la Elvin»… Poi nel 1996 sono entrato a far parte del gruppo di Stefano Di Battista e nel 2000 ho potuto realmente proporre a Elvin Jones il mio pezzo, facendo parte del quartetto con Jackie Terrasson al piano, Stefano al sax ed Elvin alla batteria. Fu una vera emozione suonarla proprio con il batterista per cui l’avevo pensato e c’è questa parte al centro del pezzo, dove c’è un’energia che sale, dedicata a quando ti senti padre per la prima volta. E pensavo, chissà come sarebbe bello se la suonasse Elvin. Successivamente Elvin mi è venuto a chiedere “Do you have some suggestions for me?” Ma come? Chiedi a me come puoi suonare meglio questo pezzo? Mi sono messo a piangere: vedere l’umiltà di quest’uomo che chiede consigli a me mi è parso davvero irreale.

Facciamo un salto temporale e arriviamo al PercFest: quando e in che modo è nato?
Un po’ per fortuna e un po’ per caso… Era il 1996 e suonavo con Enrico Rava. L’assessore di Laigueglia voleva organizzare un concerto con qualche musicista importante, qualcuno gli aveva fatto il mio nome quindi sono andato a conoscerlo e lui mi ha proposto una cifra che era a quei tempi abbastanza importante: potevo scegliere di organizzare un concerto, oppure avrei potuto utilizzare quei soldi per fare qualcosa di speciale. Il mio intuito mi ha portato a pianificare tre giorni di concerti: a quei tempi suonavo con Billy Cobham e ho organizzato un concerto con lui, poi un concerto con mio fratello, uno in trio con Dado Moroni e Adrianne West e uno corale insieme a tutti gli amici, il primo Five for Jazz. L’ultima sera, dopo quel concerto, ero al torrione di Laigueglia insieme a Naco. C’era una brezza bellissima e tutto sembrava magico; io dovevo partire la mattina dopo per la tournée con Dado e Billy Cobham e ci siamo salutati. Il giorno dopo ero quasi sull’aereo e ho sentito improvvisamente un brivido di freddo, inspiegabile visto il caldo di quei giorni: solo dopo ho saputo che proprio a quell’ora mio fratello aveva avuto l’incidente che ha causato la sua morte… Lui è riuscito a partecipare solo alla prima edizione di questo festival, che prima si intitolava «Suoni sogni e immagini nelle notti di mezza estate» in onore alla fantasia di Shakespeare e poi ho voluto chiamare «PercFest Memorial Naco». Lui è incorporato dentro di me.

«Incorporato» è parola bellissima e anche il tuo «Senza Far Rumore» è permeato di Naco, aleggia chiara la sua presenza… 
È verissimo: quando ho scritto i testi ne ho lasciati un paio più dedicati alla mia vita (come Faccio un po’ come mi pare), ma Il sogno e Il vento della sera sono totalmente pensati per lui. Tra l’altro il primo brano è il pezzo strumentale con cui ho sempre chiuso il Festival e lo cantavamo tutti mormorandolo, e anche tu lo hai fatto; quindi a un certo punto ho sentito la necessità di trovare un testo, che forse è un tantino ermetico però contiene significati più profondi di quanto le parole esprimano. La cosa buffa è che l’ho creato il giorno prima della registrazione, mi è venuto così.

Non avrei potuto immaginare altro. E poi hai intitolato questo album «Senza far rumore» e io che l’ho ascoltato attentamente ho pensato che lì dentro ci sia molto di non detto. Ho pensato a Miles che dice ‘suona quello che non c’è’ e nel tuo caso questo assunto ha molti significati. E poi: quando ho scritto che questo disco è come trovare un quadro di Hopper all’Hangar Bicocca, non volevo fare la saputella ma comunicare che hai creato qualcosa di estremamente intelligibile in un groviglio creativo di sperimentazioni e dissonanze da parte di molti altri musicisti. Suoni davvero molto quello che non c’è, insomma, e lo fai in modo sensibile e piacevole all’ascolto.
Grazie! Questo disco è davvero mio. Come dire: fai delle cose, ma non sai perché ti riescano bene; senti che sei aiutato, che devi soltanto fare l’accensione e poi procedono da sole perché c’è un’energia che arriva da lontano. Piace molto in tutta Europa, sta riscontrando parecchi consensi e ne sono davvero felice. Qui c’è tantissima improvvisazione, abbiamo registrato i pezzi alla prima esecuzione e avevo con me musicisti straordinari.

Decisamente: sono davvero tutti dentro il tuo stesso mood e assolutamente pertinenti a questo progetto, e credo anche estremamente profonde dal punto di vista umano.
È vero, io con loro posso parlare veramente di psicologia di meditazione di musica, poi c’è il momento del cazzeggio totale. Fulvio Sigurtà ha la mia stessa concezione della melodia, Fausto Beccalossi è stato un incontro umanamente e musicalmente splendido, Roberto Taufic è un musicista straordinario e Olivia Trummer è unica. Ho voluto che lei cantasse Agosto ed è stata un scelta fantastica.

L’unica volta in cui la rima fiore/amore non mi dà fastidio!
Sì, perché ha questa voce bellissima, senti che non è italiana ma non sai dire da dove provenga; ha questo charme un po’ esotico diciamo…

E infatti non c’è nessuna retorica, è proprio un pezzo fatto per lei che in ogni caso è una raffinatissima musicista. E comunque a me piace tanto anche quando canti tu, in certi passaggi sembri persino Chico Buarque. 
Quando me l’hai detto mi sono emozionato, e sai che mi piace davvero tanto Chico Buarque, così come Gilberto Gil e Caetano Veloso… Ma se nascessi donna vorrei essere Shirley Horn e saper cantare Estate come lei.

Questo è un magnifico gruppo drumless… Certo che per uno che organizza il PercFest è davvero strano, oppure è un modo in filigrana per celebrare Naco?
Io adoro i batteristi e i percussionisti, però quando ho cominciato a pensare a questo progetto ho cominciato a pensare a un suono più puro. La batteria, per quanto sia magnifica o suonata bene è comunque molto impattante: dà una direzione certa alla musica, e io avrei voluto in quella parte solo mio fratello. E poi senti che tutti suonano insieme in questo disco, non si sente l’ego di nessuno, ognuno è funzionale alla musica e non ci sono particolari assolo, se hai notato. Nel prossimo progetto magari sarò più torrenziale: per ora mi godo questa musica suonata insieme ai miei amici, e non è poco.

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