Con la quieta pacatezza del più tetragono nocchiero immerso nelle visioni delle possibilità, Renee («si pronuncia «Rini: perché è la forma breve di Irene», spiega sorridente) Rosnes racconta della sua vita al servizio della musica con contagiosa passione e inesausta voglia di scoperta. Ha un’eleganza naturale, i grandi occhiali neri rotondi intercettano la circolarità degli orecchini, incorniciata alle spalle da un dipinto d’arte contemporanea astratto con bande verticali. Vista così, riporta alla memoria la Lilian di Dod Procter, per esempio, spirito nobile del post-impressionismo inglese, con la quale – a ben guardare – condivide più che un’evocazione. Dove quella pittura utilizza soggetti femminili per emanciparsi nell’uso dei colori mantenendo salda la definizione dei contorni, questa ricorre alla tavolozza delle soluzioni armoniche per costruire una musica compatta, senza derive di gratuito sperimentalismo. In entrambe, insomma, la forza dell’espressione nasce da forme disponibili alla trasformazione. Oltre al fatto incidentale, per così dire, di aver scelto come compagno di vita un’anima omologa: Ernest Procter fu gran buon pittore innamorato di Cezanne, Bill Charlap è pianista come Renee e vanta trascorsi illustri tra Gerry Mulligan, Phil Woods e Benny Carter.
A un passo dalla domanda (dannatamente inevitabile) che potrebbe far capitolare e sconfortare l’interlocutrice («perché un ensemble tutto al femminile?»), è Rosnes a giocare d’anticipo e a smontare il rischio, illustrando le tutt’altre ragioni che presiedono al lavoro di una delle formazioni più interessanti in circolazione. Artemis, che dirige, è un collettivo di sei magnifiche musiciste; hanno da poco pubblicato il loro secondo lavoro per Blue Note, «In Real Time», che consolida l’omonimo progetto d’esordio del 2020, giusto per non farlo rimpiangere come fortunata monade. Se storia e verità, a tratti consunte sul crinale del topos, vogliono che il jazz sia soprattutto dialogo, Rosnes è una musicista che raramente molla la presa dello sguardo dai suoi compagni sul palco, dai quali trae idee, ricambiando vulcanica. Del resto i grandi maestri non le sono mancati: a soli venticinque anni si ritrovò in tour con Joe Henderson, era il 1987, giusto tre anni prima del gran debutto in Blue Note con il primo album solista in compagnia di Herbie Hancock, Branford Marsalis, Wayne Shorter e Ron Carter, con il quale sarà il prossimo novembre in Italia.
«In Real Time», invece, è l’atteso ritorno di Artemis che vede sempre, accanto al piano e alla direzione di Renee, la tromba di Ingrid Jensen, Noriko Ueda al basso e Allison Miller alla batteria, alle quali si sono aggiunte, ai sassofoni tenore e contralto, Nicole Glover e Alexa Tarantino. Hanno registrato e arrangiato insieme otto brani, sei composti da ognuna di loro e due riletture, ai poli dell’album, di Lyle Mays (Slink) e Wayne Shorter (Penelope).
È stata una piacevole scoperta trovare la musica di Lyle Mays in apertura di «In Real Time», è un modo per riscoprire il suo lato compositivo forse meno noto. Come avete scelto questo brano?
Sono stata sempre una grande fan di Mays e del suo pianismo. So bene che la maggior parte delle persone lo conosce attraverso i suoi lavori con Pat Metheny, ma il suo aspetto compositivo è altrettanto importante. Slink è contenuto nel suo primo album da solista, era il 1986, e per me è interessante capire perché abbia impiegato così tanto tempo per registrarlo, alla luce del fatto che era un musicista davvero prolifico. Di questo brano ho pensato da subito che Artemis ne avrebbe potuto fare qualcosa di bello; non vedevo l’ora di arrangiarlo per la band, per esplorare insieme che piega avrebbe preso e ce ne siamo da subito innamorate tutte, decidendo di metterlo nel disco.
Si sente molto la sua ispirazione, ma con un sapore nuovo.
Sì, è vero. Abbiamo utilizzato strumenti diversi rispetto alla registrazione originale, aggiungendo il Fender Rhodes e un accenno di parte vocale: è registrata sui bassi, ma con attenzione la puoi sentire. Ci piace molto suonarla, perché ogni volta si sviluppa in modo diverso.
In chiusura, invece, la vostra versione di Penelope di Wayne Shorter.
Sai, l’abbiamo registrata parecchi mesi prima della sua scomparsa, non avevo idea che ci avrebbe lasciato, l’intenzione era piuttosto quella di un omaggio. È un brano che ho suonato con la sua band per molti anni… Credo fosse il 1988, ho fatto parte del gruppo di Shorter per circa un anno, ma è un’esperienza che ha lasciato una forte impronta: la visione musicale, soprattutto. Wayne ha spalancato una porta, era un improvvisatore straordinario e un musicista magico, un visionario. Suonarla con Artemis è significato scendere nella profondità della sua ispirazione e spero che si capisca il nostro amore per lui (tutte lo consideriamo una specie di eroe). Ma c’è anche un altro motivo per Penelope… Shorter ha dedicato e intitolato molte delle sue composizioni a donne.
Hai ragione, in effetti Diana, Nefertiti, Ana Maria, Marie Antoinette e poi Penelope…
Infatti. Ci sono figure storiche e membri della sua famiglia, insomma mi sembrava carino includerne una nell’album e Penelope m’è parsa perfetta.
A questo punto, ti chiedo di togliermi una curiosità per capire se l’aneddoto è vero. Ho letto che hai visto insieme a Wayne Shorter il film Alien… Com’ è andata?
È vero! Dunque, una volta Wayne mi chiamò al telefono per sondare il terreno per un mio eventuale ingresso nella band, e durante questo primo contatto mi chiese se avessi visto Alien. Quando ho risposto di no, rispose: «Sappi che è indispensabile per entrare nel gruppo! Ma non preoccuparti, ce lo vedremo insieme quando arriverai per provare». Abbiamo passato un paio di settimane a San Francisco per le prove e con tutta la band andammo a casa di un amico a vedere il film. Te lo ricorderai, c’è quella scena famosa dove quella specie di creatura salta fuori dal petto. Ecco, a quel punto Wayne prese il telecomando, mise in pausa e disse: «Visto? Ecco, ora sai come voglio che suoni la mia band». Devo dire che rimasi un po’ perplessa, ma poi capii che mi stava parlando dell’elemento della sorpresa, dell’elemento del dramma anche quando non te l’aspetti. Sai che questi sono elementi importanti nella sua musica.
E oggi, con Artemis, sei tu a dirigere il gruppo. Quali sono le responsabilità di questo incarico?
In realtà, penso a me stessa come l’impulso organizzativo. Aiuto a sistemare le cose per le prove, per le esibizioni, propongo la set list. Da un punto di vista musicale dirigo le prove, ma in Artemis tutte sono uguali. È un tipo di band davvero democratica: tutte diamo il nostro contributo compositivo, negli arrangiamenti e nello spiegare i pezzi che ognuna scrive durante le prove. Quindi c’è una massima libertà e apertura, pur restando la necessità di qualcuno che organizzi, giusto per far andare le cose meglio e più spedite. Evita il rischio di confusione, spesso anche a beneficio del pubblico.
«In Real Time» include anche due nuovi ingressi nella band: Nicole Glover al sax tenore e Alexa Tarantino al sax alto, soprano e flauto. Come è caduta la scelta su di loro?
Nicole suona con noi già da un po’ di tempo, è una musicista incredibile: ha una grande profondità di suono e conoscenza della storia di questo linguaggio. È una musicista coraggiosa che ama immergersi «nel momento», è così anche nella vita ed è ciò di cui avevamo bisogno. Alexa, invece, suona in modo ricco, vario, con grande intenzione e con un dono speciale in termini di lirismo. In questo album puoi ascoltare molto di questo suo approccio alla musica, così tagliente, sembra un rasoio.
In sezione funzionano egregiamente.
Sì e questo dipende anche dalla loro diversità. Riescono a bilanciarsi l’una con l’altra, creando un contrasto divertente, ma in sezione sono perfette e questa è la forza di consolidarsi come gruppo. Il merito è anche di essere delle grandi «ascoltatrici», sanno quando suonare e quando fermarsi, si tratta di intuizioni, lampi di un attimo per arrivare al giusto equilibrio e in questo ha un ruolo importante anche Ingrid Jensen alla tromba.
Cosa è cambiato in Artemis tra il primo album del 2020 e questo ultimo uscito?
Penso che siano album molto, ma molto diversi tra loro. La band ha suonato insieme di più, ci conosciamo meglio musicalmente e personalmente, ci sentiamo davvero come una famiglia… Il fatto di aver passato tanto tempo insieme filtra inevitabilmente nella musica. Stiamo bene tra di noi, ci divertiamo e quando siamo sul palco ritroviamo piena la ragione dell’essere una band. In tanti potrebbero pensare che siccome siamo donne abbiamo deciso di mettere su un gruppo di donne, ma è qualcosa in più. All’inizio ci siamo ritrovate perché avevamo un promoter interessato ad una formazione al femminile per celebrare e commemorare la Giornata Internazionale delle Donne, subito dopo però abbiamo continuato insieme perché c’è affinità ed è un fatto palpabile, si crea un legame determinato dal piacere di suonare insieme.
Ancora una volta, per questo album, hai lavorato con Don Was. Come è andata?
Lui è magnifico, dico davvero, ha preso la Blue Note e l’ha spinta nel Ventunesimo secolo. Tra l’altro, oltre a essere affabile, è un musicista e un grande fan di ogni genere musicale, cosa che lo rende particolarmente aperto alle visioni, lo fa con generosità. Sono fortunata a lavorare con la Blue Note da davvero molto tempo, è un gruppo di lavoro che sa prendersi cura della musica e degli artisti.
La tua musica è fatta spesso di grooves micidiali con un tiro pazzesco. Però sembri amare molto anche le ballads. In questo album hai scritto Balance of Time, in passato hai suonato con grande intensità brani come Sounds Around the House o Winter of My Discontent… Cosa ti piace di questo tipo di composizioni?
Le ultime due che hai citato sono di Alec Wilder, lo stesso di Moon and Sand e tante altre, un grande compositore. Per quando riguarda le ballads, vediamo è una domanda interessante … mi piace affondare dentro l’attimo e perdermi dentro i suoni. In qualche modo è più semplice essere me stessa dentro quelle forme, è qualcosa di intimo. Non mi preoccupo mai da dove possa provenire la prossima nota; questo, tra l’altro, è il grande insegnamento lasciatomi da Joe Henderson: non essere preoccupati, ma rilassarsi e affondare nel presente. Aiuta molto a divertirsi quando si suona.
Quanto è importante la spiritualità nella tua musica?
Moltissimo. Credo che in particolare i musicisti di jazz la fronteggino mentre improvvisano, stanno dimostrandoti sul serio chi sono. Bisogna essere coraggiosi e consentirsi di mostrarsi fragili, vulnerabili; in questo senso le ballads creano grande intimità e si ha la possibilità di mettersi a nudo. Detto questo, credo che ognuna in questa band abbia un proprio senso diverso di spiritualità e questa differenza di personalità arriva bene dentro la musica: è emozionante.
Quando suoni usi un approccio modale all’improvvisazione?
Non penso mai in termini di modi, non mi domando se è il caso di usare una scala lidia o misolidia, perché non penso alla musica come una faccenda tecnica, cosa che mi rende un po’ difficile rispondere alla domanda. Ognuno ha il suo modo di improvvisare, sia chiaro, ma io sono stata «benedetta» per aver imparato solo ascoltando e riuscendo a suonare un mucchio di cose che non avevo idea da dove venissero fuori sotto l’aspetto della teoria. Non mi sono mai posta in termini di analisi armonica oppure chiedendomi che cosa usare su un certo accordo. Oggi, ovviamente, conosco bene le regole, ma non le penso quando si tratta di improvvisare.
Hai iniziato suonando musica classica, poi hai scoperto presto il jazz. Ricordi il tipo di emozione quando iniziasti a divagare sui temi e a improvvisare?
In effetti ho iniziato a studiare pianoforte quando avevo tre anni, prendendo lezioni private, e ho continuato così a lungo. Poi alle scuole superiori il direttore della jazz band mi scelse e fu allora che mi resi conto di cosa volesse dire improvvisare. Il jazz non girava molto a casa mia, ascoltavo per lo più la radio, poi tra i dieci e i dodici anni ho scoperto con entusiasmo che potevo rifare le canzoni che ascoltavo e che mi piacevano. Soprattutto Stevie Wonder, Paul McCartney e i Beatles, Elton John, Billy Joel… Insomma, suonavo i pezzi a orecchio per i miei amici di scuola ed era una specie di improvvisazione, anche se si trattava di musica pop, perché non è che non conoscessi come si formano gli accordi. Ma certamente, quando ho iniziato ad ascoltare i grandi maestri del jazz, mi sono detta: «Dio mio, qui dentro c’è un mucchio di roba che non capisco»; la ascoltavo bene da un punto di vista armonico, ma non capivo bene cosa facessero e come arrivassero a un certo punto; lo stesso discorso per la parte ritmica. Era un universo completamente nuovo: quello che mi attraeva di più nel suonare jazz era il senso della conversazione con altri musicisti. Ascoltando, mi capitava per esempio di sentire un bassista che suonava le stesse note che avrei fatto anch’io, oppure tutt’altre; ecco, è un modo molto democratico di creare, come farsi una bella chiacchierata con gli amici. Questa cosa mi ha talmente segnata da dirmi senza esitazione che la musica sarebbe stata la mia vita, che avrei assolutamente seguito quel percorso.
Un percorso vincente, a quanto pare. Ma in qualche momento di pesa la mole degli impegni, dei viaggi, del cambiare città? Ti manca la quiete o qualche spazio di sana «solitudine»? Anche a casa con un marito pianista, Bill Charlap, il silenzio non sarà facile da trovare…
Faccio assolutamente tesoro dei miei spazi di solitudine, che tra l’altro mi sono indispensabili per comporre e scrivere, ne ho proprio bisogno. Con Bill, sai, abbiamo delle vite ultra-impegnate, incontrarci diventa difficile se siamo in tour e questo mi lascia un po’ di tranquillità. Ma un altro posto fondamentale per me è la natura. Sono cresciuta nella Columbia Britannica, sulla costa occidentale del Canada, è così bella… Lì, sai, non vivo lontana dall’oceano e ci sono dietro le montagne, puoi annusare il profumo del mare, ma anche quello dei cedri nella foresta. E allora quando capita di tornare lì, non molto spesso a dire la verità, mi prendo un po’ di tempo tutto mio e respiro quella magnifica brezza fresca.
C’è una parte del tuo lavoro che preferisci? Che so, suonare, comporre, arrangiare…
Ti dirò che mi piace tutto. Mi piace essere in studio e mi piace arrangiare. Adoro comporre, ma anche suonare dal vivo e amo pure, pensa te, la parte «faticosa» cioè viaggiare su e giù in aereo, perché mi mette in condizione di conoscere posti e fare esperienze vere con persone e culture, specialmente nel vostro Paese. Aggiungo che il vostro è il mio posto preferito al mondo, vorrei passarci più tempo, perché amo l’Italia. Le persone e il cibo, d’accordo, ma c’è una così alta concentrazione di bellezza! Compresi i paesi, le piccole città… Tutti quei vecchi edifici, le strade lastricate in pietra. Mi piace moltissimo, dovrei tornare a novembre prossimo – non mi ricordo dove – con Ron Carter e non vedo l’ora.
Cos’è il successo, secondo te?
Penso che il successo sia essere felici, più di qualunque altra cosa. Questo è. Sento di avere successo perché mi sento felice. La mia vita è stata fortunata perché ho potuto avere esperienze incredibili suonando jazz, viaggiando, scrivendo e confrontandomi con musicisti meravigliosi. Non ignoro che ognuno avrà la sua definizione di successo, magari i soldi, e va bene, ma suonare musica che porta gioia alle persone, specie in un mondo come il nostro, non ha eguali. A maggior ragione dopo la pandemia: la gente aveva un bisogno fortissimo di questo, potersi elevare ancora attraverso la bellezza.
A proposito di arte e bellezza, impossibile evitare la domanda. Hai alle spalle un bellissimo dipinto astratto contemporaneo, c’è qualcosa che lega insieme pittura e musica?
Wow, grazie! Allora, prima di tutto voglio ricordare che il dipinto che ho alle spalle mi è stato donato da mia cugina in Norvegia, Margrethe Røsnes Kvalheim, un’artista meravigliosa e una eccelsa interior designer; ho un sacco di parenti lì, perché mio padre era norvegese. Comunque sono d’accordo, è un gran bel dipinto. Musica e arte? La musica esiste grazie all’esistenza del tempo, non ci sarebbe nulla senza quell’unità di misura. Una fotografia o un dipinto è arte congelata in un attimo di tempo. La musica è un qualcosa di più «liquido». In comune hanno una cosa potente: puoi chiudere gli occhi e iniziare a costruire la tua storia, le suggestioni personali che ti derivano da quel contatto con l’arte.
Cos’è l’arte con la maiuscola, allora, per te?
È grande l’arte che mette in connessione le persone e questo richiede due elementi: verità e bellezza; senza di esse non c’è connessione Ciò che per me è speciale è la ricerca dentro me stessa per essere il più possibile «vera», sincera. Avere il coraggio di suonare ciò che sono.
Quando mi siedo al pianoforte, mi è inevitabile pensare alle influenze di tutti quei grandi che ci hanno ispirato, ma l’obiettivo poi è trovare il modo per raccontarsi in modo non convenzionale. Nel jazz questo avviene, almeno per me, con la composizione, perché a quel punto scendo fino al nocciolo duro di ciò che sono. Ma tu forse volevi una risposta sintetica alla domanda se esista una connessione tra le arti. Eccola: sì.