AUTORE
Eddie Harris
TITOLO DEL DISCO
«Live at Fabrik»
ETICHETTA
Jazzline Classics
Del maverick di Chicago (soprattutto sassofonista ma anche trombettista, trombonista, pianista/ tastierista, hobbista elettronico, inventore di improbabili e spesso sgangherati congegni come la reed trumpet, il saxobone e il guitorgan, compositore, cantante, umorista, imitatore, stand-up comedian, conversatore inarrestabile, didatta, autore di difficilissimi volumi di tecnica del sassofono e di teoria degli intervalli) si è sempre parlato troppo poco – nonostante i suoi grandi successi degli anni Sessanta-Settanta – e in Italia ancor meno, ma chi ha avuto modo di vederlo dal vivo nelle sue scarse apparizioni nel nostro Paese, tra cui un tour nel 1994 come special guest del gruppo di John Scofield e uno a suo nome l’anno dopo, non se l’è dimenticato tanto facilmente. Di sicuro non chi scrive, che era presente in entrambe le circostanze e che trent’anni dopo ricorda quelle date come se fossero accadute ieri, tale fu lo stupore destato dal vulcanico e irrefrenabile Harris che peraltro, in una sorprendente intervista che gli facemmo in quei giorni e che fu poi lui stesso a chiederci di dimenticare, mostra[1]va a quattr’occhi un lato umano gravemente ferito dalla mancanza di riconoscimento, rivelandosi una maschera addirittura tragica e ormai rassegnata alla malattia che da tempo lo stava divorando e che nel novembre 1996 gli avrebbe presentato il conto. E non si può dire che l’enigmatico Eddie avesse torto. Su di lui e sulla sua abbondante produzione (circa sessanta album da leader e pochissime presenze da sideman, posizione che non gli interessava – anzi, lo infastidiva proprio – e che concentrò in larga parte negli ultimi anni di vita) non è mai stato aperto un serio discorso critico, impegno reso comunque particolarmente complesso dall’inafferrabilità del personaggio, che a ogni nuovo disco cambiava non solo le carte in tavola ma anche le regole del gioco. Joel Dorn, il produttore che alla Atlantic gli fu vicino più di chiunque altro e che rimase forse l’unico a seguire passo dopo passo il sassofonista nel suo stravagante percorso, nei primi anni Novanta lo descriveva esplicitamente come il musicista «più misterioso e sottovalutato di tutta la storia del jazz». Una buona idea della musica del tardo Harris (assai meno surreale di quella dei tempi d’oro, ma ancora incisiva) può oggi darla questo doppio cd/lp, uno dei tanti inediti pubblicati dalla Jazzline grazie all’accordo col Fabrik di Amburgo che già le aveva fornito i nastri di analoghe esibizioni di McCoy Tyner e Freddie Hubbard, di Pharoah Sanders, dell’orchestra di Gil Evans (e c’è da presumere che ne esistano a centinaia). Con la Germania Harris aveva un legame particolare fin dal 1960, quando vi era stato catapultato per svolgere il servizio militare ed era riuscito a intrufolarsi nella big band della 7th Army, ritrovandosi in camerata con coetanei come Don Ellis, Cedar Walton e Leo Wright, con i quali stringerà amicizie destinate a durare per tutta la vita. E in Germania (ma anche in Olanda) suonerà spesso e inciderà con altrettanta frequenza. Per il tour del 1988 Harris si era portato dagli Stati Uniti il chitarrista Daryl Thompson, efficace sessionman di provenienza per lo più reggae – assiduo collaboratore di Peter Tosh e dei Black Uhuru – ma anche jazzista di ottimo livello (suonerà poi anche su un paio di dischi di David Murray) nonché figlio di un maestro del sassofono come Lucky Thompson. Ray Peterson, il bassista, era stato l’allievo prediletto di Jaco Pastorius. Il batterista Fearrington, un American in Europe di stanza a Copenaghen, era invece una vecchia conoscenza di Harris, che lo aveva già utilizzato in un bel disco per la SteepleChase («Steps Up»), e veniva dall’aver lavorato e inciso con grossi nomi del soul come Billy Paul e Tina Turner, ma anche del jazz come Jean-Luc Ponty, Chet Baker e Duke Jordan. Gli otto lunghi brani della serata, tutti del sassofonista eccetto Blue Bossa di Kenny Dorham, vanno da un pezzo storico dei Sessanta come Freedom Jazz Dance ad altri del decennio successivo come La Carnival e Get on Down, fino ad arrivare al vero cavallo di battaglia di quel tardo periodo, l’Eddie Who? in cui Harris, in un trionfo di autopromozione («Certe volte l’ego ha la meglio», confessava) mette in musica il testo del proprio curriculum! Niente di nuovo, per lui: qualche anno prima, su «That Is Why You’re Overweight» del 1976, si era dedicato con notevole faccia tosta a cantare la sua interminabile lista della spesa, ovviamente poi lamentandosi di essere ingrassato…
Conti
recensione pubblicata sul numero di febbraio 2024 della rivista Musica Jazz
DISTRIBUTORE
jazzline-leopard.de
FORMAZIONE
Eddie Harris (reed trumpet, ten., p., voc.), Daryl Thompson (chit.), Ray Peterson (b. el.), Norman Fearrington (batt.).
DATA REGISTRAZIONE
Amburgo, 24-1-88.