Psychoevans

Una psicoanalisi dell’opera di un artista di tanta complessità psicologica, culturale, musicale come Bill Evans quali elementi conoscitivi può portare? Cerchiamo di rispondere a questa domanda

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Contro il biografismo

Le analisi psicologiche dei grandi artisti si collocano sempre lungo un crinale che separa, in una maniera piuttosto incerta, la possibilità di approfondire la comprensione delle loro opere dalla fatuità di un biografismo sterile e perfino sviante. Lo stesso Freud, che pure non oppose una particolare resistenza alla necessità di occuparsi di arte, pose una grande attenzione nel compito di studiare i grandi creatori sottolineando che il problema della forma, dello stile, rappresentava – e ha continuato a farlo – un ambito oscuro per la psicoanalisi (1). Il punto cruciale è proprio in questo: il discorso psicoanalitico sulla creazione artistica trova il suo sentiero naturale fra i contenuti utilizzati dall’autore, più facilmente riconducibili a una grammatica simbolica governata dalle prime esperienze infantili, mentre rischia di incepparsi quando sconfina nel terreno delle forme, che ricadono sotto il controllo di processi culturali non direttamente riducibili alla storia individuale. Una proposta illuminante, germinata all’interno della ricerca sui fattori psicodinamici della creatività, è quella di distinguere una teoria centrifuga della psicogenesi dell’arte – pochi universali elementi affettivi e sessuali spiegano strutture estetiche anche complesse – da un modello centripeto – i codici di riferimento che agiscono nel contesto culturale dell’artista esercitano un’azione catalizzatrice e «formativa» su quegli elementi della realtà personale, disponendoli in un gioco combinatorio per molti versi imprevedibile (2). Se la forma rappresenta un limite (ma anche uno stimolo metodologico) per una psicoanalisi dell’arte, e dell’arte in generale (dunque dei linguaggi artistici ad alto tasso contenutistico come la letteratura, il cinema, la pittura), si può ben immaginare quanto possa esserlo nel caso di un linguaggio come la musica, asemantico e per molti versi assimilabile ai codici matematici. La difficoltà può essere parzialmente superata supponendo che la semanticità della musica non sia di natura «referenziale», vale a dire indirizzata verso le cose (oggetti, azioni, concetti), bensì «emozionale», vale a dire indirizzata verso gli stati d’animo e le loro dinamiche. Una capacità, per dirla in modo semplice, di esprimere le variazioni di modo e di intensità della realtà emotiva interna. Poste queste premesse di natura generale, ci chiediamo: una psicoanalisi (ovviamente priva di alcuna valenza clinica ma di interesse esclusivamente musicologico) dell’opera di un uomo della complessità psicologica, culturale, musicale come Bill Evans quali elementi conoscitivi può portare? 

In realtà, con Evans il rischio di una divaricazione tra dato biografico e dato musicale è particolarmente elevato: il pianista di Plainfield ha dimostrato, in molte occasioni della sua carriera musicale, di suonare meglio (più intensamente, con più ardore, ma anche con un maggiore afflato lirico) quando stava peggio (e i momenti dolorosi della sua vita sono stati frequenti, intensi, duraturi). Peraltro, le notizie in nostro possesso che riguardano la sua più profonda biografia personale ci consegnano l’immagine di un bambino e poi di un adolescente nato e cresciuto in un contesto familiare apparentemente al limite del «normale», socialmente ed economicamente medio, non attraversato da eventi traumatici particolarmente significativi, segnato tutt’al più da una geografia affettiva caratterizzata da una figura paterna non particolarmente affidabile (alcool, gioco d’azzardo), da una presenza materna più fattiva e materica, dal confronto con un fratello quasi coetaneo privo di evidenti elementi di conflittualità (3). Come a dire: per molti versi, amministrazione piuttosto ordinaria! Si potrebbe perfino pensare, senza rischiare azzardi, che nella vita musicale di Evans più che le dinamiche familiari (che pure ci sono state: basti pensare alle volte in cui la madre fu costretta, a causa dell’etilismo del marito, a infagottare i due bambini per portarli dalla sorella a Somerville) abbiano giocato un ruolo decisivo le differenze culturali (padre gallese, madre di discendenza russo-ucraina), con le implicazioni che ciò comporta nel rapporto che un individuo intrattiene con le proprie radici.

E questo riproporrebbe l’importanza e la preferibilità di una ipotesi centripeta del rapporto fra valori culturali (in questo caso musicali) respirati, creatività e fattori caratteriali. Spetterà, in ultima istanza, ai biografi o a eventuali registi cinematografici in animo di misurarsi con la vita di Evans, il compito di scovare informazioni fattuali che ci diano contezza del rapporto fra di esse e alcune delle altre cose che già sappiamo, specie quelle che si situano nel terreno degli affetti, della sua vicenda sentimentale, della sua sessualità (4). La scelta del metodo che seguiremo è presto definita: partiremo da alcuni tratti salienti della personalità evansiana (potremmo dirli caratteriali, se concordiamo con il lettore sin da ora l’uso largo, non tecnico, di tale termine). Caratterizzeremo tali tratti, dopo averli definiti, nei termini delle implicazioni musicali che ne possono essere derivate. Tenteremo poi di tratteggiare alcune ipotesi interpretative della sua poetica, a partire dalla chiave fornita da quei tratti, senza dimenticare (ancora una volta) che il contesto di apprendimento e di formazione musicale attraversato da Evans non si scioglie definitivamente nel dato intimo, privato, se non nella forma di un vissuto personale del suo tempo, della tradizione, della realtà sociale cui apparteneva.

La timidezza, nella particolare coloritura auto-denigratoria che spesso esprimeva; l’introversione, che nella sua vita sentimentale ha creato quasi sempre le condizioni per relazioni dolorose anche per le sue partners; una spiccata sensibilità emotiva, che gli ha spesso fatto assumere posizioni fieramente anti-intellettualistiche proprio nei confronti del jazz. Questi tratti (certamente insieme ad altri che in questa sede non considereremo) possono fornire una buona base di partenza per un’analisi della psicogenesi evansiana della sua opera. Sono tratti che, a rigore, potrebbero essere ricondotti ad un unico nucleo profondo, teoricamente collocabile nella fase anale dello sviluppo psicosessuale, individuata dagli psicoanalisti come quella elettiva per la formazione dei processi creativi. Tale nucleo profondo sembrerebbe avere le caratteristiche di una ferita narcisistica precoce, che il giovane Evans prima, e l’adulto poi, si attrezzerà a gestire mediante una complessa strategia di «scissione»: da una parte la sua arte come zona franca, illuminata da una luce creativa confortevole, una sorta di abbraccio-rifugio scevro dall’angoscia; dall’altra la sua vita come costante riaffermazione di un demone distruttivo e dell’affannoso, e inutile, tentativo di combatterlo. Noi scegliamo, tuttavia, di non scendere oltre un certo livello interpretativo, tenendo bene a mente la regola aurea che nessun artista importante (tanto meno se già defunto) si è (quasi) mai sdraiato sul lettino di chi scrive intorno alla sua psicoanalisi.

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Un artista fuori del suo tempo?

La timidezza, una spiccata tendenza a sminuire il Sé, dà una curiosa nota a molte delle interviste che Evans ha rilasciato. Ciò è poi ancora più interessante se consideriamo l’alto livello intellettuale e culturale che in quelle interviste il pianista esprimeva. Proverbiali sono le numerose volte in cui il riferimento al suo talento, o perfino al suo «orecchio» musicale, è stato auto-critico al punto da destare nei suoi ammiratori il sospetto che avesse invece la funzione di captare la benevolenza e la conferma di chi lo ascoltava.

Verosimilmente, la sua timidezza ha giocato un ruolo importante nella propensione verso scelte «conservative» e nel suo sostanziale rifiuto di addentrarsi nella galassia caotica (almeno per la sua sensibilità musicale) dell’avanguardia, verso cui ha sempre espresso una fiera ma rispettosa estraneità. Un rifiuto che ha spesso contribuito a incasellarlo come un artista fuori del suo tempo, che fu – come tutti sanno – un tempo teso, magmatico, rivoluzionario, di sovvertimento dei valori. La poetica di Evans, durante quel tempo a lui apparentemente alieno, si addensò progressivamente – seguendo un percorso totalmente antipodico – intorno al valore della cantabilità, la cui necessità spesso l’artista predicava nei suoi richiami alla centralità del fruitore musicale. 

Ma la cantabilità della sua musica non è solo il frutto di una scelta che potrebbe distrattamente apparire, in base a quanto detto, come ripiego, come cioè generata da una indisponibilità verso contegni più ardimentosi. È invece e senza dubbio anche il frutto del suo background musicale classico, intriso al tempo stesso degli elementi di carattere più prettamente jazzistico, il tutto filtrato da una forte componente data dal suo «sentire» personale, dalla sua sensibilità. I riferimenti al repertorio pianistico tardo-romantico rappresentano senza dubbio uno dei valori musicali che si affermano all’ascolto dei suoi dischi, soprattutto per quanto riguarda il ruolo della componente melodica all’interno delle sue performance pianistiche (sia per quanto riguarda l’esecuzione dei temi che per gli assolo).

Un aspetto particolarmente interessante è l’uso frequente, soprattutto (ma non soltanto) nelle sue performance di solo piano, di melodie «accordali», nelle quali ogni singola nota del tema è «colorata» da un voicing specifico, subordinato quindi ad una funzione melodica. Un aspetto questo che rimanda, sia a livello armonico che per quanto riguarda la conduzione della melodia, ai riferimenti classici di cui si diceva, specie i russi, soprattutto Stravinskij o Skrjabin.

Evans organizzava l’accompagnamento armonico attraverso l’uso di voicings che enfatizzavano il ruolo cantabile della melodia, sfruttandolo ritmicamente al fine di riempire i vuoti lasciati dalle pause della melodia (questo sembrerebbe un elemento in antitesi al ruolo che le pause e il silenzio hanno avuto nella sua musica, ma in certi momenti lo utilizzava proprio per enfatizzare il ruolo cantabile della melodia), rimarcando il valore melodico non solo attraverso la scelta dei voicing ma proprio attraverso la componente ritmica. Un chiaro esempio di tale complessa strategia musicale si può trovare nel Waltz For Debby delle storiche sedute del Village Vanguard: dopo aver eseguito intro e tema suonando quasi sempre in maniera accordale, comincia l’assolo (a partire da 2:07), nel quale accompagna ritmicamente con la mano sinistra, inserendo negli spazi gli accordi affidati alla mano destra. Un’altra chiave per comprendere il suo approccio cantabile consiste inoltre nella sua personalissima gestione del tempo musicale, un elemento che riguarda appunto – come vedremo più avanti – anche il tema delle pause e dei silenzi, elementi peculiari della sua estetica.

Quello che tecnicamente nella prassi esecutiva classica viene definito come «rubato», viene elaborato da Evans nel suo personalissimo modo di condurre e di gestire il tempo «fluttuando» sulla pulsazione musicale.

La bellezza fuori, il buio dentro

Il piccolo Bill era stato un bambino e poi un adolescente riservato, docile ma caratterialmente piuttosto refrattario a forme invasive di disciplina. Più tardi Evans avrebbe espresso la sua gratitudine alla sua prima insegnante di piano per l’intuizione che costringerlo a praticare in modo troppo rigido gli esercizi di solfeggio lo avrebbe portato a un rifiuto della musica. Tale relativa libertà gli avrebbe consentito di sviluppare una naturale capacità di leggere istantaneamente la musica, dote che (ovviamente insieme ad altre) gli frutterà da parte di musicisti come George Russell e Miles Davis – lui artista maturo – la scelta di coinvolgerlo nelle loro imprese artistiche. È probabile che dietro tali manifestazioni di insofferenza verso modalità rigide dell’insegnamento musicale bussasse una qualche quota di conflittualità con la figura paterna, nient’affatto solida e affidabile: una conflittualità che si agganciava, per contro, al senso di appartenenza a un universo immaginario, quello materno, pervaso da contenuti affettivi positivi, dolcezza, intensità, sensibilità.

La sua introversione, mitigata da un’intelligenza e da una cultura fuori dal comune, è un altro tratto di personalità che impronta la sua vita privata. La domanda è: tale tratto è riscontrabile – nelle modalità trasposte, elaborate, in cui può diventare una fonte di creatività – nella sua musica?

Per formulare un’ipotesi in tal senso occorre prima integrare il concetto di «disposizione introversiva», che sta alla base di quel tratto. Tale condizione, che ha appunto il carattere di «potenzialità» più o meno realizzata in un tratto manifesto della personalità individuale, è qualificata da un balance che pende soprattutto dalla parte dell’interiorità, segnando la maggiore ricchezza che nei soggetti introversi assume il rapporto con il proprio mondo interiore rispetto al rapporto con l’Altro, il mondo esterno. L’arte musicale di Evans, pervasa da una luce malinconica e nutrita da un afflato lirico non comune, restituisce pienamente il senso di una psicologia piuttosto ripiegata su un universo privato ricco di sfumature ma poco incline al confronto con il mondo esterno. La musica è incaricata di istituire un ponte simbolico ed emozionale col mondo reale, quello in cui vive il pubblico, i suoi estimatori, i critici: attraverso essa la bellezza, l’armonia, l’eleganza ricevono la funzione di rappresentare, sublimandolo, il suo mondo privato, anche al prezzo di caricarsi di quella sfumatura aurorale che resterà come un marchio di fabbrica della sua produzione musicale, un elemento ineliminabile del corredo affettivo con il quale il piccolo Bill era stato costretto a confrontarsi precocemente. L’ascolto di brani come Re:Person I Knew, Letter To Evan e Gary’s Theme del concerto parigino del 1979 (5) lo evidenziano in modo inequivocabile. Tutto ciò che di quel mondo interiore non è musica, non è arte, e rimane esperienza cruda, non narrabile, si attorciglia progressivamente intorno a una spirale maligna di inadeguatezza, di lacerazione, di mancanza. La droga – incontrata probabilmente, come spesso accadeva ai tempi, in modo casuale nell’ambiente musicale che già da giovanissimo frequenta – trova terreno fertile: l’insufficienza di quel mondo interiore, così ricco ma piuttosto privo di quegli strumenti aggressivi che servono nel mondo reale, non è purtroppo compensata in modo risolutivo dalla poderosa azione di sublimazione delle energie aggressive e libidiche che la sua arte gli consente. Una considerazione quest’ultima che permetterebbe di riconsiderare, nella sua tormentata biografia, il peso che ebbe – per esempio – l’esacerbante esperienza del suo servizio militare, invocata spesso da Evans come l’origine della sua sofferenza e che invece si limitò a essere probabilmente un evento scatenante capace di innescare un processo involutivo, che tuttavia si era già strutturato negli anni della vita familiare. 

Ciò spiegherebbe almeno due cose: la tormentosa vita sentimentale (peraltro segnata dal suicidio di una delle compagne di vita), la scarsa propensione a cercare nel mondo fuori, nella realtà storica e sociale, una fonte di approvvigionamento dell’ispirazione artistica. Evans è centrato sui moti dell’animo, non è interessato ai moti di piazza.

E la musica? Quali elementi della sua musica segnalano tale disposizione, essendone stati condizionati?

L’attenzione cade su due elementi fondamentali: il ruolo che le pause e i silenzi hanno nell’estetica evansiana, il carattere «verticale» della sua poetica musicale.

Abbiamo già svolto (Musica Jazz, agosto 2019) un’analisi del rapporto fra silenzio e suono in musica, nella particolare declinazione estetica della ECM. Sarebbe interessante sviluppare la questione – apparentemente accademica – se Eicher avrebbe cercato di cooptare un Evans in vita nel momento di massima apertura dell’etichetta bavarese alle voci americane (dunque durante gli anni Ottanta). In realtà il posto che il silenzio ha nella musica del pianista di Plainfield è piuttosto diverso rispetto al ruolo che riceve nella produzione ECM: mentre in quest’ultima il suo valore deriva da un assunto estetico che ha una forte componente metafisica (il silenzio come fonte generatrice del tutto), nella musica di Evans ha una pregnanza puramente espressiva, si situa nel cuore del suo pianismo romantico, eppure privo di ridondanze, lirico ma capace di innervarsi nella più consueta tradizione del blues. Distante dall’ardore frenetico di altri musicisti, Evans sceglie spesso poche note, che poi restituisce a chi ascolta trasmettendo sempre un’emozione profonda. Il silenzio, che viene fuori sempre in maniera naturale, senza forzature, dà l’impressione di essere sempre fondamentale, si potrebbe dire necessario, ai fini del suo discorso musicale. Indubbiamente, la sua capacità di intrappolare il silenzio nella complessa trama del suo racconto, rende ancora più densa e intensa la sua musica. Se per John Cage il silenzio era un mezzo per far risaltare i rumori dell’ambiente circostante (6), ponendo l’attenzione sul paesaggio sonoro che costantemente ci circonda, per Evans è un elemento che dà voce al suo essere, ponendo l’ascoltatore in uno stato di attesa che al tempo stesso ricapitola il ricordo di ciò che è appena avvenuto e contemporaneamente lo proietta in ciò che potrebbe avvenire l’istante successivo. Un gioco di tensioni sottili che si struttura intorno a un controllo del tempo, che è infine una strategia di controllo della sua inquietudine.

Per ciò che riguarda la verticalità della sua poetica, uno degli edifici musicali più coesi, riconoscibili del novecento musicale, diremo questo: la parabola evolutiva della musica di Evans ha un carattere «verticale», è segnata da uno sviluppo tutto interno, si manifesta in una esasperazione creativa di elementi in qualche modo già presenti sin dall’inizio nel suo bagaglio espressivo. Contrariamente a quella di Coltrane – il cui pensiero musicale si sviluppa soprattutto in senso «orizzontale», in un percorso che ingloba via via culture, idiomi, estetiche e linguaggi esotici, altri, mostrando dunque una spiccata sensibilità verso il fuori – la poetica di Evans è contraddistinta da una quasi esclusiva attenzione per il dentro e i suoi elementi fondamentali, il cui costante rimaneggiamento sortisce il paradossale effetto di produrre un esperienza di forte riconoscibilità e al contempo di lontananza da una qualsivoglia possibilità di saturazione. Ancora una volta: le tempeste che abbisognavano di essere domate, controllate e riconvertite in energia creativa erano per Evans quelle emotive. Mai quelle sociali e politiche (7). 

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Emozioni e razionalità

Evans è stato spesso etichettato come un pianista «romantico». L’accezione è, in questo caso, piuttosto riduttiva: non si tratta del carattere ottocentesco dell’artista che ingaggia una battaglia con la realtà, alla ricerca del Sacro Graal della bellezza. È questo il modello wagneriano dell’eroe. Si tratta, più semplicemente, della disposizione a colorare di malinconia, insieme a una tinta di mestizia, i propri stati d’animo. Forse il suo è il modello leopardiano dell’uomo stretto negli angusti confini della sua esistenza. Se si vuole, dell’intero portato che ci proviene dalla cultura romantica del XIX secolo possiamo trattenere, nel suo caso, l’elemento della sfida che – proprio in nome della superiore dignità della bellezza – l’artista lancia alla morte, e alla caducità delle cose. In realtà, l’intera vita di Evans è narrabile, perfino dalla tenera età, come un dialogo serrato, compassionevole, con la morte, che cinge i suoi dolori come le sue gioie, che lo prepara a una lenta ma inesorabile dipartita, un dialogo che è fra l’altro respirabile, attraverso la meraviglia della sua musica, nel trattamento speciale che riserva alla «modalità», di cui è così piena la sua musica e che specie nell’ultima parte della sua vita ha dato un’impronta forte a un pianismo teso, carico di passione, caratterizzato da volute ascendenti e discendenti di rara bellezza e intensità. Come non citare a tal proposito la struggente versione di Gary’s Theme del concerto parigino del 1979 o ancora il precedente Peace Piece del 1958 (da «Everybody Digs Bill Evans»), di rara bellezza evocativa, nel quale la melodia fluttua su di un semplice ostinato in Do maggiore, costruito solamente su due accordi. Tale brano, dai chiari riferimenti alla musica francese a cavallo tra Ottocento e Novecento (Ravel, Debussy, Satie) e dal forte potere meditativo, ha la capacità di suggerire all’ascoltatore una riflessione sull’eterno e al tempo stesso sulla morte e sulla caducità delle cose. 

Due altri elementi sembrano dar conto, più di altro, della sua sensibilità emotiva. Il primo, il carattere giocoso del rapporto che Evans intrattiene con la musica, si può ricondurre a una fase del suo sviluppo psico-emotivo dominato dalla necessità di sperimentare la sua autonomia, la sua capacità di simbolizzazione (8). Se la musica ha nel mondo evansiano il ruolo simbolico di porto sicuro, di spazio affrancato dall’angoscia o addirittura di strumento di sublimazione dell’angoscia stessa, ciò probabilmente si deve anche e soprattutto al fatto che il giovane Bill aveva introiettato una nozione accogliente, confortevole del gioco. Strettamente legato a questo, l’altro elemento rivelativo della particolare inclinazione sentimentale di Evans è la sua predilezione per i temi musicali di origine cinematografica: Someday My Prince Will Come, M.A.S.H., Theme From Spartacus, vengono utilizzati come veri e propri standards (il primo, in effetti, lo è diventato), con il suo trattamento estremamente rispettoso per la loro (ancora una volta) cantabilità e fascinazione melodica. Anche in questo sembra palesarsi una particolare predilezione per la dimensione giocosa del fare musica, pur trattandosi di un gioco triste: che cosa è, in realtà, il cinema hollywoodiano se non un grande, sfarzoso, rassicurante gioco? 

Occorre poi porre attenzione al sotto-testo narrativo di quei temi: si tratta di commenti musicali a storie di amori, promessi, perduti, difficili, ritrovati. Temi che si caratterizzano, insieme a tanti altri del suo repertorio, per il loro fascino evocativo, suggestivo, pieno di echi narrativi. Carattere, quest’ultimo, che risponde a un’esigenza psicologica molto forte: il primato dell’emozione, dello stato d’animo, sul dato costruttivo, strutturale. La tecnica al servizio dell’espressione, mai viceversa.

Semiotica evansiana

Il gesto evansiano non è mai «ostensivo», non si mostra, non si annuncia, non si declama. Esaurisce il suo compito nel generare il significato che gli serve. Nulla di più e nulla di meno. Da questa essenzialità della rappresentazione musicale prende corpo una delle poetiche più concentrate, coese, appunto «verticali» del novecento musicale. Ma il suo gesto non esaurisce la potenza comunicativa dell’artista: il corpo ricurvo, quasi a essere tutt’uno con il suo strumento, in un contegno figurativo che può far pensare perfino a un contorcimento doloroso; lo sguardo assorto, totalmente introiettato in uno spazio interno in cui convivono bellezza e dolore, forza e fragilità, desiderio e morte. Il corpo di Evans, nelle posture che ci consegnano i numerosi video fortunatamente in nostro possesso, esprime una lacerante consapevolezza della volontà, non troppo sotterranea, di auto-distruzione, cui fa da contrappeso l’estrema intensità della musica, alla fine frequentemente eseguita in solitudine (9), alla quale Evans sembra aggrapparsi come all’unica possibilità di sopravvivenza. Questo potrebbe essere il meccanismo misterioso che gli ha reso possibile ciò che normalmente non lo è: suonare meglio quando si sta (psicologicamente e perfino fisicamente) peggio. La vicenda terrena di Bill Evans si chiude con una inutile corsa in ospedale, quando già da tempo vomita sangue sui sedili dell’auto. Ma non tanto tempo dopo della sua ultima apparizione in pubblico.

A noi rimane l’immagine di un uomo, di un artista, dalle sembianze stranamente modeste – il viso, i suoi occhiali, i capelli impomatati e tirati indietro in un modo piuttosto demodé, suggeriscono la figura di una persona media, quella di un impiegato o al massimo di un professorino da sperduto liceo provinciale – che poggia le sue mani tozze, gonfie sulla tastiera, a volte con una sigaretta che gli pende dalle labbra, ingobbito in una sorta di protensione fusionale con il suo strumento. E da lì, da quel groviglio vivente, si leva una musica struggente, dolorosa, assoluta – eppure sovente capace come poche di vigoria e di swing – che ci tocca nell’animo e ci fa desiderare di non staccarci mai da essa.

 

coda: UN’ANALISI TECNICA

Un esempio al microscopio: Easy Living, da «New Jazz Conception», in cui è perfettamente riscontrabile la commistione di elementi classici e jazzistici, e la presenza di un elemento melodico accordale, il tutto condotto con una gestione «elastica» del tempo:

Tema: una ballad tradizionale (struttura A-A-B-A) con una forte componente blues.

Struttura: A1: Evans utilizza la prima ripetizione della sezione A come intro di solo piano, nel quale esegue il tema gestendo il tempo in maniera libera, dilatando e stringendo la struttura con un incedere ora lento, ora precipitoso, con un impatto fortemente lirico, ulteriormente arricchito dalla sua sapiente gestione armonica del tema, spesso suonato in maniera accordale.

A2: nella seconda A, con l’ingresso del contrabbasso e della batteria la pulsazione si fa più regolare, il pianoforte continua ugualmente a fluttuare sul tempo esponendo la ripetizione del tema.

B: Questa sezione, ripetuta tre volte, è utilizzata come struttura armonica per l’intero solo. Senza dubbio questa è la parte che armonicamente si presta maggiormente ad essere sfruttata in maniera «lirica» per l’assolo.

A3: ripresa del tema con coda finale marcatamente classica data dalla progressione armonica discendente sul finale.

Attraverso la lettura del tema originale di Easy Living si impone l’osservazione di come la suggestione completamente libera e personale del tempo sia determinante nella esaltazione della sua cantabilità.

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