Parigi 1957, novembre inoltrato. Le riprese di Ascensore per il patibolo sono terminate da due settimane circa. In piena post-produzione, il regista debuttante Louis Malle, ex aiuto di Robert Bresson ammiratore di Hitchcock, è torturato da un dubbio. Non sa su quale «colonna» appoggiare il film. A soccorrerlo sarà Boris Vian, noto scrittore paroliere drammaturgo fanatico jazzofilo, nonché direttore artistico del Club Saint Germain dove si esibiscono i migliori nomi della prediletta musica d’oltreoceano. In quel periodo la guest star è Miles Davis, il trombettista stracarico di premi già popolare sia in America che in Europa. Vian suggerisce perché non coinvolgerlo?
L’incontro tra il cineasta e il Talento sembra però deludente. Il secondo tentenna. Non ha mai affrontato una colonna sonora, non ha con sé i collaboratori abituali. Ma il filmmaker venticinquenne (dirà ero pazzo per il jazz) insiste. E’ convinto che l’astro americano possa fornire un contributo determinante. E finalmente il Talento rilascia il sì.
Vede la pellicola soltanto due volte. Fa domande su trama e personaggi. Finchè, appena ha una serata libera dai concerti, invade uno studio di registrazione situato lungo gli Champs-Elysées. Il tutto succede nella notte 4/5 dicembre. Il parto avviene (Malle racconta) tra le 23 e le 8 del mattino. Il quintetto, tromba contrabbasso batteria piano sax tenore, ripassa senza fine in loop le immagini prescelte per il commento. Dopo quasi dieci ore di seduta la musica, che dura grosso modo trenta minuti, è pronta. La pellicola ne abbraccerà una ventina. Parecchi studiosi sostengono che si tratti di un luminoso embrione della cosiddetta fase modale. Una fase in cui Davis mette da parte regole e costrizioni (niente temi scritti niente accordi sagomati sulle leggi dell’armonia tonale) per dotare l’improvvisazione di una sovranità assoluta.
Ascensore per il patibolo viene spesso ritenuto uno dei noir francesi più memorabili di sempre. Quali sono le virtù che all’epoca ne decretarono il plauso generalizzato? Per cominciare la storia. Una triplice linea narrativa suddivisa in altrettante piste che corrono distinte. La prima corsia, quella propriamente thriller: due amanti progettano un disegno per uccidere il marito di lei. L’uomo, Julien Tavernier, compirà il delitto ma qualcosa, un ascensore travestito da Destino, massacrerà le loro aspettative. Pista n. 2: il vagabondaggio di Florence, la creatura delusa e afflitta che trascorre una nottata cercando il partner mai arrivato all’appuntamento previsto. Terzo tracciato, l’odissea di una giovane coppia, la fioraia Véronique e lo sbandato Louis; ruberanno l’auto del protagonista, finiranno in un motel, compiranno un assurdo duplice omicidio.
Un altro fatttore decisivo del successo, scontato rimarcarlo, sono gli interpreti. Il fragile, ambiguo Maurice Ronet. E soprattutto, la febbrile sensuale smarrita Jeanne Moreau, l’attrice che sarebbe presto diventata il volto-feticcio di tanti autori della Nouvelle Vague. In testa, si capisce, François Truffaut (Jules e Jim). Tuttavia il collante fondamentale, sorta di metafora del film stesso, sono le luci di un grande direttore della fotografia, Henri Decaë.
Il suo bianco-nero, «patetico» ma anche riflessivo, contiene additivi speciali. Difatti la pellicola è un sentito omaggio alla nerezza perché la narrazione occupa un arco temporale (un succinto sabato/domenica) assediato dall’oscurità. E sempre a proposito di tenebre, ricordiamo l’emblematica inquadratura in cui Tavernier, rimasto recluso nella gabbia metallica bloccata tra due piani, lancia il pacchetto di sigarette incendiato dentro il vano ascensore e ne segue il tragitto. Una minuscola fiamma che, tale quale i personaggi, viaggia senza urgenza verso l’abissale buiore.
Trascurando momentaneamente il team leader, ascoltiamo la terapia sonora cui è sottoposto l’omicida. Un esempio: il nostro è chiuso nella cabina, tenta di escogitare una via di fuga. Usa le mani la fantasia, usa un accendino, un coltello. Ed ecco entrare poco oltre il trio basso, batteria, pianoforte. I battiti sono discreti, diremmo addirittura neutrali, però lasciano trapelare un retrogusto ossessivo. Assillante come la lucetta intermittente (l’origine è incerta) che non smette un attimo di colpire il criminale. Poi, più avanti nella storia: il protagonista vorrebbe raggiungere il piano sottostante, è appeso alla fune dell’impianto di sollevamento; il guardiano notturno, effettuando il consueto controllo, ne riattiva la corsa e il prigioniero rischia di morire sfracellato dalla Macchina. Qui l’apporto musicale prevede un dialogo tra basso e batteria. In partenza il primo è forte, la seconda debole. In seguito, istante dopo istante, i ruoli si invertono e la batteria sarà oltremisura dominante finchè l’ascensore non verrà di nuovo fermato. I medesimi strumenti (con un pianoforte sottotraccia) compaiono allorchè la polizia interrogherà l’assassino. Ecco ancora l’alleanza tra contrabbasso e percussioni. Stavolta, sono le percussioni a sviluppare un agguato. O meglio una matassa, una ragnatela progressivamente cogente. Ci siamo, il colpevole sta per crollare.
C’è chi ha confinato questa performance su celluloide in una zona abbastanza defilata della discografia davisiana. Eppure, tutt’oggi i brani (cfr. the greatest trumpet) brillano di vitalità. Prendiamo lo splendido incipit che anticipa il sentiment centrale del film, la lontananza lo scacco la separazione. Mentre Florence (P.P.P. occhi bocca occhi) è al telefono con il partner, crede di possedere un effimero contatto. Si illude. In effetti, durante la vicenda i due non saranno mai insieme. Gli amanti maledetti non sapranno né dovranno riunirsi. Il principe delle tenebre, così era chiamato il Maestro, copre le immagini (un intervento lungo tre minuti scarsi) modellando una dolorosa «nostalgia del futuro» dove i reiterati acuti sono struggenti, non strazianti. Un lamento composto da note espanse avvolgenti ansiogene sospese.
Nessun dubbio. I momenti più intensi sono quelli in cui il commento sonoro pedina la disperata che draga bar e ritrovi chiedendo ovunque Avete visto il signor Tavernier?
Maquillage pressochè invisibile, occhiaie accentuate, la deambulatrice veste un elegante tailleur nero che se non è un Coco Chanel poco ci manca. Affronta una pioggia umiliante; parla tra sé e sé; dice no con la testa; talora pratica la voce interiore. Mostrando sempre il volto, le pupille in particolare, colmo di pensieri sconsolati. La tromba, validi aiuti basso batteria piano, non scorta le peregrinazioni. Non supporta i fotogrammi. Li bagna, invece. Li alleva. Li fa crescere nutrendo un contrappunto tra languore e fatalità, morbidezza e desolazione.
Guadagnato l’ennesimo locale, Jeanne Moreau reindossa il monologo. Consulta uno specchio. Ripete Julien, tu devi tornare a me, vicino a me….Ti voglio, ti voglio! Ora, il quintetto al completo sottolinea un sottile contrappasso. Il jazz celebra la marca genetica che lo contraddistingue fin dai primordi, l’ensemble. Per contro, l’amante abbandonata festeggia il proprio isolamento.
La «colonna», filo rosso la lenteur con rare eccezioni, tocca l’apice nel corso della sequenza finale. Ci troviamo in una camera oscura. La protagonista, sotto lo sguardo del commissario Cherrier, contempla le foto appena sviluppate che la ritraggono stretta abbracciata all’uomo con cui spartirà un’unica cosa, la prigione. Adesso la donna, accantonato il monologo, coinvolge direttamente contemporaneamente tre interlocutori: se stessa, Julien e il pubblico. Saremo ancora insieme. Là, chissà dove…insieme..Lo vedi che non ci potranno separare? La fedele compagna di Davis, complice anche la sordina Harmon, esalta il motto less is more. E se le note spaziate o estese, oppure i suoni d’alta frequenza, potenziano benissimo lo schermo, è l’infinita coda conclusiva a incantare lo spettatore. Perché se ne va senza andarsene. Non accetta di scomparire. E non intende spegnere l’eco (1). Entusiasta della collaborazione con la geniale tromba, Louis Malle, futuro cantore di un’umanità vulnerabile e sconfitta (cfr. Fuoco fatuo Il ladro di Parigi Atlantic City Vanya sulla 42esima Strada), dichiarerà: «Nell’ultima sequenza il commento, che è di estrema semplicità, conferisce una dimensione straordinaria all’elemento visuale».
(1) Chi cerca una puntuale lettura del congedo consulti l’illustre Ian Carr (v. Miles Davis. Una biografia critica, Arcana edizioni 1982, p. 116): «La [traccia] si chiude con un La acuto (Sol d’effetto) ripetuto stupendamente e prolungato sino a che non si discende con una serie di figurazioni in legato e lo stesso La è tenuto a lungo un’ottava sotto».