Il jazz, si sa, è una spugna. Per osmosi si contamina, interagendo con tutto quello con cui viene in contatto e ormai è diventato un linguaggio globale. In America Latina, per esempio, il Latin jazz è un universo sonoro sconfinato che attrae gran parte dei musicisti moderni perché mescola l’idioma afro-americano alle musiche locali più disparate. In Venezuela incontra lo joropo, un genere musicale simile al valzer, una danza con influenze africane ed europee, in Colombia si fonde con la cumbia o con il porro e le discoteche di molti di noi sono piene di dischi di bossa nova e di jazz samba, una delle più felici commistioni in cui il jazz si sposa con la poliritmia e la poesia del Brasile. Non sappiamo di preciso se esiste una via al jazz cileno. Quello che sappiamo è che il jazz è arrivato in Cile all’inizio degli anni Venti del secolo scorso e fino alla fine degli anni Quaranta è stato relegato al ruolo di musica popolare di massa destinata principalmente al ballo. Le big band dell’epoca si cimentavano con il charleston o con il fox trot nel tentativo di dare una parvenza di modernità a una musica priva, o quasi, di precise connotazioni folkloriche. Da questo punto di vista l’orchestra di Pablo Garrido fu la palestra di molti musicisti attratti dalle sonorità statunitensi insieme alle orchestre dirette da Buddy Day, da Isidro Benìtez e da Bernardo Lacasia. In quegli anni i nomi di cui si parlava erano quelli del trombettista Luis Arànguiz (discepolo di Louis Armstrong), del sassofonista Mario Escobar, del batterista Victor «Tuco» Tapia. Dalla fine degli anni Quaranta in poi, in sintonia con quello che accadeva negli Stati Uniti, il jazz in Cile cessò di essere una musica di massa iniziando a essere valorizzato secondo criteri estetici più precisi. Alcuni musicisti e appassionati riesumarono il Santiago Jazz Club (che esisteva sin dal 1943), in cui si fecero conoscere il batterista Josè Luis Córdova, il compositore Domingo Santa Cruz Morla (professore universitario molto influente con frequentazioni nella musica classica), il pianista e violoncellista Josè Hosiasson. Con l’esplosione del bop e poi del free molti musicisti di formazione accademica iniziarono ad avvicinarsi al jazz: i pianisti Omar Nahuel e Mariano Casanova, il violinista Roberto Lecaros e il sassofonista Patricio Ramìrez. I successori di questa generazione hanno percorso una strada in cui il linguaggio del jazz è stato la base per creare una fusione con le risorse tratte dalla musica tradizionale cilena. Questa fusione ebbe inizio a metà degli anni Settanta, promossa dal vibrafonista Guillermo Rifo e consolidata dal contrabbassista Pablo Lecaros che con il gruppo La Marraqueta, riuscì ad avere un discreto successo anche al di fuori dei confini nazionali. Ed è quello che ancora oggi caratterizza gran parte del jazz che si suona in Cile, un milieu sonoro in cui l’idioma che ci appassiona con i suoi stilemi, si avventura nella fusione con la musica tradizionale latino-americana. Oggi gli artisti di cui si parla sono quelli emersi negli anni Novanta, il chitarrista Ángel Parra, il trombettista Cristián Cuturrufo, il batterista Pancho Molina oppure il chitarrista Jorge Díaz, fortemente influenzato da John McLaughlin. Ma si tratta di musicisti la cui notorietà non è mai riuscita a valicare i confini nazionali anche perché la conoscenza del linguaggio del jazz contemporaneo richiede un approfondimento difficile da perseguire in Cile. Per questo è necessario trasferirsi a New York. Ed è ciò che ha fatto Melissa Aldana (trentaquattro anni, nata a Santiago nel 1988) che, dopo aver imparato i rudimenti del sax tenore dal padre Marco (uno dei primi della sua terra a ottenere un riconoscimento internazionale), e dopo aver vinto la prestigiosa Thelonious Monk Competition, si è trasferita nella Grande Mela, dove vive da circa dieci anni, ed è riuscita a farsi notare a tal punto da diventare uno dei nomi importanti tra quelli che suonano il suo stesso strumento. Melissa ha studiato alla Berklee con Joe Lovano, George Garzone e Greg Osby della cui etichetta, la Inner Circle Music, ha fatto parte per diverso tempo. Il suo curriculum (innumerevoli collaborazioni con i nomi più altisonanti del jazz moderno e sei album all’attivo di cui l’ultimo «12 Stars», il suo debutto su Blue Note, è un concentrato di modernità inciso con alcuni dei più talentuosi giovani musicisti del jazz attuale) non fa una grinza, anche se non tutti sanno – e lei forse se n’è dimenticata – che all’età di dodici anni era già stata in Italia per partecipare ad una trasmissione condotta da Mike Bongiorno su Canale 5 (Bravo Bravissimo, in cui si cimentò in una versione al sax tenore di Isn’t She Lovely di Stevie Wonder. L’abbiamo intervistata per chiederle se davvero «12 Stars» rappresenta una svolta nella sua carriera.
Forse non ti ricordi di me. Nove anni fa. Ero a New York per scrivere un libro sulla scena del jazz nella Big Apple di allora. Avevamo un appuntamento davanti allo Small’s per un’intervista e prendemmo insieme la metropolitana per andare uptown. Cos’è cambiato da allora? La scena è ancora così vivace?
Ah sì, adesso ricordo! C’è stata una pandemia e ovviamente sono cambiate tante cose. Io, per esempio, non esco più come prima, non vado più allo Small’s con la stessa frequenza di prima, non vado più in giro per jam. Per me il cambiamento maggiore è stato questo: non avere più la possibilità di essere in contatto con quello che succede di notte e, come sai, la musica a New York si suona prevalentemente di notte. Per cui molte cose sono cambiate e, per quanto mi riguarda, cambiate in peggio.
Vivi ancora a New York?
Sì, a Brooklyn. Non mi sono più mossa da quando è iniziata la pandemia
E oggi debutti su Blue Note
È un lavoro legato all’astrologia e ai tarocchi. Durante la pandemia mi è venuta voglia di fare qualcosa di completamente diverso: sono sempre stata attratta dalla storia dei simboli, dalle loro interpretazioni, il significato delle parole che ne fanno parte, dai colori, e ho cominciato a seguire delle lezioni sui tarocchi. Quelle lezioni non riguardavano soltanto la loro lettura, erano dei veri e propri approfondimenti sulla materia. Ho imparato a sviluppare la mia intuizione, ho capito la differenza tra gli Arcani Maggiori e gli Arcani Minori, ho incominciato a conoscere la numerologia e la matematica ad essa correlata. È importante per capire cosa sta dicendo la cartomante quando ti legge i tarocchi. La mia carta è la 31, quella dell’imperatrice che indossa una corona con 12 stelle. Le 12 stelle possono significare moltissime cose: 12 paure, i 12 mesi dell’anno, le 12 case in astrologia, la tua connessione con l’universo. Quando ho cominciato a conoscere i tarocchi stavo attraversando un processo di crisi personale molto intensa – legata ovviamente a quello che tutti stavamo passando – così ho deciso di cominciare a scrivere musica che fosse ispirata da ciò che stavo vivendo emotivamente. La mia mente era in fermento e volevo registrare quello che stavo passando. Di conseguenza ho cominciato a scrivere musica e ho composto brani che si basavano sugli Arcani Maggiori e sull’astrologia in senso lato. Questa è la maniera in cui l’album ha preso forma.
Di che segno sei?
Sagittario con ascendente Vergine: le stelle in astrologia sono una cosa molto interessante. Non importa ciò in cui uno crede. È veramente molto interessante come tutto sia in connessione e da diverse prospettive.
Mi racconti qualcosa di te? Dove sei nata, il rapporto con tuo padre anche lui sassofonista, eccetera.
Sono cilena nata a Santiago ma sono anche canadese, per metà in quanto mia madre è canadese di parte francese. Sono cresciuta in Cile, dove ho passato tutta la vita. Ho cominciato a suonare il sassofono all’età di sei anni. Anche mio padre è un sassofonista così come lo era mio nonno, nei primi anni Cinquanta in Cile, quindi sono cresciuta vedendo mio padre che si esercitava con lo strumento e lo stesso faceva mio nonno. Ritengo di essere stata molto fortunata per questo: entrambi si esercitavano con me per otto ore al giorno. Mi hanno fatto imparare a memoria gli assolo di Charlie Parker e, sebbene fosse un lavoro faticoso e costante, ho un ricordo bellissimo di quel periodo. Mio padre amava molto lo studio quotidiano dello strumento e lo faceva con passione, la stessa che mi ha trasmesso e che mi ha permesso di arrivare sino ad oggi. Sono cresciuta ascoltando davvero tanti dischi, anche se non ho avuto molte occasioni di suonare in giro e di vedere concerti, cose che poi ho fatto quando mi sono trasferita negli Stati Uniti all’età di diciotto anni.
Parlami delle tue principali influenze come sassofonista e come compositrice
Sono moltissime, ma se devo circoscrivere il campo allora ti dirò che le principali sono state Charlie Parker, il musicista che ho studiato di più quando ero bambina, poi per molti anni mi sono appassionata a Sonny Rollins e amo sul serio Paul Gonsalves e Don Byas; infine Mark Turner. Questi sono i musicisti che ho seguito di più. Anche se sono sempre curiosa e mi piace approfondire la storia del mio strumento: è molto importante capire da dove provengo per suonare nella maniera in cui suono. Per quel che riguarda la composizione citerò ovviamente Wayne Shorter e Thelonious Monk, ma devo anche dire che alcune delle mie più importanti influenze da questo punto di vista sono state Richard Strauss, Mahler e Bartók: la musica classica mi appassiona moltissimo. Quando devo scrivere, ma anche quando suono il sassofono, non cerco mai di analizzare quello che un musicista sta facendo ma tento di capire ciò che sta pensando, ed è per questo motivo che per me studiare un musicista è un processo lungo e faticoso. Cerco di focalizzare la mia attenzione su di lui per cercare di capire il suo modo di agire, e i musicisti che ti ho citato li ho studiati davvero.
So che Greg Osby ha avuto un ruolo importante nel tuo processo educativo. Com’è iniziata la tua collaborazione con lui?
L’ho conosciuto alla Berklee, dove è stato uno dei miei mentori per diversi anni. Mi ricordo che allora avevo un’autentica fissazione per Sonny Rollins e Michael Brecker, e lui mi diceva che avrei dovuto conoscere Don Byas e Lucky Thompson. Greg è stato per me un mentore importante, nel senso che mi ha sempre incoraggiato ad approfondire cose che non conoscevo e che non ero abituata a suonare. Poi, quando sono venuta a New York, mi ha inserito nella sua etichetta, la Inner Circle, con la quale ho registrato i miei primi due album. La mia prima gig newyorkese la devo a lui: ho suonato al Vanguard per una settimana assieme a Greg, avevo solo vent’anni. È sempre stato un mentore per me, un buon amico che mi ha sempre sostenuta fin da quando sono arrivata qui.
Questo disco per la Blue Note giunge per te dopo un periodo di gavetta molto duro. Ci sono altre cose che hanno contribuito a forgiare il tuo status di artista? Ricordo di averti visto suonare qui in Italia con un progetto tutto al femminile, Artemis…
Con me, in Artemis, c’erano Renee Rosnes al piano, Anat Cohen al clarinetto, Ingrid Jensen alla tromba, Noriko Ueda al contrabbasso e a Allison Miller lla batteria. La cantante era Cécile McLorin Salvant. È stata una esperienza molto importante, per quanto mi riguarda, ma alla fine ho deciso di lasciare quel gruppo perché volevo concentrarmi maggiormente sulle mie cose. La mia fortuna è stata sempre quella di essere riuscita a lavorare con musicisti che suonano meglio di me! In tempi recenti, per esempio, suonare con un bravissimo chitarrista come Lage Lund mi ha davvero aperto la mente, sia riguardo alla maniera di ascoltare la musica sia riguardo al modo di guidare un gruppo. La direzione che sto seguendo in questo periodo la devo in gran parte a Lage.
C’è qualche altro tuo progetto, a parte «12 Stars», del quale ti vorresti parlare?
Al momento non ne ho altri, visto che il gruppo con cui ho registrato «12 Stars» mi fa sentire molto realizzata dal punto di vista artistico. Devi sapere che fin da quando sono arrivata a New York ho sempre avuto una visione ben chiara su ciò che mi sarebbe servito per realizzarmi. Per me il farcela, l’avere successo, significa avere un gruppo che ti sostiene e che lavora per realizzare le tue idee. E con loro penso di esserci riuscita. Non mi è mai capitato di essere stata ingaggiata da musicisti più grandi di me dal punto di vista anagrafico. Mi sarebbe piaciuto che potesse accadere, ma non è andata così. Ho sempre creduto che creare un gruppo, convocare i musicisti e suonare regolarmente con loro sarebbe stata la soluzione migliore per crescere, e questo è il motivo per cui ho suonato in trio per molti anni e poi in quartetto. Con questo gruppo credo di aver trovato una certa stabilità, e sono sicura che registreremo ancora molti album. Mi ci voglio dedicare sul serio. Anche se tra loro girano idee diverse, percepisco la volontà ferma di sviluppare un suono, ed è questa la cosa principale alla quale voglio dedicarmi. Non a caso in questo periodo non sto lavorando come sidewoman, l’unica cosa sulla quale voglio concentrarmi è seguire la direzione che sto percorrendo.
Credo che Don Was stia facendo un gran lavoro per la musica del nostro tempo e, ovviamente, per la Blue Note che con lui sta rivivendo un momento di nuova giovinezza. Parlami del tuo rapporto con Don e con la Blue Note.
È stato il mio manager a mettermi in contatto con Don. L’avevo già conosciuto proprio ai tempi di Artemis, che fu messo sotto contratto con la Blue Note con la quale incidemmo un album un anno prima della pandemia. Avemmo l’occasione di parlare a quattr’occhi e fu la prima volta che lo incontravo di persona. Sai, io stavo pensando a «12 Stars» da moltissimo tempo ma avevo bisogno di ancora altro tempo per concepire la musica da incidere. Di solito, per realizzare un album ci metto circa due anni. Poi, pensando alle etichette, mi era sembrata una cosa buona far parte degli artisti Blue Note, in compagnia di maestri come Sonny Rollins, Andrew Hill, Sam Rivers. Molti dei miei album preferiti di ogni tempo sono stati incisi per la Blue Note.
So che hai ascoltato molta musica. Quali sono i due dischi che vorresti portare con te su un’isola deserta?
Due sono pochi ed è difficile risponderti. Comunque al momento direi «Freedom Suite» di Sonny Rollins e «The Remedy» di Kurt Rosenwinkel, registrato dal vivo al Village Vanguard. Ci sono molti dischi che adoro ma questi due li ho sempre con me.