Mark Egan: Cross currents

Da Gil Evans al Pat Metheny Group, passando per centinaia di altri grandi nomi della musica, la carriera del bassista del New England è davvero qualcosa di eccezionale, e per questo siamo felici di averlo potuto intervistare a lungo nell’attesa di rivederlo in Italia

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Se l’intelligenza critica e quella dogmatica sono uno dei perenni fuochi d’attenzione di studi filosofici, almeno dai dì dell’oscuro Eraclito, esistono biografie esemplari, che riassumono nei fatti il senso dell’apertura alle possibilità d’espressione. Per dirla con una battuta attribuita a Groucho Marx: «Ci dev’essere un uomo con la mentalità aperta, lo spiffero arriva fin qui». Uno dei responsabili musicali degli spifferi è certamente Mark Egan, per raccontare il quale si potrebbe partire dai numeri: circa 400 (quattrocento!) album registrati dal 1977 con David Sanborn fino a oggi, dieci dei quali come fondatore e co-leader degli Elements insieme a Danny Gottlieb e quattordici come leader, contando l’ultimo nato «Cross Currents» (Wavetone Records), dove il bassista di Stockton sperimenta un power trio in compagnia di Shane Theriot alla chitarra e Shawn Pelton alla batteria. 

Difficile scostarsi dagli aggettivi che da decenni accompagnano la sua carriera e tutti concentrati sull’idea di versatilità. Certo è che Mark Egan ha contribuito a formare il suono della musica ininterrottamente dalla metà almeno degli anni Settanta: dagli esordi con il Pat Metheny Group ai tredici anni nella Gil Evans Orchestra e poi Sting, Arcadia, Roger Daltrey, Cindy Lauper, Art Garfunkel, John Abercrombie, Gato Barbieri, Jim Hall, John McLaughlin, Marianne Faithfull, Mark Murphy o Larry Coryell. Deprecabile vizio giornalistico l’elenchismo, che però, mai come in questo caso, rende l’idea di un protagonista musicale che ha fatto dell’ascolto e della disponibilità a entrare nelle creatività altrui un modello di identità musicale, sotto lo zodiaco del suo inconfondibile fretless. 

In una carriera così fitta, che in alcuni momenti della vita l’ha portato a esibirsi per oltre trecento giorni all’anno, non potevano mancare una manciata ricca di dischi di platino e d’oro, fatti che – accostati uno all’altro – potrebbero legittimare un certo divismo d’indole. Macché. Il carattere dell’uomo definisce il destino, diceva appunto Eraclito, e a settantatré anni Egan porta immutato il piacere dell’ascolto e del racconto; alla destra della sua scrivania ha lo stesso metronomo che ogni scolaro diligente di musica odia e ama in egual misura; ogni giorno svolge i suoi esercizi tecnici sullo strumento, si esercita al piano, legge partiture classiche alla chitarra. Lo scarto d’eccellenza di questo riconosciuto maestro delle quattro (o più) corde è tutto racchiuso in una naturale propensione all’altro da sé, temperato dal rigore dell’esercizio quotidiano e continuo, indisponibile ad altro scorrere del tempo che non sia misurabile in beat, ostile a qualunque forma di steccato e di primazia tra generi musicali, che vive come una dimostrazione di chiusura mentale, ma il cui garbo gli impedisce di definire tout court «ottusità». Egan, nato trombettista classico e jazz (in sezione o solista), ha iniziato presto ad alternare i pistoni d’ottone alle corde d’acciaio, preferendo ben presto il basso fretless, per le sue potenzialità melodiche ed espressive. «A me piace proprio suonare!», proclama appena può nel corso della lunga chiacchierata con MJ, nata per raccontare la storia dell’album ultimo nato e pretesto per ricostruire più da vicino una vita musicale certamente fuori dal comune. 

Mark Egan

Partiamo, come si conviene, dal titolo di questo ultimo lavoro: «Cross Currents». Sembra riferirsi non solo all’attraversare diversi generi musicali, ma anche al restare coerenti con la propria identità artistica nonostante le mode.
Sì, sono elementi importanti. All’inizio era solo il titolo di un brano, ma poi ho pensato fosse un buon modo per descrivere la musica dell’album, perché la mia è una storia fatta di influenze, non solo di jazz. C’è stato l’r&b, il soul, il blues… Prima che entrassi in modo più netto nel linguaggio jazz, fai conto tra il 1967 e il 1969, ascoltavo Jimi Hendrix, Wilson Pickett, i Cream, e poi c’è stata la rivelazione con Miles Davis, in particolare «Bitches Brew» e «In a Silent Way», che mescolano tutto insieme. A quel punto, ho deciso di tornare indietro e scoprire dove fossero le radici più autentiche di quel modo di fare musica, perché ne ero terribilmente attratto e volevo capire. E così «Cross Currents» incorpora tutte le diverse avventure musicali che ho attraversato. Su questa base ho scelto di affiancarmi a Shawn Pelton alla batteria e Shane Theriot alla chitarra, perché governano molto bene tutti questi stili e sono ottimi musicisti di jazz. È stato un modo diverso di proseguire l’esperienza musicale con Danny Gottlieb con il quale, qualche anno fa, registrammo un disco, «Electric Blue», che aveva un suono più aperto, diciamo con sonorità un po’ attinenti a quelle ECM… 

Visto che ci siamo, ti chiedo subito dov’è la magia tra te e Gottlieb. Suonate da un mucchio di tempo insieme, almeno dal primo nucleo del Pat Metheny Group, e avete proseguito con gli Elements. 
Eh sì, c’è una connessione magica tra me e Danny. Ci conoscemmo all’Università di Miami, entrambi studenti, poi è arrivata l’esperienza con Pat Metheny; Dan aveva già suonato con Gary Burton e Eberhard Weber e registrato «Watercolors», poi insieme anche a Lyle Mays abbiamo inciso «American Garage» nel 1979. Quel disco è stata l’occasione per girare tanto insieme, credo che siamo arrivati a qualcosa come trecento giorni all’anno di viaggio, da lì è nato un rapporto molto speciale. Siamo come fratelli quando suoniamo, la connessione musicale è evidente. Poi ci siamo ritrovati nella Gil Evans Orchestra; fatto sta che quando siamo insieme, non abbiamo bisogno di dirci nulla, suoniamo e basta con la massima empatia l’uno verso l’altro. Se Danny sta suonando un certo fill, capisco dove sta andando e lo seguo. 

E viceversa. 
Assolutamente sì! Vedi, suonare nell’orchestra di Gil Evans è stata una grande opportunità di crescita per entrambi. Ci esibivamo ogni lunedì sera, considera che ogni volta c’erano sei o sette solisti, perché il cuore della band erano i fiati. Quando hai una varietà timbrica del genere, basso e batteria devono essere molto attenti ai changes, a trovare modi sempre diversi per sostenere l’improvvisazione e quindi abbiamo dovuto attingere al massimo della nostra creatività. Alla fine, abbiamo deciso di registrare insieme «Electric Blue» proprio a coronamento di questo lungo rapporto di amicizia e di musica. 

Tornando a «Cross Currents», dall’ascolto si direbbe che l’equilibrio melodico nasca da una tessitura di scrittura, arrangiamento e produzione piuttosto complicata. 
Te lo confermo: è stato complicato! Si è trattato di un’operazione ambiziosa, perché abbiamo registrato undici brani in soli tre giorni. Ho iniziato a lavorare a questo progetto circa un anno e mezzo fa, scrivendo i pezzi. Lì sono nate diverse idee compositive, non ancora vere e proprie songs, e ho deciso di condividerle con Shawn e Shane, perché ci avevo suonato assieme poco prima del lockdown. Avevamo suonato a New York, sia in trio sia con gruppi più ampi, ma ho iniziato a maturare l’idea che quella nostra combinazione funzionasse molto bene. Siamo rimasti in contatto, ho chiesto a Shane se avesse suoi brani che potessero essere adatti al progetto, da questo è nato un brano scritto insieme, Big Sky, una ballad. Poi siamo passati a lavorare su tre pezzi di Shane e Shawn ci ha messo del suo con un brano, Nonc Rodell, che è davvero interessante, mette in luce completamente le sue qualità batteristiche. Alla base, per questo disco c’è stato un gran lavoro di pre-produzione, io ho arrangiato tutti i pezzi e fatto i demo da inviargli, con le partiture, anche se ho specificato loro che potevano proporre ogni tipo di modifica. Dopo di che abbiamo provato un giorno e poi registrato. 

Tra l’altro sono musicisti piuttosto diversi. Theriot ha dimostrato grande flessibilità: può suonare dallo stile New Orleans alle forme più astratte. Pelton ha una formazione leggermente più incline al rock. 
Eh, ma considera che Shawn ha studiato in modo approfondito il jazz all’Università dell’Indiana, conosce ogni cosa suonata da Tony Williams. Io l’ho incontrato la prima volta verso la fine degli anni Ottanta come sessionman e abbiamo suonato tantissimo insieme. Magari il suo background ha un suono più rock, r&b, ma Shawn ha una tecnica spaventosa, di grande intimità e comunicatività jazzistica. Shane, invece, è di New Orleans e quindi ha il funk nelle vene; dopo di che può suonare nello stile di John Scofield o di chi vuoi tu, ma ha un carattere e un suono tutto suo, molto riconoscibile. 

New Orleans è ben presente già dal brano di apertura dell’album, Ponchartrain, scritta da Theriot.
Esatto. È il nome di un lago proprio alle porte di New Orleans, lui mi ha fatto sentire il pezzo e ho pensato fosse perfetto come apertura perché ha una melodia piena di groove e carica di feeling; l’abbiamo suonata tutti volentieri e l’abbiamo scelta come primo brano. 

Anche «Cross Currents» l’hai registrato per la Wavetone Records che tu stesso hai fondato nel 1992. Quanto è importante, sul piano della libertà espressiva, poter contare sul proprio marchio indipendente? 
Per me molto. È il modo migliore per avere il controllo sulla direzione artistica della musica e in un certo senso, lo dico in modo positivo, sul piano creativo posso fare ciò che voglio. Penso ai miei ultimi due album: «Electric Blue» (2020) con Danny e «Dreaming Spirits» (2018) con Shane Theriot e Arjun Bruggeman, che suona tabla e percussioni. Sono sonorità molto differenti che ho potuto scegliere di produrre, così come molti altri nati gli scorsi anni. Nel 1992 era terminato il mio contratto con la GRP e avevo ancora in piedi alcuni obblighi con la RCA per gli Elements insieme a Danny. Ma l’idea di avere un’etichetta la coltivavo già da tempo; il lato più creativo, la sfida maggiore in quel caso è avere a che fare con il lato finanziario della faccenda. Capire il momento giusto per uscire, fare la promozione, mandarlo alle radio con una diffusione auspicabilmente mondiale. Su questo sono stato abbastanza fortunato perché avevo dei buoni contatti a New York e poi ho collaborato con alcuni professionisti per la pubblicità e la diffusione on air. A oggi posso contare su un team di persone affidabili, abbiamo da poco deciso la promozione per «Cross Currents». A oggi la Wavetone ha ventisette uscite, si è costruita nel tempo e poi cerco di sfruttare le opportunità delle nuove tecnologie: ho aperto una pagina su Bandcamp dove poter ascoltare gli album e poi ci sono le solite piattaforme. Spero di arrivare presto anche alla versione in vinile, ci terrei particolarmente. 

Certo che l’industria musicale è cambiata in modo vertiginoso da quando hai iniziato a lavorare da professionista a oggi. Che idea te ne sei fatto?
Oggi, in un certo senso, la vita del musicista è più dura che in passato. Non ci sono spazi adeguati per suonare la tua musica dal vivo, a partire da New York. Per non parlare della fruizione musicale con lo streaming e i downloads digitali, non si guadagna con le vendite dei cd come anni fa! La mia idea è che l’industria non era pronta per un tipo di conversione di questo tipo, hanno perso il controllo con l’arrivo di Napster e della pirateria. Alla fine sono arrivati i vari Spotify e compagnia bella, ma per cercare di guadagnare qualcosa devi arrivare ad avere milioni di streams. Quindi cosa resta? Girare a far concerti, vendere i cd in quell’occasione e fare un po’ di merchandising se ne hai modo, il che è allo stesso tempo difficile e dispendioso. Poi, è chiaro, il lato positivo è che puoi farti il tuo sito, mettere online i tuoi video e crearti dei biglietti da visita, per così dire, che aiutano a trovare serate o fare qualche intervista per farti conoscere. Però a questo punto della vita – ho compiuto 73 anni qualche settimana fa – mi concentro solo sulla mia musica e faccio in modo che arrivi al maggior numero di persone possibile, sono felice che possano ascoltare quello che faccio. Io scrivo per il piacere di comunicare agli altri, questa è la mia missione come musicista! 

C’è una parte del tuo lavoro che ti piace di più? Suonare dal vivo, produrre, scrivere? 
A me piace suonare! Mi piace vivere l’attimo in cui suono! Questo è il mio grande amore. È la spinta che mi fornisce l’ispirazione e che mi fa venire voglia di migliorare esercitandomi. Suonando mi arrivano idee, che possono diventare canzoni. Questo è quindi certamente nella top list. Poi segue la composizione e tutto ciò che ha a che fare con essa, compreso il momento della registrazione. E in terza posizione metto la produzione, perché ho capito ben presto quanto fosse importante imparare e avere dimestichezza con le attrezzature di studio. Ho un ottimo rapporto con la tecnologia e mi piace lavorare sulla pre-produzione; del resto, facendo questo lavoro, sarebbe assurdo non essere capaci di utilizzare le diverse consoles o ProTools. Mi piace smanettare con tutti quegli effetti, trovare i livelli giusti di riverbero, delay e altre modulazioni di segnale. Ma ripeto, al primo posto c’è la gioia di suonare. 

La tua carriera solistica è maturata col tempo. Hai iniziato come sideman nel 1977 registrando con David Sanborn, poi nel 1982 sono arrivati gli Elements, mentre il primo album a tuo nome è «Mosaic» del 1985. Come cambia il ruolo del musicista nei diversi contesti? 
Dunque, partiamo dall’inizio. Mi sono sempre sentito responsabilizzato, desideroso di suonare al mio meglio in ogni situazione, facevo i compiti a casa, diciamo. Per esempio, quando ho suonato con David Sanborn, era accaduto che il suo bassista avesse lasciato la band; conoscevo bene Hiram Bullock, il suo chitarrista, che fece il mio nome perché avevo già suonato col batterista, Victor Lewis, anche lui nella band. Quando devi suonare per altri, in primo luogo devi ascoltare con attenzione la loro musica dai dischi, io la imparavo quasi a memoria. Se non puoi farlo, ti eserciti nella lettura per avere la sicurezza della prima vista. Poi c’è stata la svolta con Danny e gli Elements e lì, per così dire, la posta in gioco era la nostra. Il senso di responsabilità è aumentato ulteriormente, dalla scelta dei materiali, alla capacità tecnica, all’aspetto di arrangiamento e produzione. Nel primo disco abbiamo coinvolto Bill Evans e Clifford Carter, entrambi nostri cari amici. In generale, però, se sei leader devi sforzarti di trovare la massima connessione coi tuoi musicisti, consentirgli di esprimersi con la massima libertà, senza che mai temano di essere messi in ombra: solo così tireranno fuori il massimo della loro creatività. È probabilmente la mia formazione jazz a farmi parlare. Il jazz è proprio quello: creatività e inclusione ed esempi perfetti di ciò sono due miei idoli come Miles Davis o John Coltrane. Poi, al di là dei musicisti, siccome devi badare a molti aspetti organizzativi e tecnici, occorre scegliere le persone giuste intorno a te, su questo mi sento fortunato. 

Hai appena citato Miles Davis. Tu sei nato come trombettista: questo ti ha aiutato a sviluppare il forte senso melodico che esce anche col fretless? 
È un bel complimento, questo. Ho suonato la tromba da quando avevo dieci anni fino alle superiori. Suonavo ovunque capitasse, nei paraggi di Boston: r&b, soul, funk, lavoravo in sezione. Quando sono passato al basso, credo al secondo anno di college, ho riversato le conoscenze trombettistiche e l’importanza della melodia nel linguaggio musicale. Poi mi sono buttato completamente nel basso, anche perché avevo raggiunto un gran buon livello con la tromba … suonavo anche il Concerto per tromba di Haydn, mica facile (ride, ndr). A parte la lettura in una chiave diversa, le idee improvvisative o gli standard jazz li padroneggiavo bene. Col basso è successo qualcosa di strano, che io ricollego a una certa capacità di ascolto: se sentivo James Jamerson nei dischi della Motown o Jimi Hendrix o i Beatles o altra musica, l’orecchio se ne andava soprattutto alle linee di basso più che ad altri suoni. Al college mi sono accorto che avrei dovuto studiare come un matto per consolidare le mie basi e sono ripartito dai grandi dello strumento, Ron Carter uno su tutti, ma anche Jimmy Blanton, Charles Mingus, Scott LaFaro, Eddie Gomez; il clic però mi è scattato ascoltando Paul Chambers con Davis e Coltrane. Pensa che avevo un suo poster gigante nel mio appartamento da studente, era il mio supereroe! Suonando jazz facevo pratica anche sul contrabbasso, a breve mi sono trovato a suonare a Miami con Ira Sullivan, che era un meraviglioso trombettista e polistrumentista. 

Sei diventato un professionista in un momento particolare, stimolante ma anche complesso, perché musicisti come Jaco Pastorius o Stanley Clarke dominavano il mercato. È stato complesso trovare il tuo linguaggio? 
Quando ho iniziato non avevo un mio timbro riconoscibile. Ma ho avuto a Miami la fortuna di suonare davvero tanto, la notte e il giorno, vivevo con Randy Brecker e poi c’era un giovane sassofonista, Jeff Nero, che procurava un sacco di concerti ma gli mancava il bassista. Randy mise una buona parola e io, ormai l’avrai capito, prima di accettare per sapere se fossi stato in grado gli chiesi la set list: pezzi che conoscevo alla tromba, ma non al basso. C’era solo da studiare, li ho imparati e sono salito sul palco. La cosa ha funzionato e mi sono ritrovato ad avere cinque o sei concerti a settimana. I bassisti erano più richiesti dei trombettisti, ma per arrivare ad avere un’identità ho dovuto lavorare; mi ricordo uno dei miei insegnanti di conservatorio che in modo molto brusco mi sgridava: «Non stai tirando fuori il groove, dov’è il groove?» (e aveva ragione). Ascoltavo moltissimo Chuck Rainey, Dave Holland e Michael Henderson che suona in quel bellissimo disco di Miles, «Live Evil», sentivo che stava per maturare un mio suono, ma la svolta c’è stata con il fretless, perché era il punto di congiunzione melodica tra un basso e un violoncello… 

C’è un video curioso su YouTube in cui tu e Pastorius suonate insieme The Chicken nella Gil Evans Orchestra, credo in Giappone. Qualcuno racconta che Jaco poteva diventare molto competitivo in quelle situazioni. 
Jaco suonava con Gil Evans prima di me, poi si trasferì a New York, ma quando capitava nei paraggi Gil voleva che ci fossero due bassi e così ci trovavamo a suonare insieme. Funzionavamo bene secondo me, io non ero alla ricerca di stupire in alcun modo e alternavamo con grande interplay gli interventi. Alcuni incastri erano semplicemente perfetti, se ci penso… Certo, ogni tanto lui poteva diventare un po’ «competitivo», ma suonava in un modo pazzesco! Non era solo un gran virtuoso, aveva proprio una percezione diversa delle note, delle melodie, del fenomeno musicale nel suo complesso. Insuperabile. Marcus Miller è un musicista incredibile, un innovatore a suo modo; Victor Wooten è un meraviglioso bassista e potrei fare ancora molti nomi di gente straordinaria: nessuno tuttavia ha mai più avuto quel suono unico, individuale, ha cambiato tutto, tutto il mondo dello strumento. Poi il periodo di quel tour in Giappone non era un momento felice di vita per Jaco, ogni tanto lasciava di botto il palco e allora serviva qualcuno come me che potesse garantire la performance. Per me era chiaro che dovessi lasciargli i suoi spazi… Era un musicista fenomenale, non c’era alternativa. 

Per concludere, un fatto piuttosto evidente è che il tuo basso è parte costitutiva di moltissima musica degli ultimi decenni. Hai suonato qualunque genere, dimostrando che il resto sono steccati talvolta un po’ snob. Quanto è importante la curiosità e la voglia superare le definizioni? 
Credo sia fondamentale per le persone essere aperte a stili diversi; ognuno segue la sua strada, ascolta la sua voce. A me è semplicemente capitato, fin da ragazzino, di essere esposto a diversi tipi di musica e mi interessavano tutti. Sono rimasto attratto dal jazz, per la profondità della sua comunicazione, per l’alto livello tecnico richiesto: quella musica è complessa. Ma poi, avvicinandomi a un altro linguaggio, era necessario entrare con la stessa concentrazione in profondità, per poter comunicare. Non è solo con il jazz che tu prendi, per dire, uno standard e inizi a imparare accordi, scale, fraseggi e studi l’interazione con la sezione ritmica. Se suoni rock, per esempio, c’è un’improvvisazione che ti porta ad ascoltare con attenzione la batteria, e se osservi i musicisti c’è la stessa voglia di comprendere la totalità del fenomeno musicale che c’è nel jazz. Posso suonare reggae, funk e avanguardia radicale, ma quello che mi interessa è sentirmi completamente libero di seguire le mie orecchie. Sai cosa secondo me è fondamentale sempre e comunque? La capacità di ascoltare, imparando ad aspettare quello che la musica ti sta suggerendo. Capire le domande per fornire le risposte migliori, aumentare la conoscenza di ciò che sai fare ogni giorno. Bisogna arrivare a suonare in modo fluido ogni cosa, e anche questa è la sfida che mi sono posto registrando «Cross Currents». 

Ti eserciti ancora?
Ogni giorno! Guarda, qui c’è il mio metronomo, a volte parto dalle tecniche di base della mano destra e mi ostino a suonare e risuonare le corde a vuoto finché non esce un suono pulito. Quando mi sento sicuro aggiungo le diteggiature e poi lavoro sulla velocità. Questo ti aiuta a suonare ogni tipo di musica; non faccio polemiche con nessuno, ma se tu dici: suono solo jazz o rock, allora ti stai limitando da solo! Pensa a Miles Davis, ascolta il suo punto di inizio e quello di arrivo. 

Quando tornerai in Italia?
Presto! A luglio sarò a Umbria Jazz con la Gil Evans Orchestra Alumni e poi ho una data ad Ancona. Non vedo l’ora, l’atmosfera è sempre bellissima nel vostro Paese! 

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