Marianne Faithfull: Una vita difficile

Ricordo di un artista in sfolgorante chiaroscuro

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Se non l’avesse già ideato Alfred Hitchcock per uno dei suoi capolavori, La donna che visse due volte sarebbe un titolo perfetto per la storia e le opere di Marianne Faithfull; e forse due è un numero inadeguato, questa affascinante artista che da poco ci ha lasciato di vite ne ha vissute molte, e sempre cariche di sentimenti estremi – drammi, depressioni, eccitazioni, passioni febbrili. 

Prima ancora di aprire bocca davanti a un microfono, Marianne Faithfull era già un personaggio. Figlia di un agente segreto e di una baronessa austroungarica imparentata con Leopold von Sacher Masoch, l’autore di Venere in pelliccia, educata dalle suore in un collegio religioso, era una bellissima, seducente ragazza che non poteva passare inosservata nella rutilante swingin’ London di metà Sessanta. A sedici anni andò sposa a un gallerista famoso, John Dunbar, mise al mondo un figlio e fu introdotta nel giro delle avanguardie artistiche, dove conobbe Mick Jagger e trovò la strada spianata per coltivare le sue ambizioni di cantante. Il satanico Stones la strappò al marito, le procurò un contratto alla Decca e la aiutò nei primi passi della carriera con una cantilena famosa, As Tears Go By, che inevitabilmente ebbe fortuna. Difficile, anzi impossibile in quei giorni staccare il personaggio dalla vera donna. Per tutti Marianne era un’aristocratica che si degnava di scendere dal piano nobile al cortile della pop music, anche se la famiglia in realtà non aveva un quattrino e al collegio delle suore ci era finita per carità; e naturalmente passava per una raccomandata senza talento, per quanto le prime incisioni non fossero così scadenti come piaceva dire. Un album soprattutto andrebbe ascoltato, se non rivalutato, quel Come My Way che aveva come chitarrista e produttore l’ottimo Jon Mark; lì la ragazza sfogava ingenue voglie di folksinger alla Joan Baez, con un certo gusto strumentale e un repertorio non privo di interesse.

Faithfull chiuse presto quella finestrella artistica, sul finire dei Sessanta. Tentò il teatro con una parte nel Giardino dei ciliegi di Cechov e come Ofelia nell’Amleto di Shakespeare e si mise alla prova come compositrice, scrivendo una canzone bella e spietata, Sister Morphine, dove si raccontava di un uomo in punto di morte che supplicava una suora dell’ospedale perché alleviasse il suo dolore con la morfina. 

Non la presero sul serio, il pezzo venne nascosto su un lato B prima di essere censurato; e Marianne rimase vittima del testo, anziché esorcizzare la droga si consegnò prigioniera e scese a precipizio i gradini della dipendenza. Anche per quello, e per un sofferto aborto, la sua storia con Jagger finì, lasciandola con sogni infranti, debiti, paure. Gli anni Settanta furono un attraversamento del deserto, con fallimenti teatrali e discografici, con la ruota della vita che parve sul punto di farla a pezzi. Perse la custodia del figlio, tentò il suicidio, visse due anni da homeless per le strade di Londra e poi da squatter dove capitava. Quando compì trent’anni, alla fine del 1976, il suo nome poteva dirsi dimenticato.

LONDON 5/29/69: Mick Jagger of the Rolling Stones and girlfriend, singer Marianne Fiathfull, arrive at Magistrate’s Court early May 29 to face charges of possessing marijuana. The couple, arrested during a police raid on Jagger’s apartment May 28, was released an $120 bond.

Sono vecchio abbastanza da ricordarmi quando, un giorno di fine 1979, ascoltai l’inatteso disco che ne segnalava il ritorno, «Broken English». Avevo le vertigini, come tanti dopo quell’ascolto: era davvero quella Marianne Faithfull, era la stessa fatina sexy delle canzoni di quindici anni prima? Si stentava a crederlo. La voce si era indurita e stillava una linfa amara, la musica aveva abbandonato i vezzi e i trucchi delle volte precedenti per un suggestivo mix di folk, rock ed elettronica. Marianne aveva trovato il consigliere giusto, il chitarrista Barry Reynolds, e con lui continuò per qualche anno ancora, costruendo un po’ per volta un credibile repertorio di pop-rock moderno; con originali memorabili come la Ballad of Lucy Jordan (dove raccontava qualcosa che somigliava molto alla sua vita), come Fallen From Grace, Blue Millionaire e la felice trasfigurazione di un classico di John Lennon, Working Class Hero. Il cielo non era tutto sgombro, l’eroina dettava ancora ritmi e pene, e fu solo risolvendo quella pratica con una cura intensiva che la musica poté fluire in tutta la sua potenza. Così nel 1987 «Strange Weather», un’altra svolta. Produceva Hal Willner, che intuì un’artista con un grande potenziale non ancora espresso e spostò il suo personaggio di qualche grado: una chanteuse d’altri tempi, una moderna Edith Piaf più Billie Holiday, fragile appassionata maledetta. Per lei convocò alcuni dei migliori musicisti del suo giro, da Bill Frisell a Fernando Saunders a Robert Quine, che la accompagnavano in un repertorio di nobili standard, memorabili novità (la title track di Tom Waits) e ricordi di anni Sessanta, compresa una As Tears Go By rinata a nuova vita. 

Il nome di Willner ricorre in alcuni dei dischi migliori: il live «Blazing Away» e poi, negli anni della maturità, l’ampio quaderno di «Easy Come, Easy Go» e alcuni brani di «Horses And High Heels». Forse l’inquieta signora avrebbe dovuto essere più fedele a quel produttore, farsi guidare solo da lui nei meandri della Grande Canzone secondo favolosi itinerari: da Ellington a Randy Newman, da Bernstein a Morrissey, da Brian Eno ai Decemberists a Bessie Smith (è l’eccitante, sorprendente scaletta di «Easy Come, Easy Go»). Ma Marianne era smaniosa, golosa, e non voleva negarsi nulla; così negli anni anche mosse infelici (i due album con Angelo Badalamenti), incursioni azzardate nel mondo di Kurt Weill e Bertolt Brecht («20th Century Blues» e «The Seven Deadly Sins»), progetti molto cerebrali (i Sonetti di Shakespeare musicati con il violoncellista Vincent Segal). Anche nelle pagine meno riuscite brillava comunque una voce unica, che non aveva bisogno di urlare per conquistare l’ascolto. In quella voce non c’era tecnica ma vita vissuta, e la definizione migliore la diede anni fa il suo primo biografo, David Dalton: «Una trasmutazione alchemica si è stabilita tra la vita di Marianne Faithfull e la sua voce. Tutte le disavventure e i dolori che ha patito, di qualunque genere, la voce li ha magicamente assorbiti e infallibilmente trasformati in qualcosa di ricco e di strano».

Marianne Faithfull aveva paura di invecchiare, o forse sapeva di non avere molto tempo a disposizione. Così ha concentrato tanto nei suoi anni di mezzo, fra i trenta e i settanta, scivolando poi su una coda lunga che dopo il Covid è diventata precipizio. Ha regalato bella musica anche da grande, appoggiandosi ai migliori songwriters della nuova generazione, scegliendo pagine già note ma chiedendo anche canzoni scritte apposta per lei e con lei; e i vari Beck, Billy Corgan, Damon Albarn, Jarvis Cocker hanno felicemente esaudito la richiesta («Kissin’ Time», uno degli album da non perdere), e anche Nick Cave, PJ Harvey, Steve Earle, Ed Harcourt, tra le righe di «Before the Poison», di «Give My Love to London». Nelle pause del lavoro musicale anche cinema, e non banale; ruoli regali come in Marie Antoinette di Sofie Coppola, dov’era la regina Maria Teresa d’Austria, o di desolata quotidianità come in Irina Palm, il più famoso, dove interpretava una povera donna che per pagare costose cure al nipote malato si umiliava a diventare lavoratrice del sesso.

Marianne Faithfull, vocal, performs at Carre on 13th May 1990 in Amsterdam, the Netherlands. (Photo by Frans Schellekens/Redferns)

L’ultimo album pubblicato è «She Walks on Beauty», 2021, raccolta di poesie di Lord Byron, John Keats, Percy Bysshe Shelley, William Wordsworth e altri poeti romantici, messe in musica da Warren Ellis con contributi di Nick Cave, Brian Eno, Vincent Segal. Un progetto accarezzato per decenni, rimandato e diventato poi non a caso una felice uscita di scena. Una volta di più, l’ultima, Marianne trae spunto dal passato per parlare di sé e della sua vita, della continua ricerca di bellezza, del chiaroscuro che non ha mai smesso di avvolgerne i passi. È come se George Byron l’avesse ammirata e descritta duecento anni fa. «Ella in bellezza incede, come la notte/di climi tersi e cieli stellati/ E tutto ciò che c’è di meglio in tenebra e luce/ s’incontra nel suo aspetto e nei suoi occhi». E nella sua voce, verrebbe da aggiungere.

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