C’è qualcosa di machiavellico, nel senso di buon temperamento tra virtù e fortuna, in Marcus Miller, quando in più di un’occasione nel passato si è riferito al concetto di «opportunità». I grandi spiriti, si sa, sono coloro che sanno cogliere il buon vento in poppa, ma parimenti sono disposti ad ogni sacrificio affinché quel fato si mantenga benigno. Miller l’ha fatto fin da ragazzino, rilanciando di volta in volta la posta in gioco nella sua carriera: dalla lunga collaborazione già ventenne con Miles Davis all’intensa attività di composizione, dall’ascolto accurato delle radici afroamericane all’arrangiamento piegato a linguaggi in continuo divenire. L’ha fatto con smagliante determinazione, non tirandosi mai indietro di fronte a sfide che declinassero la musica in impegno per i diritti civili ovvero lo portassero a suonare con un grande maestro come Stanley Clarke; un po’ come quando Dante, tirandola un po’ in alto, scelse di farsi accompagnare in viaggio da Virgilio.
Ma ben lontano dalle bolge fiorentine, la fortuna, l’opportunità di Marcus Miller arriva praticamente dalla culla. I luoghi segnano i destini, dice in più di un’occasione, e il suo luogo è Brooklyn dove è nato da un padre pianista classico, intensamente impegnato a suonare l’organo la domenica nella Chiesa Battista e gli altri giorni Beethoven e Brahms; da uno zio, Wynton Kelly, che risparmia all’estensore l’affanno di ogni ulteriore descrizione; da una mamma che amava cantare Ray Charles o Aretha Franklin con chiaro talento. E cosa vuoi fare nella vita se nasci in un ambiente del genere? Ha bruciato le tappe, Marcus, studiando come un matto, imparando velocemente il flauto, poi il clarinetto, poi il sax, poi il suo basso e a seguire qualunque altra sorgente sonora disponibile. Però a livelli altissimi, che lo rendono praticamente ospite fisso alle rituali cerimonie dei Grammy.
Delle sue prime opportunità raccontò lui stesso, con grande efficacia, a una lezione-concerto di qualche anno fa alla New York Steinhardt University: «A dieci anni ci siamo trasferiti nel Queens, un posto straordinario per la musica. Per come è fatta New York, non ogni zona, metti Manhattan, è dotata di case con i seminterrati, ma il Queens lo era e quando ero ragazzino i genitori, anche per sapere dov’erano e che facevano, incentivavano i figli con un po’ di passione per la musica a scendere giù, mettersi alla prova coi loro amici. E così abbiamo questa «cultura da seminterrato» per cui se facevi un giro per i palazzi vicini o svoltavi l’angolo sentivi quello che facevano gli altri, lo riportavi ai tuoi amici e si tentava di rifare quelle cose funk. Era una specie di gara, ma un gran bell’ambiente. Che posto! Ho avuto come compagno di classe Kenny Washington, che è un batterista strepitoso. Fu lui a dirmi a un certo punto: «amico, oltre al funk devi suonare jazz, perché lo fanno tutti i grandi musicisti», aveva la mia età ma era una specie di fratello maggiore per me, mi diede un po’ di cose da ascoltare, tra le quali c’era mio zio, Wynton Kelly, che non avevo mai ascoltato nei dischi ma che mi resi conto quale straordinario musicista fosse! Poi considera che nel Queens, Jamaica, dove abitavo, anche per i prezzi ben più abbordabili rispetto a Manhattan, attirava molti jazzisti: abbiamo avuto Count Basie, John Coltrane, Lenny White, Billy Cobham. Poi, quando ti sentivi pronto e formato, potevi tornare a Manhattan e quello era il posto giusto per i concerti, parlando di opportunità». Roba che per saperne il resto un autore di romanzi di formazione impazzirebbe. Come quella volta in cui non sostituì Jaco Pastorius nei Weather Report (in rotta di collisione con Joe Zawinul, nonostante i caldi inviti di Michał Urbaniak, »consigliere» del supergruppo), ma si ritrovò un intero giorno nella camera 219 del Sunset Marquis Hotel di Los Angeles, mentre era in tour con Roberta Flack, a massacrarsi le dita con Jaco, accettando la strana, faconda sfida di superbia tecnica lanciata dal ragazzone allampanato di Fort Lauderdale («Mi ha insegnato un lick che uso ancora dopo decenni oggi per riscaldarmi», dirà Marcus). Pastorius, del resto, non sprizzava di gioia a sentir parlare del giovane bassista di Brooklyn: «Ah, quindi sei tu… Mi avevano detto che c’era un ragazzino nero che sapeva suonare come me», fu la prima e non proprio calorosa accoglienza.
Marcus Miller oggi è un ragazzo di sessantaquattro anni, pork pie hat d’ordinanza, T-shirt nera che sagoma una forma invidiabile, abbracciato al suo basso color miele durante tutta la conversazione con Musica Jazz, sorridente e incline alla chiacchiera.
Allora, come sta andando il tour? A Roma ti aspettiamo a luglio, vedo che per ora stai presentando principalmente i pezzi di «Laid Black», il tuo ultimo nato in studio di pochi anni fa.
Il tour sta andando molto bene, ho una pausa di qualche settimana e poi si ricomincia. La cosa che mi sta rendendo particolarmente felice è vedere un gran numero di gente venire, partecipare, divertirsi. Bella soddisfazione. Per il repertorio, in realtà, stiamo suonando diversi pezzi composti nel corso della carriera, non solo da «Laid Black» ma anche da «Afrodeezia» e altro.
Come molti altri, hai iniziato la tua carriera come sideman di musicisti importanti, poi hai iniziato a registrare a tuo nome. Come cambia il ruolo dallo svolgere un «turno» al diventare leader?
Quando sei un sideman sei responsabile della tua parte; se sei un chitarrista o un bassista devi ascoltare gli altri e fare il tuo, aiutando l’artista a realizzare la sua visione. Ma quando sei l’artista, allora la visione è proprio la tua: devi ascoltare nel dettaglio tutti gli strumenti, focalizzarti su ogni singolo aspetto, sperando (e chiedendo) che ti possano aiutare a realizzare musicalmente ciò che vuoi trasmettere, il suono che hai pensato. E poi come leader, durante un concerto, sei pienamente responsabile delle emozioni e della comunicatività dello spettacolo. Se sei un sideman hai la tua set list e prendi atto di cosa devi suonare la sera, hai un’idea generica di ciò che accadrà e offri il tuo contributo, ma se hai il nome in cartellone devi portare le persone a fare il viaggio per cui hanno pagato, prendertene cura, assicurarti che stiano bene.
Sei circondato, in studio e dal vivo, da super musicisti. Come li scegli, al di là dell’ovvia abilità tecnica?
Parti dal fatto che mi piace mescolare stili e linguaggi e che quindi cerco persone interessate a questa direzione espressiva: capita magari di trovarmi in qualche jazz club, e ascolti, per dire, il trombettista: se mi piace il suo suono inizio ad interrogarmi se sappia suonare anche funky.
Scusa l’interruzione, a proposito di trombettisti, stai suonando con Marquis Hill che era presente in «Laid Black»?
No, in queste settimane con me c’è Russell Gunn, lo conosci? Ha suonato con un sacco di gente, in particolare ha fatto un’esperienza meravigliosa con Branford Marsalis, registrato con Wynton, è un musicista super versatile: passa dall’hip hop alle big band. Sono questi i caratteri dai quali vengo attratto.
Spesso in tour e in studio porti giovani talenti. In fondo, è quello che è successo a te con Miles Davis: eri giovanissimo. Quanto resta importante lo scambio generazionale nel jazz?
È fondamentale! Tu hai qualcosa da loro e loro hanno qualcosa da te; lo scambio consente di avere una prospettiva molto più profonda alla musica, perché i linguaggi sono in continuo cambiamento e allora occorre connettersi a nuovi tipi di mentalità, capire cosa succede. Io, dal canto mio, posso dar loro un’idea di cosa occorre per essere un musicista di successo: devono imparare che per fare bene questo mestiere bisogna imparare ad ascoltare.
Vedi, un sacco di musicisti vengono fuori dalle università negli ultimi tempi, ma non c’è alcun corso che spieghi loro come ascoltare o come rispondere, come entrare in contatto con gli altri musicisti; è questo a segnare davvero la differenza tra un musicista che inizia e uno che ha esperienza. Serve capire che è un lavoro vero e proprio, ascoltare, ripeto, e renderti conto se quello che stai suonando è adeguato in un certo contesto oppure stai andando per conto tuo.
È un discorso sul quale si cade spesso parlando con musicisti internazionali come te. Le scuole musicali in America e in Europa preparano musicisti bravi, ma che spesso suonano tutti uguali.
Sì, è così. Gira un sacco di uniformità, imparano tutti lo stesso repertorio, tutti fanno gli stessi esercizi, suonano gli stessi patterns. Anni fa, per dire, se eri un tipo che veniva da Saint Louis avevi un certo sound, se venivi da New Orleans o Chicago ne avevi ancora un altro. Ma ora i programmi sono più o meno simili e il risultato è una certa piattezza poco interessante. A me continuano ad attirare persone che cercano una loro via originale, un loro linguaggio.
Tu l’università l’hai dovuta interrompere per gli impegni del professionismo. Certo, a ventidue anni ti sei ritrovato a suonare con Miles in «The Man With the Horn». Che significa umanamente per un ragazzo essere chiamato da un mostro sacro?
Sai qual è il punto? È che a ventidue anni non sai di essere giovane! Ti rendi conto che eri così giovane solo quando sei più vecchio… Ero eccitato all’idea di suonare con Miles, ovvio, e anche preoccupatissimo di fare un buon lavoro. Ora, quando mi capita di riascoltare quel disco, mi viene una certa tenerezza per quel ragazzo che suonava il basso.
Riascoltandoti, ti piace il modo in cui suonavi?
Qualcosa sì e qualcosa no. Mi piace il fatto che ero piuttosto spericolato, avventuroso, ma altre cose mi convincono meno; di alcuni passaggi penso: «Uh, mica male questa cosa!», di altri mi dico: «Oggi non la rifarei mai!», ma alla fine fa parte della vita mescolare queste due componenti avventura-errore, diciamo che il risultato finale è un cinquanta e cinquanta.
C’è una cosa che mi incuriosisce del tuo periodo con Miles Davis, ed è che sei stato il suo produttore per «Tutu» e «Amandla». Il produttore è quello che spesso determina il successo di un album, prendendosi dei rischi e «governando» intemperanze e contrarietà dei musicisti. È stato difficile produrre Miles?
La cosa più difficile è ripensare al primo giorno, perché devi immaginare qualcosa che non sai se prenderà la giusta forma e direzione e il primo giorno è proprio quello in cui abbiamo registrato «Tutu»; sono rimasto tutto il tempo dubbioso, ma una volta che ho capito che lui stava cercando da me una direzione, allora tutto è andato meglio. A un certo punto mi ha detto: «Guarda che io so benissimo che tu sai cosa vuoi farmi fare, so che hai il sound del disco in testa, quindi dimmelo e basta!». Poi, dopo «Tutu» mi sono ritrovato a guidare la mia band per un paio d’anni; quella è stata una grande occasione per sviluppare meglio le mie capacità di scrittura, composizione, arrangiamento e quando sono tornato, più robusto nelle competenze, Miles mi ha detto di essere orgoglioso di vedere dove ero arrivato. «So che riesci ad ascoltarmi, a capirmi», mi disse, e da allora è stato più semplice dare una direzione ai progetti comuni. Alla fine, è stata un’esperienza magnifica, importantissima.
In quelle sedute in studio hai lavorato alla produzione con Tommy LiPuma, giusto?
Assolutamente sì. Abbiamo lavorato per «Tutu», «Siesta» (la colonna sonora del film del 1987 di Mary Lambert) e «Amandla». Non era male, sai, perché io ero seduto in studio accanto a Miles e ci confrontavamo sulla musica da registrare, provavamo qualcosa e gli chiedevo se andasse bene; Tommy era più in là, alzava solo il pollice in su o in giù (non molti in giù, per fortuna). Lavorare con lui era molto bello, perché, almeno dal mio punto di vista, si occupava della parte noiosa del lavoro di produzione, come il budget, prenotare lo studio e tutta la restante parte logistica, che è fondamentale, ma io così potevo concentrarmi solo su Miles e sulla musica.
Nella tua carriera hai arrangiato moltissimo per ogni tipo di ensemble, da big band a formazioni più piccole. Ha un metodo di lavoro? Inizi dalla sezione ritmica, dai fiati, oppure…?
Di solito dal pianoforte, a meno che non sia una musica centrata sul basso e allora lavoro da subito su quello. Ma il piano ha tutto dentro, come la chitarra: il basso, l’armonia, la melodia e il ritmo; passo un sacco di tempo sulla tastiera a trovare i voicings giusti e questo mi consente di immaginare cosa voglio che facciano i fiati e la sezione ritmica, quindi risulta più veloce scriverli. Il piano è un’orchestra.
È curioso che nella storia del jazz i bassisti siano tra i migliori arrangiatori in circolazione: credi ci sia un motivo?
Credo non riguardi solo i bassisti in senso stretto, ma anche chi suona altri strumenti bassi: ci sono trombonisti che sono straordinari arrangiatori. Detto questo, penso che il motivo sia perché batteristi e bassisti debbono ascoltare ogni suono; se entro in uno studio e sono il produttore mi trovo a dover scegliere di diverse take di un pezzo qual è il migliore e sai che faccio? Chiamo il batterista o il bassista. Non il chitarrista, perché lui ti dirà solo la take nella quale suona meglio! Lo stesso se chiamo uno dei fiati: ti dirà dove suona meglio lui. Bassista o batterista, invece, ti diranno quale take è venuta meglio come gruppo. Gioco un po’, ovviamente, ci ironizzo, ma tra bassisti e batteristi siamo un po’ più allenati a sentire la complessità del fenomeno musicale, perché facciamo da supporto agli altri musicisti, e questo ci dà un certo vantaggio come arrangiatori. Poi spesso i bassisti suonano il piano, che ha una visione completa; personalmente incoraggio ogni musicista a suonare il piano o almeno la chitarra, per avere una visione polifonica. Stanley Clarke o Jaco Pastorius lo suonano e lo suonavano benissimo, come anche Mingus o Christian McBride, è uno strumento davvero alle fondamenta del nostro essere musicisti.
Tra le altre collaborazioni sei stato per anni al fianco di Wayne Shorter. Come era farci musica assieme?
La morte di Wayne è stata una perdita incredibile. Mi sento onorato e benedetto di aver avuto questa opportunità nella vita. Sai, è strano, ho realizzato solo dopo la sua scomparsa quanto lo conoscessi; il mio incontro con lui risale agli anni Settanta, dai Weather Report: questa è la sua prima musica che ho sentito. Dopo di che è stato lui a chiamarmi all’inizio degli Ottanta, nel 1981 direi, e mi ha chiesto se mi fosse andato di suonare con i Weather Report, ma non è accaduto: da allora siamo rimasti in contatto fino alla fine. Abbiamo suonato molto negli anni Novanta, soprattutto in occasione dell’album «High Life» del 1995, ma prima di allora siamo andati in tour per un omaggio a Miles Davis. Oltre a Wayne c’erano Herbie Hancock, Ron Carter, Tony Williams, Wallace Roney e la mia band, siamo stati in tutto il mondo dal Giappone in poi e questa è stata un’occasione magnifica per parlare tanto con lui; ho il ricordo di un uomo gentile. Anche durante il lavoro in studio per «High Life» è stato meraviglioso, ma di quelle settimane il fatto straordinario è stato vederlo lavorare come compositore, parlargli dei dubbi compositivi. Gli chiesi quale fosse per lui la qualità principale per scrivere. Non rispose subito, si prese un po’ di tempo, poi mi disse che era l’uso dell’immaginazione; ho capito solo molto dopo quella pausa nella risposta, perché in mezzo c’è tanta roba che si deve attivare prima dell’immaginazione…
Suppongo che occorra una gran solidità per arrivare a fidarsi della propria immaginazione.
Certo. Ti racconto questo aneddoto. Una volta Quincy Jones mi disse: «Quando ti alzi la mattina e non sei ancora completamente sveglio, le prime immagini che arrivano sono quelle vere. Immagina di avere due piccoli uomini sulle tue spalle, uno a destra e uno a sinistra. Quello a destra è quello che ha tutte le idee creative, quello sulla sinistra è quello che ti dice che non funzioneranno mai. Ecco, serve che il tipo sulla spalla sinistra si svegli un’ora dopo!». Se tu immagini qualcosa la mattina presto e riesci a scriverla subito, allora funzionerà, altrimenti si sveglia quell’altro e inizia a riempirti di dubbi, ti dice che non sono idee buone! Così quando Wayne mi ha detto che il fattore principale per essere un buon compositore era l’immaginazione, per me è stato un regalo incredibile, qualcosa su cui continuare a credere, perché le idee pazze sono belle ed è quello l’obiettivo cui dobbiamo tendere.
Poi nel 2006 è arrivato S.M.V., il supergruppo lanciato a New York dalla rivista Bass Player con Stanley Clarke e Victor Wooten e con cui due anni dopo avete registrato e portato in tour «Thunder». È stato difficile mescolare il tuo linguaggio con quello di Stanley e Victor per un buon risultato musicale?
Allora, considera questo. Stanley ha fatto le sue prime apparizioni sulla scena negli anni Settanta. Io ho iniziato a farmi conoscere per lo più negli anni Ottanta e Victor nei Novanta, e così il risultato di suonare assieme era quello di tre generazioni musicali a confronto. Però Victor ha cominciato a studiare il basso a cinque anni e io a 12 o 13, questo vuol dire che alla fine entrambi eravamo molto influenzati da Stanley Clarke, il nostro modello e riferimento; ora, la parte difficile è stata suonare cercando di non essere troppo citazionisti, ovvi, imitatori del suo stile. Lui si aspettava da noi qualcosa di nuovo, ovviamente, e così ho raccolto le mie idee e mi sono detto: «Fa’ quel che sai fare», ma poi, che tu ci creda o no, era difficile anche ignorare le grandi cose che faceva Victor, nonostante fosse di una generazione successiva. Suonare con loro è stata una palestra per definire la mia identità, a concentrarmi unicamente su quello che potevo esprimere con il mio strumento. Forse è stato lo stesso per Victor.
Hai elaborato riarrangiamenti incredibili di vecchie canzoni, da Summertime in «Live&More» del 1998, a Que será será in «Laid Black» nel 2018. In che modo ti accosti a uno standard per proporre il tuo linguaggio senza tradire le radici?
Vediamo. Ci sono due modi in cui puoi sbagliare accostandoti a uno standard. Il primo è se fai più o meno la riproduzione di quello che esiste già: non serve. Il secondo è quello di alterare completamente il senso del brano, anche solo stravolgendone l’armonia, che è la cosa più semplice su cui si cade. Ma se ci lavori per bene, c’è una via di mezzo in cui riesci ad affermare la tua prospettiva e la canzone mantiene ancora intatta la sua essenza. Il jazz è un posto unico, dove esiste una tradizione che si ha la possibilità di reinterpretare continuamente, ed è importante rispettare questo dato: devi arrivare a spiegare alla gente chi sei veramente, ma consentendo che tutti arrivino a riconoscersi in qualcosa di noto. Prendi Summertime: probabilmente gli ascoltatori avranno sentito, attraverso una conoscenza pregressa, di trovarsi di fronte a una versione differente dalle altre, in cui chiaramente era distinguibile la mia personalità. Suonare uno standard jazz, però, resta un modo per rendere un omaggio alle tradizioni e onorare i grandi compositori del passato.
Prima di «Laid Black» hai fatto un album importante per molti versi, «Afrodeezia», nel 2015. È nato dopo un tuo viaggio in Africa e in quel progetto sui temi delle vecchie e nuove schiavitù è stato coinvolto l’Unesco. In fondo, il funk è nato anche, e non poco, come protesta a favore dell’affermazione dei i diritti civili. Secondo te, la musica ha ancora oggi un valore politico?
Certo che sì, ma con qualche differenza. Negli anni Sessanta o Settanta c’era un messaggio chiaro, per così dire; alcune volte più ovvio, altre volte dovevi ricavarlo dall’ascolto del ritmo, ma in quegli anni le questioni politiche sul tavolo erano molto chiare, specialmente per la condizione dei neri in America: c’era un problema enorme che si chiamava «uguaglianza» e la nostra musica era una celebrazione della cultura nera americana. Oggi i problemi sul tavolo sono più diffusi, quindi alcune musiche si indirizzano a un tema, alcune a un altro ancora; il risultato è che si è un po’ differenziato il focus, ma resto convinto che la musica sia un modo incredibile e potente per far arrivare un messaggio, perché le persone che ascoltano sono «aperte» e qualche volta i musicisti riescono a far vedere loro le cose in un modo in cui i politici non riescono. Aggiungo che, per esempio, gente come Dave Brubeck negli anni Cinquanta e Sessanta ha preparato il terreno in questo senso, facendo arrivare l’urgenza di questioni in modo più efficace della politica, in modo più profondo.
Un’ultima curiosità, stavolta tecnica. La Fender ha una linea di bassi Marcus Miller Signature, ma so che ti piace lavorare con diverse compagnie per progettare strumenti. A cosa stai più attento quando offri indicazioni di fabbricazione?
Chiaramente tutte le parti in causa lavorano insieme per costruire un ottimo prodotto: i pickup sono i microfoni dello strumento, i legni del corpo possono portare a suoni diversi, ma per me la cosa essenziale è la tastiera, il manico. Ed è proprio al manico che faccio caso da subito: mi ci devo sentire a mio agio, vedere che le dita si muovono bene.
Abbiamo lavorato qualche anno fa a uno strumento con un’azienda che si chiama Sire, e la prima cosa sulla quale ho chiesto loro di concentrarsi è stato proprio il manico. Come per un contrabbasso, anche sull’elettrico mi piace uno strumento che abbia capacità di risonanza.