Le Origini del Bop

Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Bud Powell… Erano poco più che ragazzi coloro che durante la Seconda guerra mondiale, spesso nei club della Cinquantaduesima Strada di New York, diedero alla luce il jazz moderno. Lo fecero studiando a fondo i colleghi della generazione precedente e poi elaborando una musica avventurosa, complessa e tuttora viva

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In cerca di un modo nuovo di scrivere le proprie irrequietezze, Jack Kerouac era stato illuminato dall’improvvisazione bop: ritmata, fluida e soprattutto spontanea. Ma suona molto strano il perché, proprio quando volle descrivere «dal di fuori» questa musica, l’autore di romanzi epocali come Sulla strada e I sotterranei abbia finito col produrre pagine deludenti. Ecco come apriva il suo breve saggio narrativo L’origine del Bop: «Il Bop è cominciato col jazz forse in un pomeriggio soleggiato da qualche parte su un marciapiede, forse nel 1939, 1940, durante una passeggiata di Dizzy Gillespie o Charley [sic!] Parker o Thelonious Monk, che, passando davanti a un negozio di abbigliamento maschile sulla 42a Strada o a South Main a Los Angeles, improvvisamente hanno sentito da un altoparlante un jazz folle, incredibilmente sbagliato, che poteva risuonare solo dentro la loro testa visionaria. Ed ecco nascere una nuova arte. Il Bop» (in L’ultima parola, edizioni Il Maestrale, 2003). Al di là del taglio enfatico, che pure potrebbe avere qualche minima attrattiva, quelle frasi non corrispondono a realtà. Kerouac ci mette un paio di forse, lascia in sospeso il nome del passeggiatore visionario, ma anche con queste toppe proprio non ci siamo. Perché il bop non nacque in un pomeriggio on the sunny side of the street ma ebbe una lavorazione piuttosto lunga. Le poche, primissime avvisaglie del cambiamento datano a poco dopo la metà degli anni Trenta e soltanto alla metà dei Quaranta il processo di costruzione si poté considerare ultimato. Alla fine del decennio, poi, l’impulso creativo cominciò lentamente a discendere dall’altitudine dove Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Bud Powell e compagnia bella lo avevano portato.

ADDIO ALLO SWING Nel dopoguerra, quando ebbe una certa diffusione, la nuova corrente venne battezzata con paroline ricavate dal canto scat: bebop, più di rado rebop, infine semplicemente B (e i suoi esponenti, di conseguenza, beboppers o boppers). I sottogeneri che ne deriveranno dagli anni Cinquanta a oggi avranno, di volta in volta, declinazioni estetiche e/o storiche: hard bop, neo-bop, post-bop. Il poeta Langston Hughes aveva dato una sua personale lettura etimologica: «Ogni volta che un poliziotto picchia un nero con il suo manganello, questo sembra dire: Bop Bop! Be Bop!».
Il saggio di Kerouac – come indica il titolo – tratta una delle vicende più affascinanti che la storia della musica abbia vissuto, la genesi del bebop, cioè del bop primigenio. E di quello che ha rappresentato: la fine del jazz come musica di consumo e l’inizio del jazz come musica d’ascolto. Secondo quanto raccontò Kenny Clarke, che in quei primi anni Quaranta era il principale innovatore della batteria, la parola bop non venne usata prima della fine della guerra; tra i musicisti si preferiva usare il termine «Modern». Un uso corretto: fu proprio il bebop che diede vita al jazz moderno. L’esibizione di una band smise di fornire intrattenimento, divertire, accompagnare i ballerini, come aveva fatto durante la Swing Era. La musica afro-americana diventava concerto. E non sarebbe più tornata indietro. Non è superfluo sottolineare che a raccogliere e sviluppare gli spunti dei precursori, cioè gli artisti più innovativi del jazz classico, furono dei ragazzi, o poco più.

Stando alle cronache dell’epoca, alle prime esibizioni di questi fondatori del bop corrispose un ampio spettro di reazioni: essi venivano considerati – per dire gli estremi opposti – scapestrati che andavano cacciati a forza da tutti i palchi oppure maghi formidabili che tiravano fuori dal cilindro quanto fino ad allora era inimmaginabile nel jazz. Certo, ad assistere alle loro esibizioni non è che vi fossero le code… Ma non mancavano mai jazzisti di altre parrocchie. A quel tempo, infatti, i bopper erano musicians’ musicians, artisti che interessavano molto più i colleghi che il pubblico dei non iniziati. Tra i frequentatori dei locali dove si suonava bebop, particolarmente entusiasti erano alcuni orchestrali del già navigato Woody Herman, come Neal Hefti, Sonny Berman e Chubby Jackson, veri sostenitori di questa svolta nel linguaggio del jazz e vicini ai bopper anche sul piano generazionale. La loro passione avrebbe presto lasciato il segno su un’orchestra fino ad allora legata allo spirito dello Swing. Il brano Caldonia (1945), con il celebre unisono di trombe in stile gillespiano scritto da Hefti, testimonia quanto lo stesso Herman considerasse ormai inevitabile un parziale smarcamento dallo Swing. Il cerchio si chiuse quando nel 1951 Charlie Parker si esibì (magnificamente) come solista ospite proprio dell’orchestra di Herman.

GEOGRAFIA DI UN MOVIMENTO Come per le fasi che lo avevano preceduto nella storia del jazz, anche per il bebop la geografia ebbe grande importanza. Le origini dei bopper erano distribuite in molti angoli degli Stati Uniti, come vedremmo dispiegando una mappa e appuntandovi sopra una bandierina per ogni musicista di rilievo. Le bandierine finirebbero sui seguenti Stati: Carolina del Sud (Dizzy Gillespie), Kansas (Charlie Parker), Illinois (John Lewis e Miles Davis), Carolina del Nord (Thelonious Monk e Max Roach), Stato di New York (Bud Powell, Duke Jordan, Curly Russell e Sonny Rollins), Massachusetts (Sonny Stitt), Pennsylvania (Art Blakey, Kenny Clarke, Tommy Potter, Red Rodney e Dodo Marmarosa), Oklahoma (Howard McGhee e Wardell Gray), Florida (Fats Navarro), Indiana (J.J. Johnson), Michigan (Milt Jackson), New Jersey (Al Haig), Ohio (Tadd Dameron), California (Dexter Gordon). In tutto quattordici Stati. I fondatori del jazz moderno avevano ciascuno un proprio bagaglio culturale e una storia che poteva intrecciarsi a quelli dei colleghi.
Charlie Parker, Fats Navarro e Bud Powell, ad esempio. Avevano origini diverse ed ebbero modo di mescolarle sul palco in alcune occasioni, come quella strepitosa al Birdland nel maggio 1950 (che per fortuna venne registrata). Parker veniva da Kansas City che, oltre a essere uno dei cuori pulsanti del jazz anni Trenta, aveva mantenuto un solidissimo legame con il blues. In quella città, inoltre, aveva messo radici la pratica del riff, breve frase musicale ripetuta a scopi propulsori; pratica, in seguito, assai diffusa nel rhythm & blues e persino nel rock (vedi la chitarra in Satisfaction dei Rolling Stones o, per restar più vicini, quella che apre Zitti e buoni dei Måneskin). Navarro, invece, proveniva da Key West, estrema propaggine della Florida, luogo dove si è già quasi con un piede nei Caraibi. L’influenza della musica soprattutto cubana si nota nel timbro del trombettista, un timbro pieno, «calorico», accompagnato da un innato senso della melodia. Quanto a Bud Powell, i suoi assoli nervosi, pulsanti e movimentati si possono leggere anche come una immagine di New York, dove era nato (nel quartiere di Harlem, per la precisione). Parker, Powell e Navarro assieme, dunque, costituivano l’incontro di tre mondi. Si potrebbe andare ancora avanti ricordando che Dizzy Gillespie nacque e crebbe in una piccola cittadina del Sud (ma non quello Profondo) mentre Sonny Stitt veniva dalla colta Boston, e così via
I vettori a bordo dei quali gran parte dei futuri bopper finì presto o tardi per convergere su New York furono le grandi orchestre, nelle cui file gran parte di loro militava. La cosiddetta Big Apple era ormai la centrale elettrica che dava energia alla scena del jazz. Anche qui ricorriamo alla geografia. Se dalla mappa generale degli Stati Uniti facciamo una forte zoomata su Manhattan possiamo individuare i localini frequentati dai jazzisti a partire dalla seconda metà degli anni Trenta. Se le orchestre, in genere, potevano essere ascoltate nelle sale da ballo o anche nei cinema (tra una proiezione e l’altra), chi amava avventurarsi in cerca di un jazz più genuino e non «di consumo» era proprio ai club che doveva approdare: cioè là dove, finito l’impegno serale con le big band, jazzisti di ogni natura ed età facevano le ore piccole a suon di jam session, liberi dalle rigidità che la musica per orchestra imponeva. I club erano al centro di una dinamica circolazione di idee che continuava a notte fonda, tanto che la Cinquantaduesima Strada West fu chiamata «la strada che non dorme mai». Ce n’erano di famosi, come l’Onyx Club, il Three Deuces e il Club Samoa. Tutti i jazzisti dell’epoca passavano di lì, anche solo per ascoltare e bere qualcosa. E i futuri bopper? La musica che stavano immaginando e pian piano esplorando era troppo avanzata anche per quelle oasi di libertà. Al Famous Door il sassofonista e leader Benny Carter, si sentì chiedere nel 1942, da gente che non tollerava sperimentazioni, di licenziare Dizzy Gillespie perché suonava troppe «note sbagliate». Ancora a Gillespie, suo dipendente per breve tempo, il popolare cantante e caporchestra Cab Calloway aveva gridato di smettere con «quella musica cinese», e tra i due scoppiò un litigio furibondo: si arrivò alle mani.
Gli unici due club che accettavano sulle loro pedane anche i futuri bopper – il Minton’s Playhouse (al primo piano dell’Hotel Cecil) e la Clarke Monroe’s Uptown Playhouse – non si trovavano in quella parte di Manhattan ma lontano e più su. Per localizzarli sulla mappa, bisogna risalire con il dito verso nord, superare gli oltre quattro chilometri di lunghezza di Central Park e approdare al quartiere nero di Harlem.

LA PORTA DI SERVIZIO I bopper trovarono anche un nuovo modo di presentarsi che, nonostante le apparenze, era più che una moda: il basco (scelto perché avevano appreso che a Parigi lo portavano gli artisti), gli occhiali con la montatura di corno, quelli con le lenti scure, il goatee (che all’epoca era solo il ciuffetto di peli sotto il labbro inferiore). Non tutti i bopper seguivano questo look, ma si trattava di segnali peraltro importanti mandati in prevalenza dai musicisti neri. Adesso il jazzista si considerava, giustamente, un artista e un uomo di pensiero, non più l’ingranaggio – per quanto ben funzionante – di una band commerciale. Le orchestre Swing venivano viste sempre più come mezzi per guadagnarsi pane e visibilità. Le motivazioni di questo cambio di mentalità non si esaurivano all’interno del perimetro musicale. La questione razziale ebbe un peso determinante sotto vari aspetti e il bebop nacque come movimento dall’identità squisitamente afroamericana, come sottolineava Langston Hughes, anche se vi presero parte alcuni giovani bianchi. I grandi leader dello Swing, a quel tempo popolari e remunerati come le odierne stelle del pop-rock, erano bianchi che avevano rese commerciali, quindi vendibili, parecchie idee della cultura musicale nera. Inoltre, facevano ampio uso di jazzisti neri, e non solo come bassa manodopera. Benny Goodman, per fare l’esempio più famoso, aveva assoldato Fletcher Henderson, uno dei grandi arrangiatori per big band dell’epoca; e aveva anche creato un quartetto di successo nel quale figuravano Teddy Wilson e Lionel Hampton.

Certo, grazie a queste scritture nelle orchestre bianche i migliori jazzisti neri avevano modo di farsi conoscere al di là dei circuiti destinati agli afro-americani. Ma l’altra faccia della medaglia immortalava artisti perfino di primissimo livello – come Roy Eldridge e Billie Holiday – mentre erano costretti a entrare nei teatri dalla porta di servizio. Non parliamo, poi, delle tournée nel Profondo Sud, razzista, ignorante e violento… Questo era il drammatico dato di fatto. Nemmeno il pugnace Artie Shaw, che si era battuto affinché la Holiday venisse trattata al pari degli altri suoi orchestrali, riuscì a correggere la situazione. L’emarginazione razziale non venne scalfita neppure dalla Seconda guerra mondiale. I militari afro-americani combatterono né più né meno dei loro commilitoni bianchi, ma una volta congedati tornarono alle condizioni sociali ed economiche di sempre. Né ottennero alcun aiuto in quanto reduci di guerra.

Il bebop, in un certo senso, mise le cose in chiaro. I suoi esponenti continuarono il precario lavoro nelle orchestre – bianche o nere che fossero – ma aprirono un nuovo spazio espressivo per se stessi. Dizzy Gillespie avrebbe condensato il tutto in una frase: «Il bebop era il nostro modo di sentire il jazz». A corollario si potrebbe aggiungere ciò che il bandleader Jay McShann disse di Charlie Parker e che si potrebbe estendere a tutti i primi del bop: «Considerava la musica con molta serietà».

PRES & BIRD Il giovanissimo Charlie Parker, quando viveva ancora a Kansas City, era un fan di Lester Young, il più «irregolare» e il più avanzato dei sassofonisti tenore dell’epoca, solista di spicco nell’orchestra di Count Basie. Billie Holiday lo aveva soprannominato The President – poi abbreviato in Pres – per onorarne l’importanza. Parker ne ascoltava i dischi in modo ossessivo, soprattutto quelli del 1936 con il gruppo Jones-Smith Inc., addirittura rallentando la velocità del piatto del giradischi per poter carpire ogni minimo segreto di uno stile che influenzerà le generazioni immediatamente successive. Parker era già agli inizi un maniaco della perfezione. In quegli anni praticava ciò che i musicisti americani chiamano woodshedding: che consiste nell’affrontare una frase o un passaggio particolarmente difficili, ripetendoli ostinatamente fino a quando non si riesce a eseguirli con naturalezza. Parker aveva fatto woodshedding anche di se stesso. Nel 1946 incise in studio un brano scritto da Gillespie, A Night In Tunisia, e la sua breve improvvisazione senza accompagnamento ne ha fatto un pezzo passato alla storia: un acrobatico break nel quale il suo sassofono è come se si librasse nell’aria. Esistono anche svariate versioni dal vivo, e in tutte Parker ripete nota per nota questo suo volo; esaurito il quale – questo è un altro aspetto meraviglioso – torna sulla terra con la massima nonchalance. Non a caso Parker, quando a diciott’anni aveva cominciato a suonare nell’orchestra di Jay McShann, era stato soprannominato Bird (uccello) o Yardbird (uccello da cortile): per il gusto con il quale mangiava il pollame ma soprattutto perché le sue improvvisazioni erano aeree come quelle di Lester Young. Quando era con McShann, inoltre, al momento del suo assolo in Oh, Lady Be Good! ripeteva ogni sera quello che Lester aveva improvvisato su quella canzone. Sotto certi aspetti, quando si parla di bebop sarebbe opportuno parlare di evoluzione più che di rivoluzione. Per ciascuno di quei ragazzi, infatti, il punto di partenza erano i musicisti più anziani che nei loro assoli forzavano il conformismo delle big band bianche. O che comunque tentavano di rinnovare l’assolo. Lester Young aveva articolato uno stile in chiara antitesi con quello «muscolare» corrente, codificato da Coleman Hawkins: preferiva il legato allo staccato, un vibrato quasi inesistente, un timbro diafano anziché stentoreo e frasi lunghe che si libravano leggere sopra la suddivisione del brano. Timbro a parte, Parker sviluppò la lezione lesteriana in quella che è una delle procedure dell’assolo bop: la linea melodica abbandona ogni obbligo nei confronti delle battute, cominciando e finendo dove vuole l’improvvisatore. Bird fece anche di più: non solo utilizzava intervalli più alti, ma combinava linee fluenti e frasi segmentate. Eppure, la sicurezza del suo fraseggiare riusciva a mantenere coerenza, equilibrio e una geometria perfetta.

IL PERIODO MANCANTE Chiunque si trova a raccontare il jazz dei primi anni Quaranta incontra, a un certo punto, un buco incolmabile. Si tratta del «Recording Ban», quando cioè il presidente dell’American Federation of Musicians (AFM), il combattivo James C. Petrillo, «montando una campagna sul modo in cui i jukebox e le radio minacciavano la sopravvivenza dei musicisti professionisti, proclamò uno sciopero nazionale per qualsiasi ulteriore registrazione da parte dei suoi membri» (William Howland Kenney, Recorded Music in American Life, Oxford University Press, 1999). L’AFM si batteva affinché ai musicisti impiegati nelle registrazioni venisse corrisposto, oltre al normale salario, un compenso per gli utilizzi successivi del loro lavoro. Petrillo fece qualche eccezione per i dischi che avevano scopi non commerciali: come i V-Disc, realizzati per conto dell’esercito e destinati a far sentire aria di casa ai militari che combattevano in Europa. Di fronte al nulla di fatto nelle trattative, Petrillo fece partire il Primo agosto 1942 uno sciopero che resterà il più lungo realizzato nel mondo dello spettacolo. Durò, infatti, fino all’11 novembre 1944. Per la crescita del bebop proprio quel periodo fu cruciale e purtroppo ce lo siamo perso tutto. Come se di una persona non restassero tracce, documenti, fotografie relativi a ben due anni e tre mesi della sua infanzia.

PADRI E FIGLI Se Parker ascoltava con tutto l’amore possibile Lester Young, anche altri musicisti del jazz classico furono presi a modello dalla giovane comunità degli innovatori. Si può dire che ai suoi anni verdi il bebop era bifronte, con una faccia rivolta al passato, ai padri, e una che guardava al futuro. Tra i precursori, Jo Jones, vera colonna dell’orchestra di Count Basie, aveva già messo in pratica un modo nuovo di tenere il tempo, trasferendolo dal rullante e dalla grancassa allo hi hat (o charleston). Così tutto diventava più agile, meno rigido, più leggero. Kenny Clarke, che tra i fondatori del bebop era il più anziano, ne fece progredire molto lo stile, spostando la scansione del tempo dallo hi hat al piatto ride e arricchendo l’accompagnamento con interventi a sorpresa del rullante e soprattutto della grancassa. Sarà stata l’epoca, ma quei colpi imprevedibili di grancassa erano stati soprannominati bombs… Fu una conquista di libertà e a fare il passo successivo sarà Max Roach (anch’egli bopper della prima ora) dagli anni Cinquanta in poi.

A ispirare Dizzy Gillespie fu, invece, il trombettista Roy Eldridge, che negli anni Trenta veniva considerato un fenomeno grazie a una preparazione tecnica capace di ogni avventura. Veloce, brillante negli attacchi, Eldridge aveva dato alla tromba jazz una specie di maturità giocosa. Con lui lo strumento accrebbe la propria estensione senza che il sound ne risentisse, persino nel registro più acuto. Gillespie ne riprese il gusto delle acrobazie, la capacità di lanciarsi dall’acuto al grave – come in un bungee jumping -, ma aggiungendo arabeschi tutti suoi e una complessità ritmica e armonica definitivamente moderna. Fats Navarro era della stessa famiglia però con qualcosa di diverso: nei suoi assoli c’erano meno fuoco, meno sfrenatezze, nessuna «piacioneria», ma un potente, inarrivabile senso della melodia che ne ha fatto un paradigma per gli anni Cinquanta (Clifford Brown, Booker Little, Lee Morgan). Dal canto suo, il giovanissimo Miles Davis, a lungo trombettista di Charlie Parker, rispettò l’ortodossia del bebop ma senza sentirla veramente propria – anche per limitazioni tecniche – finendo quindi per aderire da protagonista a quella variante più calma ed equilibrata del bop chiamata cool jazz.

Il pianoforte jazz ha nel bebop due colonne che stanno agli antipodi fra loro: Thelonious Monk e Bud Powell. Del primo, che in gioventù fu il pianista della sezione ritmica stabile al Minton’s, si discute tuttora se debba essere considerato parte del movimento bop. Il suo stile manca totalmente di velocità, al diluvio di note sancito dal bebop contrappone un’architettura spigolosa, asciutta, disadorna, fatta di suoni e di silenzi. Fino a sembrare una scheggia impazzita del pianismo pre-boppistico. Monk, infatti, aveva metabolizzato l’energia dei pianisti gospel, il Duke Ellington più «percussivo» e lo stride piano, uno stile saltellante che si era imposto a partire dagli anni Venti. Ma con queste premesse, è davvero possibile trattare Monk all’interno del bebop? Forse per alcuni tratti soltanto: quelli storici e ambientali – i club di Harlem ai primi anni Quaranta –, l’adozione del piccolo gruppo come format ideale, l’essere la sua musica del tutto estranea allo show business, un campionario di invenzioni che tuttavia il jazz non assimilerà che a partire dagli anni Sessanta.
Più ampie sono le ascendenze di Bud Powell, una delle vite più tragiche nella storia del jazz. Nato in una famiglia di musicisti, studiò gran parte dei pianisti che lo avevano preceduto – Billy Kyle, Teddy Wilson, Art Tatum, Nat Cole, Earl Hines, il «fratello maggiore» Monk – e anche un po’ di musica classica fino a maturare uno stile del tutto inedito che diventa il canone del pianismo bop: la mano sinistra crea accordi imprevedibili, fortemente ritmici, e sulla loro spinta la destra dà vita a linee melodiche che riformulano sulla tastiera quelle parkeriane e gillespiane, sommandovi una drammatica complessità. Questo modo di agire avrà un meraviglioso riscontro nelle composizioni dove Powell, con un senso della struttura probabilmente maturato dall’ascolto di Bach, scriverà una vera e propria autobiografia (come Hallucinations e Glass Enclosure).

Thelonious Monk, ricordando i suoi anni come pianista stabile del Minton’s, avrebbe dichiarato: «Non avevo la sensazione che qualcosa di nuovo stesse per nascere». Questo probabilmente perché il locale era un porto di mare dove passavano musicisti di varie generazioni e tendenze diverse, compresi i giovani del nascituro bebop, tutti insieme per il piacere di suonare in jam session fino alle quattro del mattino (quando il Minton’s chiudeva). E anche perché negli andirivieni era ancora facile equivocare per una bizzarria quel «qualcosa di nuovo» che incominciava a muoversi sul palco. Di certo, uno di coloro che tentarono nuove strade fu Charlie Christian, l’uomo che nel jazz ha portato in primo piano la chitarra elettrica. Solo per un soffio la varietà di soluzioni da lui inventate in assolo non poté incanalarsi nella fondazione del bebop. Christian, infatti, dopo avere passato l’ultimo anno di vita al Minton’s (ci restano registrazioni di fortuna), fu stroncato a soli 25 anni dalla tubercolosi.

Dizzy Gillespie fu il primo ad accorgersi che occorreva lasciare i locali di Harlem se si voleva far compiere al bebop un salto di qualità. Riuscì, così, a ottenere per il suo gruppo condiretto col contrabbassista Oscar Pettiford un ingaggio all’Onyx Club, Cinquantaduesima Strada. Ma accanto ai locali di New York non va dimenticato, infine, il ruolo delle grandi orchestre nere. Diretti da Jay McShann, Earl Hines, Teddy Hill, Cab Calloway, Cootie Williams, Andy Kirk si fecero le ossa e in qualche caso si incontrarono nelle loro file quasi tutti i futuri bopper. Per circa un anno Parker e Gillespie lavorarono insieme nella band di Hines. Nel tempo libero si scambiavano idee; si scambiavano perfino i fogli con le rispettive parti, per scoprire se mutare la «prospettiva» avrebbe portato qualcosa di inedito. Il cantante Billy Eckstine ebbe l’idea di ingaggiare molti bopper quando dal 1944 al 1947 tenne in vita una propria orchestra. Passarono da lì Gillespie, Pettiford, Navarro, Wardell Gray, Art Blakey, Miles Davis, Sonny Stitt. Eckstine, però, non impiegò i loro talenti che per una musica ancora commerciale. Non durò molto. La crisi economica provocata dalla Seconda guerra mondiale, e il fatto che ora le star erano diventati i cantanti, avevano già fatto colare a picco quasi tutte le orchestre, una ad una. La stessa sorte toccherà a quella di Eckstine e alla big band di Gillespie.

UN GIRO IN MASCHERA Una delle più famose e avventurose composizioni di Charlie Parker, Ko-Ko, venne registrata nel novembre 1945. I musicisti erano finalmente tornati negli studi dopo la conclusione del «Recording Ban» e la session con Parker come leader fu una delle prime a fissare la nuova musica. Nonostante i limiti commerciali del bebop, la Savoy fu una delle pochissime case discografiche disposte a scommetterci. Ma quando Parker mise in scaletta Cherokee, un popolare fox-trot scritto dal bandleader inglese Ray Noble, il produttore Teddy Reig bocciò la proposta perché non voleva pagarne i diritti d’autore. Propose a Parker di costruire sopra lo stesso giro di accordi una melodia completamente nuova. Ne uscì un pezzo spigoloso che sembrava fuori da ogni logica; per giunta, aveva un tempo infernale. Ma una logica c’era e stava proprio in quella successione di accordi che facevano da fondamenta.

Il fatto che il bebop fosse bifronte – tra passato e futuro – lo ritroviamo anche nella scrittura. Una musica centrata quasi esclusivamente sull’assolo non aveva bisogno di ulteriori complicazioni sul pentagramma. I primi del bop preferirono ricorrere ai giri armonici in voga negli anni Trenta e da loro lavorati sera dopo sera durante la gavetta nelle grandi orchestre, mascherandoli. E aggirando i diritti d’autore. Ne uscirono temi spesso scritti sul momento e – per così dire – «di bandiera», cioè tipici dell’estetica bop, soprattutto in riferimento al tempo di esecuzione. «La prima innovazione del fraseggio bebop che colpisce è la velocità: non che prima non ci fossero pezzi jazz ultraveloci, ma erano eccezioni fatte per stupire, iperboli cinetiche di sensazionale virtuosismo. Ora invece la velocità diventa un tratto caratterizzante (…) All’estremo opposto le ballad si fanno più lente, più silenziose e intime, e non di rado perdono il carattere romantico» (Stefano Zenni, Storia del jazz, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, 2012).

Le sequenze di accordi più celebri provenivano da: lo sfruttatissimo I Got Rhythm (trasformato in Anthropology, Dizzy Atmosphere, Salt Peanuts, Ow!, Shaw ‘Nuff, 52nd Street Theme, Moose The Mooche, Chasin’ The Bird), How High The Moon (Ornithology, che addirittura prende a prestito anche una frase di Dickie’s Dream di Basie e Lester Young), Indiana (Donna Lee, Ice Freezes Red), Honeysuckle Rose (Scrapple From The Apple), Whispering (Groovin’ High).

La titolazione, come si può vedere, puntava spesso su giochi di parole o termini scientifici. Gillespie amava gli umoristici nonsense (Oop Bop Sh’bam, Oop-Pop-A-Da, Ool-Ya-Koo) per brani che prevedevano anche un ritornello vocale, eseguito da egli stesso con impassibile serietà (almeno agli inizi). Di Thelonious Monk ci restano titoli arcani: Evonce, Humph, Suburban Eyes, Misterioso. In generale vigeva una certa astrattezza, in particolare se paragonata al «realismo» del jazz precedente.

Oltre alla scelta di utilizzare strutture che lo Swing aveva rese familiari, il bebop adottò altre semplificazioni. In sostanza, per portare avanti il «progetto» dovette eliminare ciò che considerava superfluo. Alleggerire il bagaglio. La musica trovò nel piccolo gruppo – in genere tromba, sax, piano, contrabbasso e batteria – il suo habitat naturale. L’unica esperienza orchestrale sarà quella, di breve ma intensa durata, varata nel 1946 da Dizzy Gillespie, non a caso l’unico dei boppers a essere tagliato per gli impegni organizzativi. Se i piccoli gruppi avevano più strumenti a fiato, erano questi che eseguivano il tema e sempre all’unisono, senza contrappunti, armonizzazioni, eccetera, ma con un ruvido spirito di concretezza. A conferma che, come quando si viaggia, less is better. Solamente Bud Powell e Tadd Dameron smontarono queste regole attraverso una maggiore articolazione in fase di arrangiamento.

Le invenzioni citate finora hanno dato vita a un linguaggio così importante che avrebbe attraversato i decenni, fino a oggi, entrando – per così dire – nel mainstream.

BLUES IN MY SOUL Nonostante il senso di cooperazione che durante la performance connetteva i musicisti, si può dire che nel bebop la predominanza dell’assolo ha messo l’individuo al centro della scena. Era questa, in fondo, la lezione fissata dagli antichi cantanti di blues e riaffermata negli anni Venti da Louis Armstrong: suonare (o cantare) diventa sinonimo di confessione, memoria, autobiografia. E dramma personale. I’ve got the blues, letteralmente «Ho il blues», è un’espressione idiomatica americana che significa «Sono triste», «di cattivo umore». L’irrefrenabile vitalità del bebop, il suo essere un modo di vivere e di far musica sempre sopra le righe, portava nel profondo di sé l’amarezza del blues. Proprio Charlie Parker rimane espressione altissima dell’attaccamento alle radici del blues.

Furono molti i bopper che ebbero una vita difficile, a volte con epiloghi tragici. Ben pochi si sottrassero a droghe e alcol. Non mancarono i disturbi mentali, il carcere, i malinconici tramonti, le morti premature. Era stata la somma di più forze – il momento storico, il razzismo «di sistema», la precarietà del lavoro – a spingere l’epica del bebop verso un quadro di autodistruzione.

Il sassofonista Lee Konitz, uno dei massimi esponenti del cool jazz, frequentava assiduamente i boppers ma non diventò mai uno di loro perché trovava che la loro musica fosse «un po’ troppo spettacolare, un po’ troppo intensa». Ecco il punto: l’eccesso di intensità che i primi del bop avevano messo nelle loro creazioni, alla lunga finì col rivelarsi, per molti di loro, insostenibile.

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