Kyle Eastwood: Symphonic

A 55 anni di età e dopo 25 di carriera musicale, Kyle Eastwood affronta finalmente in maniera approfondita le musiche legate ai tanti film del padre, una delle figure fondamentali nella storia del cinema. ecco cosa ci ha raccontato a Perugia, in concomitanza con la presentazione dal vivo del disco.

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«Life can be so sweet, on the sunny side of the street», verrebbe da canticchiare con in testa la voce di Sinatra dopo aver incontrato Kyle Eastwood. Classe 1968, nato a Carmel-by-the-Sea, uno dei luoghi della California benedetti dal sole, dalla natura e dall’intensa presenza di artisti che via via ne hanno popolato le strade, si è ritrovato ai primi moti di pupilla circondato da immagini, suoni, creatività. 

Clint, d’altro canto, come lo chiama alternativamente a «papà», viene raccontato come un uomo decisamente straordinario, indefettibilmente evocativo d’ammirazione per facondia e genio. Non sembrerebbe proprio esserci spazio per Edipo, né Re né a Colono, e nemmeno per Hermann Kafka, che il figlio Franz omaggiò di una delle più demolitorie lettere contro la figura paterna. E se proprio nei paraggi della letteratura ci si volesse intrattenere, bisognerebbe piuttosto far riferimento a Telemaco, il figlio che raccoglie gli ideali etici, in cui la dimensione normativa del padre si addolcisce nella consapevolezza della circolarità dei valori. Clint, di par suo, lungi dal proporre il «modello Icaro», altro archetipo freudiano d’elezione, fin dai primi anni ha spinto il figlio a perseguire il proprio obiettivo di diventare un musicista, lo ha voluto al proprio fianco per lavorare alle colonne sonore dei suoi film con Ennio Morricone o John Williams. Addirittura lo stesso concerto per presentare l’ultimo nato, «Eastwood Symphonic», è puntellato dalle proiezioni di filmati in cui il novantatreenne padre, acciambellato in una comoda poltrona su sfondo diafano e serenante, racconta le virtù del figlio che annuendo ricambia grato (dalla poltrona gemella). 

Quella di Kyle Eastwood è insomma, per così dire, la contro istantanea delle biografie disgraziate del jazz, in cui tra iella, dipendenze, stenti e ostilità razziali si è costruita la storia o la mitologia di questa musica. Sarebbe tuttavia un errore derubricare, per un certo pregiudizio che grava sulle storie felici, la musica del californiano ad un fatto di pura coincidenza. Consapevole o meno del teorema machiavellico teso a bilanciare fortuna e virtù, Kyle ha con ostinazione inseguito ogni palla e speso ogni energia per guadagnarsi un colore tutto suo. Talmente preoccupato, piuttosto, di meritare la fortuna familiare, da imporsi di studiare, viaggiare, comporre e suonare senza concedersi pit-stop, perché nessuno potesse obiettare nulla al suo livello artistico, fissando per sé l’asticella della qualità ad altezze più che considerevoli.  

Dall’album di esordio, «From There to Here», sono passati venticinque anni; nel frattempo, un numero incalcolabile di presenze sui palchi internazionali, alcune prove attoriali e soprattutto una intensa collaborazione al fianco di Clint, per il quale ha scritto musiche destinante alla memoria tra cui Mystic River, Million Dollar Baby, Invictus o Gran Torino. Dal primo settembre, invece, presentato in anteprima europea in apertura di Umbria Jazz ’23 all’Arena Santa Giuliana, è disponibile il progetto più ambizioso: «Eastwood Symphonic» (PIAS), un omaggio in grande stile al lavoro di Clint, cavalcando i temi più celebri delle sue pellicole con l’Orchestra Filarmonica di Praga, arrangiata da Gast Waltzing, e dai membri del suo quintetto, che lo accompagnano al basso: Quentin Collins (tromba), Brandon Allen (sassofoni), Andrew McCormack (piano), Chris Higginbottom (batteria). 

«Vaste programme!», avrebbe detto De Gaulle vedendo la tracklist dell’album: si va da Fistful of Dollars a Bridges of Madison County, da Letters From Iwo Jima a Flags of Our father, che tuttavia Kyle destreggia con credibilità, merito anche del suono brillante, curioso, evocativo che rende più che riconoscibili i paesaggi sonori, tra tradizione e modernità, in cui preferisce soggiornare.  

Partiamo subito da «Eastwood Symphonic» che, nella migliore delle tradizioni, si apre con una lussureggiante Overture, immagino non sia stata semplicissima da arrangiare

Ci apriremo anche i concerti, sì. La maggior parte del lavoro devo dire che l’ha fatta Jean-Jacques Mailliet, mi piaceva l’idea di tutte queste piccole cellule melodiche e frammenti di temi cinematografici famosi mescolati tra di loro. In apertura non suono con il quintetto, c’è solo l’orchestra, noi entriamo dopo. 

Hai lavorato su tanto materiale, a partire dalle classiche musiche di Ennio Morricone, è stata anche un’occasione per scendere più nel profondo di quel tipo di scrittura?

Sì, certamente, il lavoro è stato appassionante. Si tratta, come immaginerai, di musica con la quale sono cresciuto, la ascolto da quando ho memoria. Nell’album ho voluto mettere alcuni pezzi di Ennio, ma anche alcuni scritti da me, come Gran Torino, e altri composti da Clint. Il risultato sono una manciata di brani che hanno attraversato tutta la sua carriera, dai western italiani a quelli più recenti; è stato divertente metterci mano, perché l’intenzione non era quella di farli suonare come sono nel disco e come li ricordiamo nei film, ma trovare un suono con il mio quintetto jazz che potesse incastrarsi bene con l’orchestra, portando l’ascoltatore in un terreno meno conosciuto. 

Williams o Morricone, tanto per fare i nomi maggiori, hanno emancipato le musiche da film da un certo pregiudizio che le voleva, in qualche modo, non allo stesso livello delle composizioni classiche.

Quando si tratta di un film, credo che la gente spesso non si renda conto di che ruolo fondamentale giochi la musica per la sua riuscita. Se tu la levassi all’improvviso, non avresti nessun coinvolgimento sullo sviluppo dei personaggi e della storia. Nel caso poi di autori come Ennio, che dire, ha scritto temi di grande bellezza ed è come se calzassero perfettamente a quelle scene, descrivendone o tirando fuori le emozioni legate a quel momento. Tra l’altro, come immaginerai, sono cresciuto con quelle musiche nelle orecchie, ho amato moltissimo Once Upon a Time in America, Cinema Paradiso o Mission, c’è un livello di composizione davvero alto. 

Comporre e suonare colonne sonore richiede una formazione musicale piuttosto dura.

Certamente è bene avere una preparazione, anche classica, a scuola, ma in realtà, almeno per la mia esperienza, quello che gioca un ruolo fondamentale è avere un buon maestro e lavorare sul campo. Io ho avuto la fortuna di avere un grande mentore come Bunny Brunel, che mi ha preso sotto la sua ala e che, oltre ad insegnarmi, mi ha circondato di musicisti con i quali potermi confrontare. Considera che lui aveva già suonato con Chick Corea nel 1978, credo; non prendevo lezioni solo da lui, ma Bunny era quello che mi spingeva a studiare le cose per le quali mi rivelavo pigro: lettura, esercizi tecnici, leggere e imparare con la sua guida è stato fondamentale. Invece, quando si è trattato di lavorare per il cinema, il mio riferimento è stato Lennie Niehaus, che ha orchestrato alcuni dei film di mio padre. In quegli anni passavo un mucchio di tempo ad ascoltare dischi e a vederlo lavorare, imparavo moltissimo solo osservandolo e questo mi ha dato la spinta, piano piano, a fare qualcosa di mio. 

Kyle Eastwood

Imparare dai dischi sembra ancora essere il metodo vincente… 

Puoi dirlo! I vecchi tempi! Quando in modo vorace si ascolta qualunque cosa capiti; a casa mia girava molto jazz, entrambi i miei genitori erano appassionati. Dopo di che mio padre, la cui vita è stata accompagnata in ogni momento dalla musica, mi ha insegnato le prime cose al pianoforte, poi a sei anni mi ha mandato a lezioni e non ha mai smesso di incoraggiarmi nel perseguire l’obiettivo di diventare un musicista. Con lui sono stato ai primi concerti e con lui ho girato i festival per gli Stati Uniti. Nel frattempo, i miei gusti giravano più sul pop e sul rock and roll; sono cresciuto negli anni Settanta e andava molto la radio, trasmettevano la musica Motown, il r&b, il funk e anche un po’ di disco music… da ognuno di questi diversi generi puoi imparare molto e credo che qualche eco arrivi nella mia musica. 

Portare un cognome così «pesante» nella storia dello spettacolo come Eastwood suppongo sia un onore, ma qualche volta possa essere faticoso per riuscire ad affermare la propria individualità.

Sì, in qualche modo hai ragione. Ma io sono davvero molto orgoglioso di lui, di quello che ha realizzato attraverso tutta la sua vita artistica; sono in pochi ad avere una carriera così brillante lungo il tempo. Poi, naturalmente, qualche volta, capita quando sei legato a qualcuno di famoso, scopri che ci sono dei lati positivi e altri meno. D’altronde, quando suoniamo questa musica, portiamo la responsabilità di quello che hanno fatto i padri e i padri dei padri e così via; il nostro compito è quello di assorbire quelle lezioni e sperabilmente farne qualcosa di personale, che ti conduca a costruire un tuo linguaggio. 

Anche il tuo precedente album, «Cinematic, era legato al mondo delle colonne sonore… Cosa c’è di diverso nella produzione rispetto a questo «Eastwood Symphonic»? 

Prima avevo utilizzato solo in quintetto e non un ensemble orchestrale; poi c’erano solo alcuni dei brani con le opere di Clint, molte altre venivano da un altro tipo di film (Pink Panther, Les moulins de mon cæur, Taxi Driver e vari altri) e scritte da alcuni dei miei compositori più amati. Quest’ultimo è davvero principalmente un omaggio a mio padre, da un lato, e ai grandi artisti che hanno lavorato con lui, dall’altro, come John Williams, Michael Stevens o Lalo Schifrin. 

In quell’album c’è anche l’omaggio ad un brano di Morricone per un film molto bello e poco ricordato di Mauro Bolognini, Per le antiche scale… 

La musica mi era piaciuta moltissimo, ma pensa che il film non sono mai riuscito a trovarlo, non so neanche se sia stato doppiato negli Stati Uniti, devo cercare su Youtube… 

Tornando per un attimo al quintetto, questa sembrerebbe la tua formazione ideale, quella con cui lavori meglio.

È vero, anche quando siamo in viaggio da un posto all’altro discutiamo di musica, ci facciamo venire nuove idee, è un modo di fare le prove diverso ma che funziona. È importante costruire insieme i pezzi, ma poi, per non far perdere la freschezza e la spontaneità, è bello lasciarli andare e vivere sopra il palco durante il concerto. A furia di provare, di solito, succede che la prima o la seconda versione vengono bene, a volte con una magia speciale, che poi si rischia di perdere a furia di ripetere. Nel caso di queste musiche per orchestra, è una sfida avvincente quella di tenerci coesi e compatti come formazione per trovare l’incastro giusto con l’assetto sinfonico e riuscire a improvvisare in mezzo a tante parti obbligate. In generale, però, ti dico che scrivere e arrangiare per il quintetto è bello perché, avendo due fiati, offre la possibilità di lavorare sulle armonizzazioni come se avessi a disposizione un’orchestra. 

In «Eastwood Symphonic» c’è un brano al quale ti è piaciuto di più lavorare? 

Buona domanda… Direi a The Eiger Sanction [Assassinio sull’Eiger, 1975, diretto da Clint Eastwood, ndr] di John Williams, perché ha un andamento ideale, una specie di waltz, che consente di atterrare in modo naturale in un terreno condiviso di orchestra e formazione jazz, suonarla è particolarmente divertente

Che tipo di lavoro è scrivere per colonne sonore, in particolare se il regista è importante ed è anche tuo padre? 

Abbiamo iniziato, se non ricordo male, con Mystic River in modo abbastanza naturale. Lui ascoltava le cose che scrivevo e ogni tanto mi diceva: «Questa potrebbe essere buona per una scena» e cose del genere. Diverso, invece, quando mi commissiona un lavoro: lì bisogna guardare le scene, entrare nello spirito della storia e iniziare a provare, riprovare cose col piano, vedere se funzionano. Certamente, capita che il regista abbia un’idea diversa dal compositore e allora diventa una specie di reciproco convincimento, in cui ognuno cerca di affermare la propria idea, ma questo credo sia parte integrante del mio lavoro. Va anche detto, però, che con mio padre condividiamo inevitabilmente gli stessi gusti musicali e abbiamo idee piuttosto simili su come adattarli al cinema, fatto che aiuta non poco. 

Molti dei tuoi brani portano il nome di città o di luoghi: che significato ha viaggiare nella tua vita artistica? 

Viaggiare è una delle cose che amo di più. Cambiare latitudini, culture, linguaggi dal Medio Oriente al Sud Africa all’Europa, cercare per ogni posto conosciuto di catturare i suoni e decifrare la loro natura profonda; questo è di grande ispirazione per scrivere e suonare in modo diverso, più completo. 

In genere, anche nelle registrazioni, ti piace alternare fretless, contrabbasso, basso elettrico: come cade la scelta? 

Non so, al di là del mio piacere la variabile è sempre il tipo di groove che cerco in un brano, se mi sembra che lo spirito musicale giri sullo Swing o sul jazz imbraccio il mio contrabbasso, che forse è quello che suono di più in assoluto. Ma la roba funk, che mi piace molto, mi piace con entrambe le sonorità acustiche ed elettriche. 

Il risultato è quello di sonorità fresche ma legate alla tradizione, che poco strizzano l’occhio alle avanguardie.

Ascolto molta della musica più sperimentale, ma il mio cuore, le mie preferenze vanno alle band e ai musicisti degli anni Cinquanta, del periodo d’oro della Blue Note: lì trovo parte della mia identità. Se mi confronto con produzioni meravigliose come quelle di Miles Davis dai tardi anni Sessanta in poi faccio un po’ più fatica, è difficile ascoltarli a ripetizione per molto tempo; voglio dire, può essere divertente soprattutto riscoprirli, tornare ad alcuni album dopo un po’ di tempo ti permette di capire quanto grandi fossero. 

Tornando al presente, hai un autunno già super-impegnato con il tour di «Eastwood Symphonic»: sei soddisfatto del risultato finale? 

Moltissimo, e non lo dico per un fatto di promozione. Per me è stato come realizzare un sogno. È il progetto che avevo in testa di realizzare da un sacco di tempo, ne abbiamo iniziato a parlare più di cinque o sei anni fa, poi purtroppo siamo rimasti fermi per la pandemia, ma subito dopo ci siamo messi a lavorare con Gast Waltzing in modo serrato; spero che al pubblico piaccia come è piaciuto a me farlo.

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