Keith Jarrett: The Man of the Year

È il maestro di Allentown il nostro personaggio dell’anno, e lo festeggiamo riproponendo una storica intervista che risale addirittura al 1971, ben oltre mezzo secolo fa

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Le mie passeggiate con Keith Jarrett sottobraccio, le chiacchierate al ristorante davanti a un piatto di spaghetti, gli American greetings, cioè i biglietti gialli che mi scriveva dagli Stati Uniti con la sua grafia un po’ contorta, adesso sembrano appartenere alla preistoria, tanto è cambiato tutto ciò che lo riguarda. Eppure il ricordo più lontano che conservo del Jarrett ancora ragazzo, vorrei dire, e quasi timido, esitante, amichevole e familiare, sempre pensoso della giovane moglie e del figlio Gabriel, risale a dodici anni fa, il più recente a sette. Poi, il pianista è diventato quasi all’improvviso un divo internazionale. Sono arrivati i concerti in tutto il mondo, spesso come solista, e l’album di dieci long-playing della ECM, un monumento discografico che pochi creatori-esecutori viventi possono vantare. E di lui si racconta che qualche tempo fa, negli Stati Uniti, constatato che il pubblico all’inizio di un suo recital era un po’ rumoroso, abbia ottenuto il silenzio dicendo: «Vi rendo noto che quello al quale siete presenti non è un concerto, ma un evento».

L’ho incontrato l’ultima volta a Venezia, nell’ aprile 1980, nel camerino del teatro Goldoni, e non era più la stessa cosa. Ho resistito alla tentazione di parlargli e di chiedergli un’intervista, che sotto l’aspetto professionale sarebbe stata un buon colpo, perché temevo un rifiuto che mi sarebbe dispiaciuto molto. Della sua musica, oggi, ho un’opinione contraddittoria che riflette le contraddizioni del suo lavoro, capace di momenti sublimi e di cadute paurose di tensione e di gusto. Preferisco rimandare al futuro qualche concetto più meditato. Il «reperto archeologico» che trascrivo qui sotto, dunque, riguarda l’altro Jarrett, e proprio per questo mi sembra d’interesse non comune. Lascio inalterata perfino la cronaca del concerto che ne fu l’occasione, il 13 aprile 1970, perché pure quella mantiene un certo succo, un umore. Ma a guisa d’introduzione voglio rievocare un altro incontro, posteriore di un anno e mezzo, del quale non sono riuscito a ritrovare alcuna traccia scritta e che nondimeno è scolpito nella mia memoria come fosse accaduto ieri.

II 16 novembre 1971 arriva a Torino per due concerti (pomeriggio e sera) il gruppo di Miles Davis, preceduto, affiancato e seguito da un gran rumore di polemiche per il nuovo indirizzo «elettrico» e rockeggiante del leader. Alle tastiere, naturalmente elettriche, c’era Keith Jarrett con l’aria svagata e depressa. Molti se ne accorsero, proprio perché avevano imparato a volergli bene: del suo decollo clamoroso al festival di Bologna, nell’ottobre 1969, si parlava ancora, e si citavano episodi dei suoi soggiorni italiani che ne erano seguiti. Così, nell’intervallo tra un concerto e l’altro, me lo presi in consegna e lo condussi a cena in un locale piccolo e tranquillo, lontano dal baccanale dell’immancabile palazzo dello sport, dove il resto della band aveva improvvisato un bivacco.

«Sono un po’ avvilito – mi disse – e lo so che si vede. Io ammiro Davis ma non apprezzo questo suo stile, e soprattutto non sopporto di suonare uno strumento elettrico. Io amo il pianoforte acustico, cioè il pianoforte e basta. Ma mi sono imbarcato nel gruppo e nella tournee perché ne ho bisogno. Devo farmi un nome, per la mia carriera, per mia moglie e mio figlio [my lady, my child: proprio come il titolo di un suo brano], e questo e il mezzo migliore, in questo momento».

Gli risposi che capivo, anzi che approvavo e che non occorrevano altre spiegazioni. E qui, parola per parola, venne fuori la frase storica: «Ho paura» aggiunse. «Ho paura di quando sarò celebre, se mai lo sarò, perché potrei perdere il senso delle proporzioni».

Dopo aver ascoltato Keith Jarrett per tre volte in sei mesi (a Bologna, a Lugano, e pochi giorni or sono al teatro Sociale di Biella) mi sono convinto che bisogna seguirlo con l’attenzione che si riserva alle personalità di primo piano. Fino all’ottobre scorso, lo si conosceva soltanto per il suo contributo al quartetto di Charles Lloyd, e pochissimi privilegiati possedevano i tre long-playing da lui incisi sotto il suo name per un’etichetta non distribuita in Italia la Vortex. Oltretutto, Jarrett è indubbiamente uno di quegli artisti che vengono condizionati dai microfoni delle sale di registrazione, e che quindi preferiscono lo stimolo della platea e l’abbandono all’ispirazione del momento. I tre dischi sono buoni, ma non danno la misura esatta del suo valore, neppure nella tranche che contiene il suo pezzo più bello, My Back Pages.

Biella è stata l’ultima tappa di una nuova, brevissima tournée del pianista americano. Pubblico scarso dappertutto, un po’ perplesso, ma alla fine, in maggioranza, convinto ed entusiasta. Al teatro Sociale, Jarrett, accompagnato da Gus Nemeth al contrabbasso e da Aldo Romano alla batteria, inizia un po’ in sordina, com’è costume degli improvvisatori di razza. Il segno che egli entra in sintonia con se stesso è dato, dopo pochi minuti, dal liberarsi della sua vivace e spontanea gestualità, fatta di contorsioni sopra la tastiera, di sguardi inquieti verso i collaboratori, di smorfie sofferte. I temi, bellissimi, sono quasi tutti suoi. Quando va in prestito, si rivolge di preferenza a Bob Dylan (My Back Pages, Lay Lady Lay). Ma per Jarrett il tema è davvero un pretesto, un modo di cominciare, che poi viene messo da parte. I tracciati melodici, le architetture armoniche si sviluppano in piena libertà, intrisi di umori gospel, di echi popolari, ravvivati da rabbiose galoppate free. I ritmi sono altrettanto liberi, e seguono un profilo solistico parallelo a quello del pianoforte, oppure, senza preavviso, si riuniscono a comporre un eccitante fondale rock.

La tecnica è perfetta, la fantasia sbalorditiva. Jarrett si alza dal pianoforte e imbocca il sax soprano, dal quale cava una strana sonorità parkeriana ma anche un fraseggio che va «oltre» John Coltrane, poi lascia il sassofono, torna al pianoforte, quindi presenta un flauto piccolo che viene dal Pakistan e ci soffia dentro, borbotta, ringhia, sospira, lo picchietta con le dita, sfruttando al massimo il microfono. Subito torna in mente lo straordinario Jeremy Steig che si è esibito nello scorso dicembre al teatro Lirico di Milano. Siamo sullo stesso piano tecnico ed espressivo. 

Chi si ricorda più se il tema era quello di Expectations, di Love n. 1 o di A Happy Reflection? Gus Nemeth pizzica le corde del contrabbasso, le strappa, le colpisce tutte assieme; Aldo Romano tormenta un tamburello, e nella foga di cercare effetti nuovi lo infila chissà come sopra il charleston, che di riflesso entra in vibrazione con un suono quasi elettronico; il rullante viene scagliato per terra, seguito da un piatto. Siamo nel campo della pura estemporaneità e dell’alea più insicura. Il pubblico trattiene il fiato, conscio di assistere all’invenzione artistica nello stesso istante in cui avviene. Infine, ritorna il tema a sciogliere la tensione. 

Keith Jarrett

Al termine del concerto mi avvicino a Jarrett. Gli ho fatto sapere che desidero parlargli e si è dichiarato d’accordo. Ci portano a Piazzo, un quartiere di Biella che è un mucchio di case antiche a cinquecento metri sul mare, raccolte attorno a una chiesa del XIII secolo e a una piazza da fiaba, dove il tempo si è meravigliosamente fermato. Logicamente, ho le mie opinioni su Jarrett. Sono persuaso che vada cercando, a suo modo, una conciliazione fra il jazz e il rock, lasciando il ruolo di catalizzatore agli echi del gospel. È un terreno insolito, per un musicista bianco, ma non per questo meno interessante: dimenticavo di sottolineare, per alcuni dubbiosi, che Jarrett non possiede alcuna parentela nera, e anzi ha degli antenati prossimi di provenienza francese e ungherese. Le domande che riesco a proporgli, e le risposte che ottengo, sono poche e brevi, perché Jarrett è stanchissimo. Su alcuni punti non mi trovo d’accordo, e mi stupisce che un ipersensibile come lui non abbia intuito il solco che divide il pubblico europeo da quello americano. Trascrivo comunque senza commenti gli esiti del colloquio. C’è ugualmente materia per discutere.

Vorrei sapere se i tre dischi Vortex sono gli unici che hai registrato finora sotto il tuo name. Ne sei soddisfatto? Ne farai degli altri?

Per adesso ci sono soltanto quelli, più qualche extended play. Ma io mi pento facilmente di quello che faccio. I miei dischi hanno quasi due anni di età, e adesso non mi piacciono più, anzi li brucerei tutti. Però in sala di registrazione dovrei tornare molto presto.

Tu ti trovi in Europa da molti mesi. Hai notato delle differenze fra gli spettatori europei e quelli americani? Le occasioni di lavoro che hai avuto potrebbero convincerti a rimanere?

Mi pare che gli europei e gli americani, di fronte al jazz, reagiscano allo stesso modo. Anche le occasioni di lavoro sono pressappoco le stesse, cioè poche e non sempre favorevoli. A ogni modo, in nessun caso mi stabilirei in Europa, tanto è vero che sto per rientrare negli Stati Uniti. La musica che io e i miei colleghi d’America suoniamo nasce da una problematica acuta, da una lotta per la sopravvivenza che nel vostro continente non ha ancora raggiunto la temperatura altissima che ha nei nostri Paesi. Restando qui, il musicista americano attenua il suo mordente, perde la sua forza. Ho riscontrato questo fenomeno in numerosi solisti che sono in Europa da anni. Diciamo perlomeno che, a parità di condizioni, sceglierei l’ America, e non certo perché è la terra dove sono nato.

Quali sono, secondo te, i pianisti che hanno esercitato un’influenza notevole sulla formazione del tuo stile?

Oggi spero di essere abbastanza personale. Ho ascoltato un’infinità di pianisti che mi hanno preceduto, e penso che tutti mi abbiano influenzato un poco. Tutti e nessuno, non saprei fare dei nomi. Non chiedermi, per favore, quali musicisti preferisco, neppure tra gli altri strumenti. Se citassi qualcuno mi pentirei subito. Mi sembrerebbe di fare un torto agli altri.

Mi puoi dire la tua opinione sulla situazione attuale del jazz? Quale posizione pensi di occupare col tuo lavoro?

Temo che il jazz non abbia un futuro, perché ha perduto il contatto col popolo, con la gente comune. Ritengo anzi che, per questa ragione, abbia già cessato di esistere. Io, per esempio, non so se quello che suono sia jazz oppure no. Non mi pongo nemmeno ii problema, perché se me lo ponessi mi limiterei. Il contatto col pubblico lo cerco, ma non ho nessuna intenzione, per questo, di fare della musica popolare. Ciò non esclude che certo rock o pop confluiscano nel mio stile.

Qui il discorso si ferma, perché qualcuno mette sul giradischi la sua Lay Lady Lay, e questo fa precipitare la stanchezza di Jarrett. Scopro che non sopporta di ascoltarsi. Faccio togliere ii disco d’urgenza, ma non c’è verso di trattenerlo. Mi saluta amabilmente e si ritira. Lo guardo mentre si allontana, piccolo, magro, con le spalle spioventi. Quando tornerà, non lasciatevelo sfuggire: è uno dei pochi uomini nuovi del jazz.

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