Joe Farnsworth: In What Direction Are You Headed?

Nessuno si attendeva un disco così avanzato, apparentemente «fuori contesto» da uno dei più quotati esponenti della batteria mainstream contemporanea. Eppure è successo, e ci facciamo spiegare da lui qual è la sua nuova direzione

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I batteristi americani hanno la fama, ampiamente giustificata, di essere difficilmente eguagliabili in termini tecnici e di precisione nella scansione ritmica. È qualcosa che appartiene indissolubilmente al loro DNA e che ogni appassionato di jazz sa riconoscere. Da Baby Dodds a Nasheet Waits (tanto per citarne due distanti anni luce l’uno dall’altro) la storia è piena di nomi che hanno segnato in modo determinante l’evoluzione dello strumento e dello stile, al punto che Max Roach una volta affermò che ogni mutamento radicale nella storia della musica è avvenuto per via di cambiamenti nel ritmo. Difficile dare torto a colui che è stato uno dei batteristi più geniali che il jazz abbia mai avuto, eppure l’altra faccia di questa medaglia è rappresentata dalla penuria di bandleaders che suonano questo strumento. Ce ne sono stati e ce ne sono, intendiamoci, ma molto meno di quanto i pianisti o i solisti di qualunque fiato possano vantare. Il perché si può forse rintracciare nella natura stessa della batteria, che è strutturata in virtù del ruolo di accompagnamento, dunque di sostegno ritmico dei solisti, andando a braccetto con il basso tuba o col contrabbasso. Joe Farnsworth, uno dei batteristi più richiesti e affidabili in circolazione, normalmente non fa eccezione a questa regola non scritta, eppure è stato capace – a passettini nel tempo – di creare una sua dimensione da leader di non poco conto. Ne è la prova un suo nuovo disco, intitolato «In What Direction Are You Headed?» (Smoke Sessions Records), che brilla nel panorama del jazz di oggi per varie ragioni, non ultima quella che la band messa insieme dal nostro batterista è composta da musicisti della generazione più recente, con il conseguente risultato di proporre dei brani molto ben eseguiti, con solisti di eccellente levatura e soprattutto senza particolari egocentrismi nella direzione musicale. La formazione è composta da Immanuel Wilkins (sax alto), Kurt Rosenwinkel (chitarra), Julius Rodriguez (piano e Fender Rhodes) e Robert Hurst (contrabbasso) oltre che dallo stesso Farnsworth. L’album è prodotto dallo Smoke, che è uno dei jazz club più noti di New York e che nel tempo – come altri hanno fatto – ha pubblicato registrazioni di gruppi che nel locale dell’Upper West Side ruotano di frequente, però con la particolarità di non essere necessariamente incisi dal vivo. Farnsworth è un musicista notoriamente eclettico, inappuntabile, con una carriera già consolidata alle spalle: la schiera delle sue collaborazioni è quasi interminabile, con radici ben piantate nell’hard bop ma con forti desideri di innovazione nel linguaggio, come presto vedremo, e senza rinnegare la tradizione. In pratica Farnsworth si sta costruendo un percorso tutto suo, tracciato fra mille rivoli di altra provenienza. Segno, questo, d’indubbia intelligenza creativa, di grande passione per il suo mestiere e di quella necessaria umiltà che nel lavoro quotidiano aiuta a scoprire le parti più nascoste e affascinanti della propria personalità. Di conseguenza la sua qualità di musicista dal carattere gioviale, positivo, contribuisce a creare un’aura di generosità umana che attira rispetto e empatia. Joe non è certo un chiacchierone, ma parlare con lui è sempre piacevole e non reca neanche l’ombra della noia.

Vorrei iniziare dal tuo ultimo disco, che per molti aspetti è sorprendente. La produzione è dello Smoke Club, ma l’idea e la formazione della band?
L’idea dell’album è stata mia, così come la scelta dei musicisti. Questa non è una mia band regolare, ma sono tutti ragazzi con cui ho già suonato. In particolare Kurt Rosenwinkel: da quando ci ho suonato assieme al Village Vanguard ho avuto subito l’idea di registrare con lui in studio. Stessa cosa con Immanuel Wilkins. Gli altri sono venuti di conseguenza in base ai miei ascolti: certamente avevo bisogno di musicisti giovani che potessero suonare in qualsiasi situazione senza perdere la loro identità stilistica. Per esempio Julius Rodriguez, che può suonare di tutto, oltre le tastiere: anche la chitarra e la batteria. Conosce tutti i generi musicali: jazz, pop, rock, e li esegue con grande personalità. Come vedi, si tratta di un progetto totalmente diverso rispetto ai miei due dischi precedenti per la Smoke Sessions, che erano in trio con Kenny Barron e Peter Washington («City of Sounds», 2021) e in quartetto con lo stesso trio più Wynton Marsalis («Time to Swing», 2020).

La tua scelta di avere musicisti più giovani credo abbia contribuito a rinfrescare il sound e dunque renderlo più attuale, compreso il tuo modo di suonare la batteria.
Vedi, da quando due grandi pianisti con i quali avevo suonato a lungo – Cedar Walton e Harold Mabern – sono scomparsi, ho deciso di modificare progressivamente il mio stile di batterista, proprio per dare una svolta alla mia carriera. Cambiare direzione: questo è il concetto. Mi aiuta a mantenere vivo il desiderio di scoprire cose nuove in musica.

Un’altra cosa importante, e non comune devo dire, è il grande spazio che tu dai ai tuoi musicisti, anche come compositori: tre degli otto brani sono a firma di Kurt Rosenwinkel, e mi pare che ci sia solamente un assolo di batteria in tutto il disco.
In passato, con i grandi musicisti con cui ho suonato c’era spesso il desiderio di mostrare la tecnica, di esibirti in modo più veloce possibile. Non la ritengo più una cosa giusta: non è necessario fare sfoggio di abilità e velocità, così come è corretto dare spazio ai solisti principali. La musica ne guadagna molto.

Vuoi continuare a incidere e magari suonare dal vivo con questa band?
Mi piacerebbe molto, ma come sai ognuno di loro è un bandleader e dunque sono tutti molto impegnati in tour e concerti ovunque. Quindi è davvero difficile raggrupparli di nuovo, magari per andare in giro. Mi ritengo già molto fortunato a essere riuscito ad averli tutti assieme per registrare. Ma non si sa mai, in futuro potrebbe succedere. La settimana prossima suonerò al Village Vanguard con Rosenwinkel, ma sarà lui il leader.

Facciamo ora un salto indietro nel tempo: raccontami dei tuoi inizi come musicista.
Vengo da una piccola città del Massachusetts che sicuramente non conosci: South Hadley. Mio padre Roger, che è ancora vivo e abita con mia madre nella stessa casa dove sono nato, era un noto trombettista, bandleader poi insegnante di musica. Ho anche quattro fratelli più grandi di me [Joe ha 55 anni, ndr] e tutti noi abbiamo studiato musica con mio padre. Io ero nella stessa stanza con mio fratello David, batterista anche lui: ascoltavamo Sonny Payne e pure i Temptations. James, un altro fratello, nella sua stanza studiava il sax seguendo i dischi di Sonny Rollins e di Sonny Stitt, e poi finì a suonare nella band di Ray Charles. Poi c’era John, che studiava il trombone ispirandosi a J.J. Johnson. Era una casa piena di musica! Ma la mia strada, quella che avevo in testa, era la 52th, dove un tempo si suonava il jazz. La Swing Street. Ecco perché ancora oggi suono la batteria: i miei maestri ideali erano Buddy Rich e Sonny Payne. I miei eroi! Grande feeling!

Hai mai seguito studi regolari di musica, a parte tuo padre?
Con Max Roach alla University of Massachusetts. Assieme a mio fratello David seguivo le sue masterclass di batteria. Ero ancora molto giovane. Poi il passo più importante: Alan Dawson per due anni. Grande batterista, mi ha insegnato molto. Una volta arrivato a New York ho studiato al William Paterson College, in New Jersey, dove c’era anche Harold Mabern, ma il mio maestro personale era Art Taylor, a Harlem. Con lui sono stato tre anni e ho imparato tutto: chiamarlo per avere lezioni da lui è stata la cosa migliore che abbia mai fatto in vita mia. Un batterista straordinario: «Giant Steps» con Coltrane! Il trio di Red Garland!

Un bel giro! Massachusetts, New Jersey, Harlem…
Due miei fratelli, John e David, abitavano già a New York. Ogni giovedì, una volta finite le lezioni al Paterson, andavo a Manhattan col bus per stare con mio fratello John. Poi il lunedì mattina tornavo nel New Jersey. Era il 1986, avevo diciotto anni. Ho avuto così modo di ascoltare dal vivo Jimmy Cobb, Art Blakey, Max Roach, Elvin Jones e tanti altri.

Ti ricordi il primo ingaggio da professionista?
Si, certo. Con la sassofonista baritono Claire Daly. Al piano c’era Bill Charlap. Poi con il sax tenore David Schnitter, che aveva fatto parte dei Messengers di Art Blakey. Ero giovanissimo, forse vent’anni. Ma il mio primo grande ingaggio a New York è stato con Benny Golson, nel 1997. Al piano c’era Ray Bryant. Quella settimana vennero tutti ad ascoltarci: George Coleman, Jimmy Cobb, Roy Haynes. Ricordo che Roy fu molto affettuoso con me.

Fra tutti i musicisti con cui hai suonato chi ricordi con maggior affetto e rispetto?
Di sicuro Harold Mabern. È stato tutto per me: come amico e come musicista. Una bella persona. Poi Cedar Walton, che era così elegante e dinamico nel modo di suonare. Non posso dimenticare la presenza di Pharoah Sanders, molto spirituale: era calmo, forte, anche silenzioso, ma con un’intensa aura positiva. Mi segnalò come batterista a George Coleman. Infine McCoy Tyner, indispensabile.

La title-track del tuo nuovo disco, In What Direction Are You Headed? (In che direzione stai andando?) è proprio un brano di Harold Mabern. Mi sapresti rispondere a quella domanda implicita?
Vedi, la mia vita di musicista continua senza interruzione, per fortuna, e sono pieno di impegni. Di sicuro voglio incidere più dischi possibile come leader. Negli anni mi dicevo: che bella serata questa, mi piacerebbe registrarla e pubblicarla. Ma spesso non è avvenuto. Adesso mi voglio impegnare di più in questa direzione. Voglio suonare ancora con Rosenwinkel. Per fare il mio disco con Wynton Marsalis ho aspettato venticinque anni, ma ne è valsa la pena! Per il prossimo penso a Brad Mehldau: mi piacerebbe molto. Qualche mese fa ho suonato con lui al Village Vanguard ed è stato bellissimo. Musicisti come lui o come Sanders ti ascoltano e tu devi essere sempre presente, sentirli anche nel loro respiro. In quel caso devi suonare per loro e non con loro.

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