Il Van Westerhout è un piccolo teatro con poco meno di duecento posti distribuiti tra platea, palchi e loggione dedicato alla memoria di un poco noto compositore dell’Ottocento, Niccolò Van Westerhout (1857-1898, autore di musica cameristica e sinfonica ma anche di cinque opere liriche) e situato in un piccolo paese della provincia di Bari, quel Mola di Bari che ha per l’appunto dato i natali al succitato autore.

Joe Barbieri ha deciso di iniziare il tour italiano di presentazione del suo ultimo disco, «Vulìo», proprio da lì. E non è una scelta casuale, per due motivi: la Puglia è da tempo una terra accogliente per il cantautore napoletano sin dai suoi esordi e dai primi concerti, e poi quel piccolo teatro si presta, proprio per la sua ridotta capienza, a rappresentare il carattere intimo della sua musica che – domenica 7 aprile– è stata sublimata da una esecuzione che ha tenuto sulla corda della commozione quei pochi fortunati accorsi a regalare il primo tutto esaurito a uno dei songwriters più sensibili e raffinati dell’attuale panorama peninsulare. «Vulìo» (in lingua napoletana – è il caso di definirla così – «desiderio») è un disco dedicato alla canzone napoletana una materia con la quale Joe ha sempre flirtato e da cui – per sua stessa ammissione – si è tenuto finora a debita distanza per un malcelato pudore e, soprattutto, per il timore di non essere all’altezza della sua poesia e della sua emotività. Sbagliando.
Lo ha dimostrato domenica scorsa, inanellando una serie di perle che ci hanno tenuto col fiato sospeso per circa un’ora e mezzo. Di «Vulìo», della parlesia (il gergo dei musicisti napoletani cui la giornalista Valeria Saggese ha dedicato un saggio pubblicato da Minimum Fax), della canzone napoletana, abbiamo parlato con Barbieri in una intervista che pubblicheremo a breve sulla nostra rivista. Con «Vulìo» Joe si accredita definitivamente come uno dei musicisti di cui il nostro territorio è giusto che vada orgoglioso soprattutto per la sua capacità di tenere in equilibrio, in un filo sottile ma robusto, tradizione e modernità. E questo, a dispetto di tutta la trap più becera (lo scrivo con il rispetto con il quale di solito ascolto musica) e in un momento in cui imperversa il trash più trasandato, non è poco.

Il concerto è iniziato con Era de Maggio di Salvatore Di Giacomo, scelta studiata perché il brano è uno degli esempi in cui è disegnato lo schema formale della canzone napoletana, a cui ha fatto seguito una versione sofferta e ispirata di Lazzarella di Riccardo Pazzaglia e Domenico Modugno, omaggio probabilmente quest’ultima ad una terra, la Puglia (Modugno come si sa aveva origini pugliesi), che ha sempre voluto bene a Joe Barbieri. Subito dopo Accarezzame di Pino Calvi e Dicitencello vuje hanno rimarcato quel senso di appartenenza e di familiarità tipica delle grandi melodie, quelle che attraversano immacolate il tempo: in particolare in Dicitencello vuje, una composizione del 1930 in cui si rivengono brevi frammenti di un indiscusso evergreen dei primi dell’Ottocento, Te voglio bene assaje, quel senso di appartenenza è ben rappresentato e Joe Barbieri, con i due raffinatissimi musicisti che lo accompagnavano (Nico Di Battista alla chitarra preparata e Oscar Montalbano alla chitarra manouche) lo hanno saputo rendere alla perfezione.
A quel punto il concerto è decollato con Cammina cammina di Pino Daniele (contenuta nel suo album d’esordio del 1977, in cui si parla di vecchiaia e di attesa della morte), con Quantu tiempo ce vò (un brano di Claudio Mattone portato al successo da Edoardo De Crescenzo), con un’altra melodia senza tempo come Passione, con il duetto strumentale di Nico Di Battista e Oscar Montalbano (una sorta di intervallo vissuto come spartiacque tra la prima e la seconda parte dell’esibizione) in cui i due chitarristi (due autentici fuoriclasse) introducendo il riff di Hit the Road Jack hanno fatto il verso a Tu vuò fa l’americano di Renato Carosone a ribadire che l’ibridazione sonora e verbale ha avuto un ruolo a Napoli ben prima di Pino Daniele.

Nella seconda parte in sequenza Santa Lucia Luntana, inno dolente all’allontanamento forzato dalla propria terra, Nun te scurdà una preghiera laica degli Almamegretta, Don Salvatò di Enzo Avitabile hanno introdotto il momento più emozionante, a mio avviso, di tutto il concerto, il duetto tra Joe Barbieri e Mario Rosini, una delle voci più belle, se non la più bella, di tutta la musica italiana (solo che non riusciamo ancora a capire per quale motivo si ostini a frequentare, senza far nomi, spettacoli e platee improbabili e assolutamente non all’altezza del suo talento) con delle versioni straordinarie di Munasterio ‘e Santa Chiara e Voglia ‘e turnà di Teresa De Sio. Vulesse ‘o cielo (l’unica composizione originale dell’album), Cu’ mme di Enzo Gragnaniello (una composizione in cui il mare è la metafora di una intensa spiritualità, già immortalata da Mia Martini e Roberto Murolo), Lacreme napulitane (un brano del 1925 cantato da tutti, ma non contenuta in «Vulìo»), la celeberrima ‘O Surdato ‘nnamurato hanno chiuso in bellezza uno dei live più emozionanti cui ci è capitato di assistere nell’ultimo periodo.
I bis (richiesti a gran voce) – ‘Na bruna di Sergio Bruni, Putesse essere allero di Pino Daniele, Reginella (l’unico dei tre a far parte della scaletta dell’album) – hanno rafforzato in noi la convinzione che esistono soltanto due tipi di musica, quella bella e quella brutta, e che quella di Joe Barbieri appartiene alla prima categoria.
Nicola Gaeta