Jazz Producers / Michel Dorbon – Pascal Rozat – Stéphane Berland – Philippe Ghielmetti – Bertrand Gastaut

Molte etichette indipendenti francesi hanno contribuito in maniera sostanziale alla scena jazzistica degli ultimi decenni pubblicando dischi di alta qualità: ecco l’inizio di un piccolo viaggio (che continuerà) attraverso i retroscena della produzione di oltreconfine

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Rogue Art / Michel Dorbon

Signor Dorbon, diversi anni fa lei produsse dei dischi per l’etichetta francese Blue Regard. Mi sono sempre chiesto se Rogue Art non discenda da Blue Regard…

I dischi per Blue Regard sono stati un banco di prova: mi sono serviti per capire se ero in grado di fare il produttore. Ma Blue Regard e Rogue Art sono due cose distinte. I presupposti dietro alla due etichette erano diversi. Blue Regard era nata da un’idea di Marie Cosenza, l’ultima compagna di Charles Tyler, con lo scopo di documentare essenzialmente la musica dello stesso Tyler. Quando l’etichetta cominciò a rallentare, fino a cessare le attività, decisi di fondare Rogue Art. Era il 2005.

Quali dischi produsse per Blue Regard?

Quattro in tutto e in quest’ordine: «Magnetism» di Matthew Shipp, con Rob Brown e William Parker, «Secrets Of When» del quintetto di Sabir Mateen, «Round The Bend» del trio di Brown e il «Live At Banlieues Bleues» dei Cosmosamatics, ovvero il quartetto di Sonny Simmons con ospite Andrew Cyrille.

Shipp, Brown e Parker sono diventati delle colonne portanti di Rogue Art.

Sì, soprattutto Shipp e Parker. Ascoltavo jazz fin dall’adolescenza ma non avevo idea di cosa volesse dire produrre un disco. Con Rogue Art sono partito da zero. Agli inizi, quando l’etichetta era parallela ai nostri impieghi a tempo pieno, io e mia moglie pensavamo di cavarcela con poche produzioni, invece ci siamo resi conto che per farsi notare bisognava alzare i giri. Oggi produciamo dai cinque ai dieci dischi all’anno.

E quante copie stampate?

Fra le settecento e le mille, dipende dai titoli.

Qualche anno fa lei fece una considerazione, condivisibile da tanti altri produttori indipendenti, sulla volontà di restare fedele ai musicisti, e di mantenere un rapporto di collaborazione duraturo nel tempo. E ancora il caso?

Sì, non è cambiato nulla. Rimanere fedele è un’idea che ho sempre avuto. Per me è decisivo far vivere i rapporti e i gruppi, non già limitarsi a entrare in studio, registrare e poi perdersi di vista. Con un certo numero di musicisti si è instaurato un clima di fiducia: con i vari Shipp e Parker, ma anche con Rob Mazurek e Nicole Mitchell – e sicuramente ne sto dimenticando qualcun altro. Tra i francesi direi Joëlle Léandre. Oggi il lavoro è orientato al mantenimento di un certo equilibrio che però non esclude due o tre novità ogni anno.

Partecipa alle registrazioni?

Di rado, nonostante abbia più tempo a disposizione perché ho smesso di lavorare tre anni fa. Diciamo che cerco di essere negli Stati Uniti al momento in cui i musicisti entrano in studio, ma non dipende del tutto da me. Fare avanti e indietro è assai complicato.

Nonostante la distanza, le capita di organizzare o di coordinare delle registrazioni?

Nella stragrande maggioranza dei casi sono i musicisti che si rivolgono a me con proposte concrete. Detto ciò le idee non mancano e mi capita di suggerirle, soprattutto ai musicisti che conosco meglio. Ricordo ad esempio di aver fatto l’intermediario fra Nicole Mitchell e Shipp in occasione della loro prima collaborazione, «All Things Are». Nicole desiderava registrare con Shipp, bisognava trovare la modalità più adeguata.

Rogue Art è conosciuta per la rete di rapporti che ha saputo tessere con musicisti di Chicago. A chi si deve questa apertura verso la Windy City?

Ad Alexandre Pierrepont, fine conoscitore della scena di Chicago, con cui collaboro sin dalle origini dell’etichetta. Non abbiamo mai formalizzato la nostra collaborazione ma abbiamo sempre parlato tanto. Gli devo numerosi incontri, da Roscoe Mitchell ad Hamid Drake; incontri a cui sono riuscito con abilità a dare un seguito. Alexandre è stato di grandissimo aiuto.

Un’altra specialità della casa sono le collaborazioni tra francesi e americani…

Non dico che Joëlle Léandre sia conosciuta più all’estero che in Francia – o forse è davvero così, non saprei –, tuttavia è un dato di fatto che suoni più spesso al di là dei confini nazionali. Lei e Benoît Delbecq sono esempi che ritroviamo in tante produzioni Rogue Art franco-americane, ed è vero che ci concentriamo su questo tipo di associazioni.

Per il momento Rogue Art non è presente sulle piattaforme di streaming. Siete avversi all’idea?

Ora come ora lo streaming mi sembra una soluzione del tutto inutile, che non permette né di ascoltare musica come vorrei né di guadagnarci qualcosa – e non garantirebbe lauti guadagni nemmeno ai musicisti. Inoltre, tendo a pensare, forse ingenuamente, che lo streaming sia una moda e che il supporto fisico gli sopravviverà. Non sono nemmeno convinto che il vinile funzione così bene come si dice. Abbiamo stampato qualche copia senza grandi risultati. Vent’anni fa si parlava della morte del cd, invece nel nostro caso la richiesta si è stabilizzata. Diverso discorso per il download legale, e quindi a pagamento. Non siamo ancora su Bandcamp ma non escludo di atterrarci un giorno o l’altro, è un’altra cosa rispetto allo streaming. Per noi il supporto fisico è vitale, come vitale è la vendita ai festival o ai concerti. Mi piace incontrare il pubblico, un nuovo potenziale acquirente, ho bisogno di quel tipo di contatto. Dopo due anni di assenza, all’ultima edizione di Sons d’Hiver abbiamo fatto buoni numeri.

Merito di Mazurek?

Merito di Rob ma non solo. Abbiamo incontrato nuovi appassionati fra i trenta e i quarant’anni. Sons d’Hiver e il Vision a New York sono appuntamenti che cerchiamo di non mancare mai.

C’è un produttore o un’etichetta che l’hanno ispirata?

Sì, Gérard Terrones.

Avrei detto Black Saint e Soul Note…

Mi piacevano molto, ma un conto è avere i dischi, un altro è vedere all’opera i produttori. E Terrones l’ho visto all’opera più e più volte, ci conoscevamo bene. Al pari delle sue etichette, Rougue Art persegue la via dell’indipendenza, finanziamo tutto noi, anche ora che siamo in pensione e che le entrate mensili, per forza di cose, si sono ridotte.

In mezzo a oltre cento dischi prodotti in quasi vent’anni di attività, c’è un musicista che secondo lei meriterebbe maggiore considerazione?

Senza dubbio Rob Brown. Uno dei migliori sassofonisti in circolazione, fra i più originali.

 

Ina-Elemental Music / Pascal Rozat

Pascal, il logo dell’INA appare sulle copertine di alcuni dischi dell’etichetta spagnola Elemental Music e soprattutto su una pubblicazione molto attesa: la riedizione, ampliata, dei concerti alla Fondation Maeght di Albert Ayler.    

Tra Elemental e INA, dove lavoro da tanti anni, c’è di mezzo Zev Feldman, lo stesso Feldman dell’etichetta californiana Resonance che si è fatto conoscere per la pubblicazione degli inediti di Wes Montgomery e Bill Evans. Zev, che è anche consulente per Blue Note, gira per il mondo a caccia di inediti. Ci interpella spesso per sapere se abbiamo nastri inediti utilizzabili, una delle tante pratiche del suo modo di lavorare. Il suo scopo è identificare i nastri e cercare di capire se vale la pena pubblicarli. Si occupa anche di tutte le questioni legati ai diritti dei musicisti: le edizioni che cura non sono pirata. E poi commissiona i testi e supervisiona tutto il lavoro editoriale. Come ti accennavo, il box di Ayler non è la prima collaborazione con l’INA; sono in contatto con Feldman da circa una decina d’anni.

Scendendo più nello specifico, quale è stato il tuo ruolo nella riedizione di questi concerti?

Zev ci aveva chiesto di Ayler. Spulciando tra i nastri della Fondation mi sono reso conto che c’era del materiale inedito, quasi il doppio rispetto a quello conosciuto. Ho informato subito Zev dicendogli che forse bisognava dargli un’occhiata. Non ne sono sicuro, ma credo che a quel punto Zev abbia consegnato i nastri al sassofonista Jeff Lederer, un esperto di Ayler e poi co-produttore della riedizione. Lederer non ha tardato a manifestare tutto il suo entusiasmo: secondo lui i nastri andavano pubblicati a tutti i costi.

Come in altre edizioni supervisionate da Feldman, la quantità di contributi che fa da contorno ai dischi è rimarchevole: libretto corposo, decine di foto, testimonianze da parte di, fra gli altri, Sonny Rollins e Archie Shepp, John Zorn e Bill Laswell, Carla Bley e Annette Peacock, i chitarristi Carlos Santana, Marc Ribot, Thurston Moore. C’è anche un testo scritto di tuo pugno: di che cosa parla?

È un piccolo contributo sul contesto in cui nacquero quei concerti e sul loro organizzatore, Daniel Caux. Visti gli altri interventi, scritti da chi conosce musica e musicisti meglio di me, mi sono concentrato su quegli aspetti storici che possono sfuggire agli altri contributori. Ho cercato le informazioni negli archivi e nelle riviste di quel periodo.

Quanti altri segreti nascondete all’INA?

In realtà non nascondiamo nulla. Abbiamo migliaia di nastri, molti dei quali inediti, ma non possiamo sfruttarli appieno a causa dei diritti. Tuttavia segnalo l’esistenza di un programma radiofonico su France Musique, Les légendes du jazz, condotto da Jérôme Badini, e realizzato interamente a partire dagli archivi dell’INA. Si tratta di concerti rimasterizzati per l’occasione. Insomma, oltre a edizioni come quelle consacrate ad Ayler e Chet Baker, abbiamo una finestra bisettimanale che va in onda su un’importante stazione radiofonica nazionale.Tra l’altro, le trasmissioni sono riascoltabili online e rappresentano una consistente base di partenza per chiunque voglia esplorare il nostro patrimonio. Aggiungo che ci sono diverse altre iniziative in preparazione.

 

Ayler Records / Stéphane Berland

Jazz Producers
Stephane Berland

Signor Berland, lei è l’unico produttore di questo gruppetto a non aver fondato l’etichetta che ora dirige. Potrebbe dirci quando ha recuperato la gestione della Ayler?

Ho preso in mano l’etichetta tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009 dopo aver lavorato al fianco di Jan Ström sin dal biennio 2004-2005. Con Jan, fondatore della Ayler insieme a Åke Bjurhamn, eravamo grandi amici.

Si ricorda quale è stato il primo gruppo francese che ha prodotto?

Certamente. Il quintetto Nuts di Benjamin Duboc, con Rasul Siddik, Itaru Oki, Makoto Sato e Didier Lasserre. Era il febbraio 2009, appena dopo l’acquisizione.

La Ayler si contraddistingue per un marcato eclettismo; un fantasioso mercato dove si può ascoltare jazz, improvvisazione, musica per immagini, noise, rock progressivo, persino metal. Ma le piacciono così tante cose?

Rispondo sempre a questa domanda nello stesso modo: produco dischi che mi sarebbe piaciuto comprare come ascoltatore. Se esistono dei criteri che guidano le mie scelte come produttore, questo è il primo. Poi ci sono le storie con i musicisti; collaborazioni a lungo termine determinate da rapporti di amicizia. Non mi piacciono gli one shot. Se trovo che un musicista merita attenzione, penso subito al seguito.

Tra le collaborazioni più feconde salta all’occhio quella con il trombettista texano Dennis González, scomparso di recente.

Una grande perdita. Con Dennis si risale all’inizio degli anni Duemila, a quando entrambi eravamo membri in quelle che all’epoca si chiamavano bulletin boards, un forum americano dove ci si «incontrava» per parlare regolarmente di jazz e di tanta altra musica, di abitudini di ascolto, degli ultimi concerti visti. Un vero forum di discussione come non ne esistono più. Io e Dennis abbiamo cominciato a scriverci al di fuori del forum, non eravamo più semplici corrispondenti o pen pals, alla fine siamo diventati veri amici a migliaia di chilometri di distanza. Quando presi in mano l’etichetta, una delle primissime produzioni fu un disco con Dennis e i suoi figli, Aaron e Stefan. Amavo particolarmente quel trio. In pratica gli aprii una porta che non ho più chiuso, al punto che Dennis, appena immaginava qualcosa, mi contattava per sapere se poteva interessarmi.

Veniamo a un’altra collaborazione, quella con Marc Ducret e in particolare alla serie di dischi Tower, registrata nel biennio 2010-2012.

Prima dei Tower, io e Marc avevamo coprodotto il «famoso» «Le Sens de la marche», uscito nel 2009 per l’etichetta Illusions di Philippe Ghielmetti, un grande amico. Dopo quel lavoro, diventato un oggetto di culto, Marc si è rivolto a me con le idee molto chiare: voleva comporre un repertorio e proporlo a tre gruppi diversi: quartetto, quintetto e sestetto. Ma avevo bisogno di un produttore che accettasse subito l’idea. In sintesi: tre gruppi che suonano lo stesso repertorio, o una parte di esso, da produrre a scatola chiusa. Gli ho risposto senza alcuna esitazione che poteva contare su di me. L’avventura era lanciata con tutti i rischi del caso. Registrò il primo lavoro, quello in quintetto, che uscì in tempi rapidi. In quel periodo dosai le altre pubblicazioni per dare priorità a Marc. E se non ricordo male, pubblicammo il terzo volume, in sestetto, prima del secondo.

E il quarto volume, quello in solo?

Una mia richiesta, perché nel frattempo Marc aveva suonato lo stesso repertorio in solo. Poi nel 2012, grazie alla combattività di Charles Gil, tour manager che vive in Finlandia, e Philippe Ochem, direttore del festival Jazzdor – due persone magnifiche – si è realizzato un sogno, quello di riunire tutti i musicisti dei tre volumi per una dozzina di date. Nel corso del tour abbiamo registrato il doppio album dal vivo «Tower-Bridge».

Le quattro copertine della serie formano un’unica, grande copertina che conferisce unità a tutto il lavoro. Chi ha avuto l’idea?

Marc voleva utilizzare riproduzioni di incisioni provenienti dall’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert. Tutta la serie Tower fa riferimento in maniera costante a Ada o ardore, romanzo di Vladimir Nabokov ambientato in un mondo privo di elettricità. E le incisioni riproducono macchine disegnate in un’epoca in cui l’elettricità non esisteva ancora. Ho lavorato con Corinne Troisi, allora compagna di Marc, alla scelta delle immagini; in effetti l’idea era di selezionare delle immagini che «assemblate» costituissero una grande copertina, come un puzzle di quattro pezzi. È davvero un lavoro collegiale; io e Corinne abbiamo co-firmato tutte le copertine.

Precedentemente mi ha detto di aver lavorato nella pubblicità.

Sì, sono stato concepteur/rédacteur e grafico, ho lavorato trent’anni in un’agenzia.

Quindi presta attenzione alla realizzazione delle copertine dei dischi?

Presto più che attenzione, perché le realizzo tutte io.

Una curiosità. Ma «Lady M» di Ducret va considerato come un disco Ayler?

«Lady M» è un disco Ayler «sotto mentite spoglie». Insieme a Marc abbiamo voluto celebrare il decimo anniversario della nostra prima collaborazione, quel «Le Sens de la marche» di cui parlavo prima. Infatti «Lady M» è figlio di una coproduzione con Illusions, un’operazione realizzata per chiudere il cerchio.

 

Sketch, (Illusions), Minium, Sans Bruit, Vision Fugitive / Philippe Ghielmetti

Philippe Ghielmetti e John Taylor

Monsieur Ghielmetti, il suo nome è legato ad alcune delle più significative e rappresentative etichette francesi degli ultimi venticinque anni. Potrebbe riassumere brevemente come da grafico di professione è arrivato alla produzione di dischi?

Per una serie di circostanze del tutto fortuite. La riedizione dei dischi di Georges Arvanitas si inserisce in un periodo, gli anni Novanta, in cui mi interessavo parecchio al jazz francese: René Urtreger, Daniel Humair – che in realtà è svizzero – tanto per citare un paio di musicisti. Un amico venditore di dischi aveva una copia di un disco molto raro e pure molto costoso di Georges Arvanitas. Gli chiesi di prestarmelo per farne una copia su cassetta – sto parlando del 1996 o 1997. Ascoltavo la mia copia ma allo stesso tempo non riuscivo a capacitarmi del fatto che nessuno lo avesse mai ristampato. Ci pensai su per due giorni di fila e alla fine presi la decisione di occuparmi della riedizione. Forte dell’esperienza acquisita come grafico sapevo come si curava l’edizione di un libro, rieditare un disco non doveva essere molto diverso. Parlai con Arvanitas e mi lanciai nell’avventura.

Quindi non aveva intenzione di diventare produttore?

Non mi passava nemmeno per la testa. Volevo solo avere un facsimile dell’lp, e in quanto tale doveva ricalcare tutte le caratteristiche tecniche dell’originale, anche gli errori. Devo dire che a quei tempi, in Francia, riedizioni di quel tipo non erano comuni.

Che cosa la spinse a ristampare un secondo disco di Arvanitas, «Cocktail For Three»? 

Tra la copia su cassetta e la pubblicazione di «3 A.M.», il mio amico venditore di dischi recuperò un originale di «Cocktail For Three», che costava anch’esso una piccola fortuna. Quei due dischi, pubblicati in origine dall’etichetta francese Pretoria, erano già oggetti per collezionisti. In «3 A.M.» George era accompagnato da Art Taylor e Doug Watkins, la ritmica di Donald Byrd, e in «Cocktail For Three» da Gene Taylor e Louis Hayes, che era la ritmica di Horace Silver. Le vendite andarono benissimo, Arvanitas non aveva mai visto così tanti soldi; si stupiva del fatto che provenissero da incisioni risalenti alla fine degli anni Cinquanta. E io ero felice: ristampavo dischi che mi piacevano, tenevo una copia per me, distribuivo le altre agli amici e in più guadagnavo qualcosa. Mica male, per un hobby a tempo perso!

Altra ristampa: «Hum!», ovvero Humair, Urtreger e Pierre Michelot.

Altra incisione rara che volevo avere. Conoscevo bene il percorso di tutti e tre, li avevo visti più volte, mai assieme. Ricordo ancora quando ci incontrammo per firmare i contratti. Humair si presentò a casa mia con una bottiglia di vino. Per un paio d’ore ascoltai meravigliato quel terzetto raccontare le storie più inverosimili su Chet Baker, Bobby Jaspar, Michel Hausser e tanti altri. Mi ritrovai nel bel mezzo di una reunion fra vecchi complici.

Quando decise di registrare di nuovo il trio?

Appena dopo quell’incontro. «Hum!» risaliva al 1960, il secondo al 1979. Ci voleva un terzo disco per rispettare la cadenza ventennale. Ma bisognava convincere i musicisti. Chiamai per primo Humair, l’ostacolo più difficile da sormontare. Inaspettata e immediata la sua reazione: «Mi sembra un’ottima idea. Ne parli con gli altri e mi richiami». «Se Daniel è d’accordo, allora facciamolo» fu la risposta di Urtreger. Il resto venne da sé.

A quel punto bisognava entrare in studio…

Non avevo idea di cosa volesse dire registrare, non ho competenze musicali specifiche. Cominciai a concentrarmi sul suono, un aspetto che mi premeva molto: doveva essere contemporaneo. Ascoltavo e impilavo dischi su dischi; quelli che mi piacevano di più erano stati registrati dallo stesso tecnico, Gérard de Haro: la scelta era fatta. Ti racconto un aneddoto sulla registrazione. Dopo la prima take, il trio si appresta a suonare una ballad. Humair si rivolge a me chiedendomi: «Philippe, spazzole o bacchette?». In un frangente ho capito che Daniel esigeva una risposta, rispettava il mio ruolo e io non potevo liquidarlo dicendogli «Non saprei, vedi tu» solo perché si chiamava Humair. Gli dissi di usare le bacchette, magari poteva venir fuori qualcosa di diverso, e così fece. Quell’incisione finì in un cofanetto che includeva le altre due. Ricordo ancora l’appuntamento negli uffici di Harmonia Mundi per parlare della distribuzione. Io pensavo solo a quel cofanetto, loro mi chiesero quale sarebbe stata la prossima mossa. Anche in quel caso qualcuno attendeva una risposta da parte mia. Buttai un nome a caso: «Michel Graillier!». E Harmonia Mundi accettò. Il problema era che con Graillier non avevo ancora parlato, non era al corrente di nulla. E non ero nemmeno convinto di voler continuare.

E alla fine Graillier registrò per Sketch?

«Soft Talk», con Riccardo Del Fra, «Sweet Smile». La seconda produzione dell’etichetta è stata «Architectures» di Giovanni Mirabassi, un altro incontro capitato in fretta. Ho accettato di registrare «Avanti!» perché vedevo nitidamente come sarebbe stato. Una sera andai a sentire Marc Copland al Sunside, gli spiegai che avevo fondato un’etichetta e che mi sarebbe piaciuto registrare un piano solo. Risposta: «Mi spiace, non ho mai registrato da solo». «Lo so, per questo mi piacerebbe farlo». Vent’anni fa o poco più desideravo lavorare con quattro personalità, tutte importanti dal punto di vista emotivo: Marc, Stéphan Oliva, John Taylor e Bill Carrothers. Fortuna vuole che sia riuscito a lavorare con tutti e quattro.

Se in Francia molti pianisti riconoscono Copland e Carrothers come modelli, lo si deve anche ai dischi che lei ha prodotto attraverso Sketch, Illusions e Vision Fugitive.

Volevo provare cose nuove. Bill ha tentato più volte, soprattutto all’inizio, di propormi un piano trio, ma non ho mai ceduto, gli ho sempre fatto capire quali erano le mie intenzioni. Quando mi contattò perché della Sony non voleva più saperne, aveva già in mente un lavoro sulla Prima guerra mondiale con voce, clarinetto basso, coro; io invece ho preferito andare per gradi. Accettò di entrare in studio con Bill Stewart e Anton Denner, ma non voleva avere a che fare con un produttore. Gli interessava incidere per conto suo. Fui chiaro sin dall’inizio: «Senza di me davanti alla consolle non registrate neanche una nota». Ci trovammo a New York e ricordo molto bene che Bill, fatta eccezione per un paio di ritocchi, direi marginali, non prese in considerazione alcun suggerimento che feci io. Usciti dallo studio mi disse che avrebbe scelto le takes, l’ordine dei brani e che me le avrebbe inviate. Ancora una volta dovetti ribadire il concetto: «No, Bill, forse non ci siamo intesi: scelgo io ordine e takes». Non ci crederai, ma quando ci inviammo le rispettive selezioni erano quasi identiche: gli consigliai solo di scartare un brano di Monk che con il resto c’entrava poco. Qualche mese più tardi, a Parigi, Bill mi chiese cosa ne pensassi di «Ghost Ships». Gli risposi che non era male ma che avremmo potuto rischiare di più. Con molta onestà lui ammise che avrebbe dovuto ascoltarmi. Mi spiegò anche il motivo. Fino a quel momento aveva lavorato con produttori che gli chiedevano di alleggerire e semplificare di continuo, mentre io volevo spingere in un’altra direzione. Per me la musica di Bill è esigente, mantiene sempre un certo grado di difficoltà e perciò si presta a scelte anche audaci. Durante le sedute di «Armistice 1918» il clima era molto diverso, c’era un altro spirito. Bill mostrò subito una grande disponibilità all’ascolto. Al termine della prima mezza giornata avevamo già registrato così tanto materiale che mi sembrava quasi evidente suggerire di fare un doppio cd, i musicisti mi diedero del matto. Vado fiero di «Armistice 1918», ancora oggi è uno dei dischi cui tengo di più.

Perché Sketch terminò?

Perché sono incapace di gestire i soldi. Per me i soldi servono a fare delle cose, devono essere spesi. Mi dispiace molto per come è andata a finire. All’inizio ogni lavoro finanziava il successivo, ma a partire da un certo punto mi sono ritrovato impelagato in troppe produzioni, avevo fatto troppe promesse e di soldi – di soldi veri – non ce ne erano. Verso il 2004 la banca smise di aiutarmi. Bisogna considerare anche un altro aspetto, più generale. Il 2003 segna l’inizio della fine della vendita dei dischi. Tutte le previsioni erano in negativo di diversi punti percentuali, la situazione diventò insostenibile e iniziò un periodo difficile. Avevo perso tanti soldi, la depressione nervosa mi perseguitò per un anno e mezzo. Per uno strano gioco del destino, l’ultima produzione Sketch fu «Armistice 1918» e la nuova etichetta fu inaugurata da un altro disco di Bill, in piano solo, «Civil War Diaries».

Qui si apre il capitoletto Illusions?

Io e Bill vivevamo uno stato depressivo, anche se motivato da ragioni diverse. Torno a Sketch, una perdita che ha dell’incredibile. Universal France era interessata, ma la direzione europea si frappose dicendo che era fuori discussione produrre nuovi dischi. Di conseguenza la sede francese fece un passo indietro. Senza nuove produzioni non vedeva il motivo di acquistare l’etichetta.

Oggi l’etichetta appartiene ai giapponesi?

Sì, io non ho più nulla, ho perso tutto: nastri, diritti, archivi, persino il nome, che era la cosa alla quale tenevo di più. Avevo chiamato Sketch il mio studio grafico, molti anni prima di cominciare a produrre dischi. Quando ricominciai a produrre non mi restavano che illusioni, va da sé che decisi di chiamare (Illusions) la nuova etichetta.

Subito dopo «Civil War Diaries» però compare un’altra etichetta, Minium.

Nata da una collaborazione con il distributore francese Discograph. Minium è figlia di Sketch: ne riprende il look, ritroviamo gli stessi artisti. Purtroppo Minium ha avuto vita brevissima ma intensa, perché nacque in piena crisi del disco. Ho proseguito con (Illusions), che non è nemmeno distribuita – invio i dischi per posta alla ricezione dei soldi – e con Sans Bruit, la prima etichetta digitale francese, oggi defunta, insieme a Stéphane Oskéritzian e Stéphane Berland.

Fino a Vision Fugitive.

Il chitarrista Philippe Mouratoglou e il clarinettista Jean-Marc Foltz desideravano mettersi in proprio e volevano che mi occupassi dell’etichetta. Non intervengo nelle loro produzioni, che curano personalmente, ma in tutto il resto sì, dalla grafica all’imballaggio. Ho accettato perché mi hanno lasciato carta bianca e posso pure produrre. Era una proposta irrinunciabile. In un modo o nell’altro, dopo Sketch riuscii a ritrovare le motivazioni e ancora oggi continuo a darmi da fare.

Come è atterrato Stanley Cowell nel catalogo Vision Fugitive?

Una lunga storia, tra Sketch e Minium. Avevo proposto a Stanley un progetto molto ambizioso e assai complesso sull’attivismo politico negli Stati Uniti durante gli anni Sessanta, un periodo che lui conosceva bene. All’inizio non era affatto convinto. Sono dovuto andare a trovarlo per spiegargli come volevo articolare il disco.

Qual era l’idea?

Un lavoro costruito sull’alternanza di momenti in piano solo – nei quali avrei lasciato Stanley libero di improvvisare a piacimento, anche su materiale di quel decennio – e altri brani in cui suonava con contrabbasso, batteria e voce.

Con chi avrebbe dovuto suonare?

Con Anthony Cox al contrabbasso e basso elettrico, Idris Muhammad alla batteria e la voce di Ann Peebles. Avevo trovato un accordo con tutti ed erano pronti a registrare.

Perché non si fece?

Perché Minium chiuse le porte. Stanley rimase molto deluso. Con grande cortesia mi chiese di poter lavorare con i suoi allievi, trasformando l’idea iniziale in una specie di storia politica nero-americana. Per me non rappresentava un problema. Stanley suonò quel programma diverse volte, ho avuto anche l’opportunità di ascoltare delle registrazioni, ma erano un’altra cosa rispetto a come avevo immaginato io l’intero lavoro. L’opportunità di lavorare con Stanley tornò a galla grazie a Vision Fugitive. Il progetto iniziale era troppo caro, dovevo mettere da parte Ann Peebles, che rappresentava l’elemento «pop», se mi passi il termine. Alla fine virai verso un piano solo. L’organizzazione della registrazione non fu delle più facili. Stanley era già malato e io volevo a tutti i costi registrare in Francia. Ricordo ancora cosa gli dissi la prima sera dopo essere scesi alla Buissonne: «Ora capisci perché ho insistito perché tu venissi in Francia? Volevo che registrassi in un posto isolato, immerso nella tranquillità». Stanley rispose: «Sì, in effetti è meglio qui, lontano dagli Stati Uniti». Vi è una forte componente psicologica in quella musica.

 

Dark Tree / Bertrand Gastaut

Bertrand Gastaut

Bertrand, quasi dieci anni fa la nostra prima intervista si concludeva nel seguente modo: «Solo per chiarire: Dark Tree è il titolo di una composizione di Horace Tapscott. Ho scoperto questo musicista nel 1995 al festival di La Seyne-sur-Mer, era in tour con Sonny Simmons, del gruppo facevano parte anche James Lewis e John Betsch. Chiamare l’etichetta Dark Tree è quindi un omaggio a Tapscott. Potrei dire di più, ma sono un po’ a corto di tempo». Se dieci anni dopo hai un po’ più di tempo a disposizione, potresti dirmi qualcosa di più su Tapscott, ricordando che nel frattempo hai pubblicato due dischi a suo nome?

Tutto iniziò con quel concerto a La Seyne-sur-Mer. Avevo sedici anni e ci andai soprattutto per Sonny Simmons, che conoscevo perché «Ancient Ritual» (Qwest/Warner), pubblicato l’anno prima e ben pubblicizzato, aveva fatto un certo clamore. Non avevo mai sentito parlare di Tapscott prima di allora, quel che so è che mi sono subito innamorato di lui. Mi colpì il suo modo di suonare, che mi era sembrato influenzato da Monk; le sue composizioni: aiee! The Phantom e Sketches Of Drunken Mary; una prestanza e presenza scenica incredibili, di gran classe. Alla fine del concerto, comprai il primo volume di «The Dark Tree», con John Carter, Cecil McBee e Andrew Cyrille, edito dalla Hat Art. Per la cronaca, mi ricordo di averlo ascoltato in macchina il giorno dopo, mentre stavamo recandoci alla Fondation Maeght. Quel disco era e resta straordinario, e non fece altro che confermare le sensazioni provate durante il concerto. E altrettanto straordinario era il Tapscott musicista. Volevo saperne di più su di lui e cominciai a documentarmi. Per prima cosa mio padre tornò dagli Stati Uniti con due cd: «The Tapscott Sessions Vol.8» e «aiee! The Phantom». Nel 1998, al Jazz Record Center di New York, comprai un primo lotto di lp editi dalla Nimbus: «The Call» e il «Live At I.U.C.C», ambedue con la Pan-Afrikan Peoples Arkestra, un disco in solo delle Tapscott Sessions, e il primo volume del «Live At Lobero», in trio con Roberto Miranda e Woody «Sonship» Theus. Ogni nuova scoperta mi spiazzava e contribuiva ad ampliare la visione che avevo di Tapscott. Quando arrivò internet, la primissima ricerca che feci fu… «Horace Tapscott», ne sono quasi sicuro! Trovai una pagina con una discografia che ho stampato e accuratamente conservato. Nel 2001 mi trasferii a Parigi. A inizio anno fu pubblicata Song Of The Unsung, la biografia di Tapscott curata da Steven Isoardi. Venni a saperlo grazie a Daniel Richard, che me ne portò una copia dagli Stati Uniti. Quel libro mi convinse definitivamente: oltre che un musicista favoloso, Tapscott era un personaggio affascinante. Negli anni seguenti ho incrementato la mia discografia e continuato a cercare articoli e interviste fino alla pubblicazione, nel 2006, di un nuovo testo di Isoardi: The Dark Tree: Jazz And The Community Arts In Los Angeles, altro libro affascinante, che includeva un cd di registrazioni provenienti dall’archivio personale di Tapscott; un cd che qualche anno dopo mi avrebbe fornito delle idee…

Dark Tree era quindi un omaggio e anche una logica conseguenza?

Semplicemente il primo nome che mi era venuto in mente quando nel 2010 decisi di fondare un’etichetta. Mentre pubblicavo le prime registrazioni, tornava con frequenza regolare quel cd allegato al libro. Mi dicevo che, se quei brani erano stati pubblicati, da qualche parte dovevano essercene degli altri!

Il passo successivo?

Contattare Isoardi. Steven mi mise in contatto con gli eredi di Horace, ai quali spiegai che ero interessato a pubblicare registrazioni inedite. Ma non mi dissero subito di sì. Ero agli inizi, i membri della famiglia volevano vedere come si sarebbe sviluppata l’etichetta. Un passaggio importante fu la pubblicazione nel 2015 di «No U-Turn» del quintetto di Bobby Bradford e John Carter. Quello stesso anno decisi di andare a Los Angeles proprio per incontrare Bobby, Isoardi e la famiglia Tapscott, ma ho dovuto aspettare fino al 2018 per avere il via libera e pubblicare le due registrazioni della Pan-Afrikan Peoples Arkestra cui ti riferivi prima. Come già sai, a giugno, in contemporanea con la pubblicazione del trio Vinny Golia-Bernard Santacruz-Cristiano Calcagnile, è uscito «Legacies For Our Grandchildren» registrato da Tapscott nel 1995 con il suo working quintet: Michael Session, Thurman Green, Roberto Miranda, Fritz Wise più Dwight Trible. Tapscott, Don Snowden, che produsse la registrazione, e il manager David Keller non riuscirono a trovare nessuna etichetta interessata a pubblicarla.

Già che ci siamo, proviamo a ricostruire brevemente come sono emersi gli inediti storici che hai pubblicato.

Visto che con la famiglia Tapscott andava per le lunghe, Stevem favorì l’incontro con Bobby, il quale mi disse che anche lui aveva un archivio. Dopo che gli ebbi parlato di John Carter, Bobby mi fece avere alcuni estratti di questo straordinario concerto, diventato poi «No U-Turn», che documenta un decennio, gli anni Settanta, in cui non vi era traccia discografica della sua collaborazione con Carter. Vinny mi ha detto durante il tour con Cristiano e Bernard – in un bar di Place de la République  – di avere una registrazione del Wind Quartet. Tornato a Los Angeles, ha digitalizzato il nastro e me lo ha inviato. Roberto Miranda mi ha proposto in maniera spontanea il live al Bing Theatre. Steven è la guida all’interno degli archivi di Tapscott, nonché mio contatto privilegiato a Los Angeles. Appena gli ho comunicato che avevo l’autorizzazione della famiglia Tapscott, mi ha inviato la registrazione dell’Arkestra e delle Great Voices Of Ugmaa al Lacma, dicendomi che doveva essere assolutamente pubblicata. Dopo un solo ascolto ho detto subito di sì. Di «Ancestral Echoes» conoscevo uno dei brani, era incluso nel famoso cd del libro. Alcuni musicisti non vedevano l’ora che qualcuno si occupasse di quella registrazione. Mentre di «Legacies For Our Grandchildren» posso dirti che era una registrazione fortemente voluta da Tapscott. Ci teneva molto. Aveva scelto il titolo, selezionato i brani, voleva che venisse pubblicata quand’era ancora vivo.

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