Maria Pia, ci parleresti di come è nata l’idea di questo nuovo disco?
L’idea è nata alla fine del secondo lockdown, quando ho trovato nella scrittura un rifugio di concentrazione; mi sono ritrovata a scrivere racconti e a leggere moltissimo sul tema femminile, grazie a diverse geniali letture propostemi dalla cara Rossana Campo, brillante scrittrice e didatta di laboratori di scrittura. In particolare, sono rimasta colpita dal bellissimo saggio/memoir Memorie della mia inesistenza, di Rebecca Solnit. Descrive il proprio percorso di formazione. Nelle sue parole sulla tendenza femminile «rimpicciolirsi», in contraddizione con il desiderio di esistere e vivere una vita piena, nei racconti di suoi progetti e traversie professionali, ho sentito che c’era il vissuto non solo mio ma di tantissime donne. Ho sentito che c’era tanto da riflettere, da far emergere in senso positivo, e che in questa fase di maturità della mia vita potevo parlarne bene in musica. Con serenità.
Le composizioni originali, sono firmate da te e Bortone. Come avete proceduto? Intendo: avete lavorato a quattro mani insieme, oppure vi siete divisi il carico di lavoro?
Ho scelto delle composizioni di Matteo Bortone che avevo già avuto modo di cantare con lui, ma in origine senza testo. Ho sentito che quelle strutture ritmicamente complesse, ma con spazi improvvisativi molto liberi, potevano essere un ottimo ambiente sonoro per delle spoken word. Sono nate così Dispossession, in cui ho adattato due poesie del poeta Gabriele Frasca, e The Elephant In The Room, con un testo mio. Il terzo brano originale Love Must Be This nasce da una sincronizzazione: ho ascoltato un bordone armonico/melodico molto bello che Matteo aveva realizzato con l’elettronica e ho sentito che poteva essere il vestito ideale per una poesia di Edna st Vincent Millay che mi girava nei pensieri da tempo. E così è stato. Devo dire grazie anche a Giacomo Ancillotto, con lui ho cominciato a selezionare/scartare, inanellare i brani non originali che sentivo potessero essere esplicativi di alcune tesi che volevo esporre. Ci abbiamo lavorato su e con la sua e mia elettronica. Abbiamo poi provato tanto, per trovare gli giusti sviluppi delle dinamiche, dei colori, per avere delle strutture elastiche su cui muoversi come in un flusso. È stato decisamente un bel lavoro di gruppo.
Leggo nella presentazione del disco, che hai tratto ispirazione da alcune grandi scrittrici come Virginia Woolf, Rebecca Solnit, Margaret Atwood. Quali sono stati, in particolare, i libri che hanno ispirato «This Woman’s Works» ?
Come ti dicevo, ricordi della mia inesistenza, Una stanza tutta per sé di Virginia Wolff, Esercizi di Potere ed altri libri di poesia e prosa della Atwood, la raccolta L’amore non è cieco di Edna St Vincent Millay, Memorie di Ragazza ed altre pagine di Annie Erneaux , Lo spazio delle donne di Daniela Brogi.. ho ripreso tra le mani The beauty myth di Naomi Wolf, un libro molto importante per me in anni più giovanili … Ma potrei menzionarti tante altre magnifiche penne.

Musacchio_Ianniello_Pasqualini_Fucilla
Parliamo dei tuoi nuovi compagni d’armi. Chi sono e come mai hai scelto proprio loro?
Per la prima volta faccio un disco a mio nome senza un pianoforte, mio strumento di elezione dopo il canto, e presenza costante in tutti i dischi che ho registrato. Ho sentito che per questo «discorso» avevo bisogno di un suono elettrico, e di straniamenti elettronici. Di delicatezza e anche furia! Dunque ho scelto i musicisti in base al loro suono e al loro approccio, li ho immaginati nel contesto che si stava delineando, ma mi sono messa anche a disposizione di loro modi di procedere diversi dai miei abituali. I musicisti della mia generazione hanno per la quasi totalità una lunga pratica di club, di tanto fare insieme “sul palco“, anche con non moltissime prove; orecchio e intuito fulminei; in questi musicisti ho trovato invece un modo di fare molto progettuale, la necessità di provare molto, di “preparare “ molte cose. Molta disciplina e molto pensiero progettuale, con meno interesse verso solismi acrobatici. Bello! Da tempo ero in contatto con Matteo e avevamo suonato insieme, Il suo orecchio da “samurai“ e la sua capacità di scrittura complessa insieme a una bella smania creativa, mi sono congeniali. Mi ha portato alla Casa del Jazz a sentire un bel concerto di Simone Alessandrini, e lì c’era Giacomo Ancillotto. Lì ho avuto «il colpetto al cuore»: Giacomo ha un suono in sé fantastico, un uso camaleontico dell’elettronica, profondo, pieno di rimandi e di suggestioni. L’ho invitato a far parte del gruppo il giorno dopo! Avevo sentito girare il nome di Evita, poi l’ho ascoltata e anche qui amore a prima vista; è fantastica. Giovanissima e centratissima, sempre in ascolto e in dialogo sul palco. Mai una nota dimostrativa. Suona «dentro». Una bellezza! E poi la tromba lirica di Mirco Rubegni, che ho sentito molte volte con Petrella, il suo suono mi ha sempre commosso , ha una sua poetica non convenzionale, sincera, mai “plastica “. Fin dalle prime prove ho capito che la miscela funzionava, almeno per me!
Alceste Ayroldi
*L’intervista completa sarà pubblicata sul numero di agosto della rivista Musica Jazz