Salve Maestro Albonetti, mi piacerebbe partire dalla standing ovation che le è stata tributata alla Carnegie Hall di New York. Ci potrebbe dire in quale occasione?
Era il 7 Marzo, 2009. Ricordo indelebile, serata ricca di emozioni grazie anche ad un caloroso pubblico, in una cornice come quella, un teatro famoso a Manhattan e senza dubbio il sogno di molti musicisti. Serata sold out, pubblico folto, giovani, intellettuali, businessmen ed anziani signori e signore che di quel teatro hanno fatto un punto di incontro. Nelle file davanti una giovane donna orientale in pelliccia, elegante, affascinante nel suo sguardo assorto sul palco, e un allegro settantenne pronto ad alzarsi ed applaudire ogni qualvolta la musica si interrompeva, lasciandomi un attimo di respiro tra un pezzo e l’altro. The space in between, lo spazio di silenzio che non è vuoto, quel momento di sospensione tra la fine dell’ultima nota e lo slancio degli spettatori verso l’applauso. E’ quello il momento in cui si unisce il mio respiro con quello del pubblico e in cui percepisci il fluire delle emozioni e quel filo che ci lega.
Tornando indietro, quando ha imbracciato per la prima volta il sassofono e chi è stato il suo mentore?
Quando ero bambino andavo a scuola dalle suore: Il collegio che frequentavo si chiamava Santa Umiltà di Faenza. La mia maestra suonava il pianoforte e organizzava sempre una piccola orchestrina all’interno della classe dove si suonava la musica folk, il liscio, per intenderci. Un giorno venne a trovarci un maestro, che per fare una donazione lasciò alla scuola un sassofono e una tromba. Fu chiesto a tutti noi se ci sarebbe piaciuto suonare uno di quegli strumenti, e io ho alzato subito la mano per il sassofono. È stata una cosa assolutamente istintiva, perché ero attratto dalla forma dello strumento, questa forma a pipa. Poi naturalmente è iniziato a piacermi tantissimo anche il suono, forse perché è lo strumento che si avvicina di più alla voce umana, uno strumento molto versatile, si adatta al classico al jazz, al tango, alla musica pop.
Invece, i suoi studi sono partiti dal Conservatorio di Pesaro ma, in seguito, sono approdati negli Stati Uniti dove ha conseguito anche un dottorato. Perché ha preferito lasciare l’Italia?
Altro ricordo bellissimo, i miei studi al Conservatorio di Pesaro. Lì presi il diploma, poi, avendo sempre avuto il sogno di studiare negli Stati Uniti, a ventitré anni sono partito. Il mio amore per l’America lo coltivavo da anni, da quando facevo lezione con il mio maestro nella piccola scuola di musica che frequentavo da bambino. Mi fece imparare una melodia, poi mi portò in una classe dove c’era lezione di clarinetto e mi fece suonare. Fu lì che il maestro mi disse: «Ricorda che se vuoi diventare bravo, devi andare a studiare in America». Con queste parole in mente son partito, senza conoscere l’inglese, e ho conseguito il Master of Music Degree alla Bowling Green State University in Ohio. Due anni dopo la fine del Master, mi sono iscritto al programma di dottorato presso la Michigan State University.

Maestro Albonetti, qual è il suo rapporto con l’Italia?
Il mio sax mi ha permesso di esibirmi e di viaggiare in tutto il mondo. Ovunque vada ritrovo pezzi d’Italia. Il nostro è un paese unico e straordinario in cui vivere per alimentare l’animo artistico e la bellezza. Purtroppo non lo è per il lavoro, ma non si può avere tutto, e questo è un tema ormai vecchio, come il nostro paese che non cambia.
Leggo che lei si sente un interprete e sostenitore della musica contemporanea. Vorrebbe spiegarci meglio cosa intende con questa affermazione?
La musica contemporanea è il presente. La musica si è trasformata nel tempo insieme al modo di pensarla, di concepirla e di usufruirne. Gli strumenti si trasformano insieme a questo cambiamento. Sono molto curioso e fiducioso nelle capacità sonore, timbriche e tecniche del mio strumento e sono alla continua ricerca di un espressività al passo con i tempi.
A tal proposito, non posso esimermi dal chiederle della sua collaborazione con Luciano Berio. Come vi siete conosciuti e come è andata la vostra collaborazione?
Ho conosciuto il maestro Luciano Berio da giovanissimo. Avevo diciannove anni quando venni chiamato per una produzione insieme all’Accademia Bizantina per il Ravenna Festival. Il maestro dirigeva alcune sue composizioni che richiedevano il sax. Esperienza straordinaria che mi aprii a nuovi linguaggi musicali. Continuai a collaborare con il maestro anche durante i miei primi anni di studio negli USA. Non a caso, mi laureai presso il centro di musica contemporanea della Bowling Green State University, Ohio, con una tesi sulla performance e guida all’interpretazione delle Sequenze per sax del maestro Luciano Berio.
Vorrei passare a parlare del suo progetto sulle musiche di Astor Piazzolla. Perché ha scelto Piazzolla e quando il compositore e musicista argentino è entrato a far parte della sua vita artistica? Piazzolla entrò nella mia vita il 4 luglio del 1992. Alla televisione davano l’annuncio della morte di Astor Piazzolla e la Rai gli dedicò un tributo. Fui catturato subito dalla sua musica. Oltre a incarnare i ritmi audaci del tango argentino, i brani originali di Piazzolla evocano le sue origini culturali e musicali italiane, le dissonanze del jazz e del klezmer diffuse nelle vie del Lower East Side di New York, dove viveva la sua famiglia negli anni ’20. La potenza di quelle note continua ad affascinarmi da quel giorno.
Quali criteri ha seguito per selezionare il materiale di Piazzolla da utilizzare nel suo progetto anche discografico «Romance del Diablo»? Grazie a Piazzolla il tango esce dalle milonghe per entrare nelle sale da concerto. Le sue innovazioni comprendono un linguaggio armonico più ricco, un ruolo defilato del cantante, l’eliminazione dei ballerini e di altri aspetti del «tango show», portando l’attenzione degli spettatori sulla musica. Viene così meno il ruolo di supporto al ballo. Piazzolla finirà per ottenere l’apprezzamento e la fama tanto desiderati nel mondo della musica classica, paradossalmente attraverso il tango, il suo tango! Ho cercato così di adattare la sua musica all’interpretazione del sassofono. Nel lavorare all’orchestrazione di questo progetto il mio obiettivo principale è stato quello di preservare il pensiero originario di Piazzolla. Ho trascritto per sax soprano quello che in origine era per bandoneón. Ho alternato brani noti alle Quattro stagioni di Buenos Aires che non erano state composte da eseguire come un unicum.
Disco che fa il paio con «Amarcord, d’un Tango». Piazzolla a parte, cos’è che la lega all’America Latina?
L’amarcord, in romagnolo, è il ricordo, il pensiero nostalgico del passato. Qui, rievoca l’idea di unire due strumenti, il sax e il bandoneon, inventati entrambi nella metà del XIX secolo. Questo legame è racchiuso nella storia stessa dei due strumenti: il bandoneon, nato come sostituto più agile dell’organo nell’ambito della musica sacra in Germania, viene portato dagli emigranti tedeschi a Buenos Aires, dove diventa il protagonista del tango, musica animata da suggestioni ritmiche provenienti dall’Africa e legata in maniera indissolubile alla danza. In particolare sono legato alla musica argentina che rappresenta la commistione tra l’idioma locale con quello degli emigranti. E’ il legame tra il senso del ritmo latino con l’espressività della melodia italiana.
Sposto la sua attenzione al suo lavoro discografico «Postcards From Italy», pubblicato a ottobre 2023. Innanzitutto vorrebbe spiegarci le ragioni di tale titolo?
Questo album è un omaggio all’italianità, alle mie radici, a cui do concretezza attraverso l’immagine romantica di un viaggio: «Postcards From Italy», sono le mie Cartoline dall’ Italia.

Come è nato questo progetto?
Da anni volevo fare un progetto con le composizioni di grandi autori italiani. La musica da film è considerata l’altra anima della musica classica del ventesimo secolo, ed i capolavori di Nino Rota ed Ennio Morricone sono amati dal pubblico di tutto il mondo. I temi che attraversano questo album fanno parte del più autentico stile di vita italiano; la passione e la malinconia, l’amore, l’amicizia e la violenza, che qui trovano la loro più alta espressione artistica. Era il 2002 quando ebbi il piacere di essere invitato per la vigilia di Natale a casa del Maestro Riccardo Muti. Grande fu l’emozione di incontrare lì anche il Maestro Ennio Morricone. Parlammo di musica e di vita condividendo il buon cibo. Ero affascinato dalla sua arte, dal potere delle sue melodie così capaci di arrivare direttamente al cuore. La centralità della musica, il compositore in primo piano, il cinema come sfondo neutro, necessario ma non sufficiente. Morricone mi esponeva il suo pensiero lucido attraverso una geometria rigorosa, un intersecarsi di punti d’attrazione da e verso la pratica della scrittura sul pentagramma. Dopo tanti anni da quell’incontro Chandos Records mi ha chiesto di realizzare un terzo disco dove fossero esaltate le mie caratteristiche espressive e liriche attraverso brani noti, capaci di arrivare con immediatezza alle persone. Nel ricordarmi di quella sera col Maestro e delle sue melodie immortali, fu facile immaginare questo mio lavoro così strettamente legato al mio vissuto. Non ho mai conosciuto di persona Nino Rota, che ha scritto le musiche di quasi tutti i film di Federico Fellini, ma è un autore a me molto caro. La musica di Nino Rota è un crogiuolo di musica classica, opera e musica popolare, motivi e ritmi tradizionali, espressione chiara di una cultura di profonda matrice italiana. Lui rappresenta la mia infanzia, la mia gente e la mia terra così ben espresso in quel capolavoro felliniano che è Amarcord. Il regista diede precise indicazioni per la colonna sonora: “fa un motivo allegro ma che sia triste, un motivo vecchiotto ma che sia nuovo, un motivo spensierato ma patetico”. Questo è per me il riassunto sonoro che più ricorda la Romagna, la terra dove sono cresciuto e vivo tutt’ora.
I suoi ultimi tre dischi li ha realizzati con altrettante orchestre. E’ solo una coincidenza, oppure l’orchestra è la formazione che predilige?
Il mio sogno è sempre stato quello di fare il solista con l’orchestra, in particolare con l’orchestra d’archi. Nel caso del disco Postcards from Italy mi sono orientato verso un tipo di orchestrazione più cameristica, con pianoforte e sassofono soprano solista, discostandomi dalle versioni sinfoniche per le quali le colonne sonore erano state composte originariamente; l’obbiettivo era quello di realizzare un progetto agile, e che potesse anche valorizzare il suono versatile del saxofono soprano utilizzato al posto dello strumento solista originale, fosse esso un oboe, un clarinetto, un flauto o anche un corno inglese.
Lei svolge anche attività didattica. Quali sono gli elementi/caratteristiche che lei ritiene che i suoi allievi devono presentare per poter diventare dei musicisti professionisti?
Rigore sul lavoro, importante quanto la quotidianità dei rapporti umani. Il rispetto verso gli altri e l’investimento sulla propria crescita personale.
A proposito della sua attività didattica, lei ha insegnato – e insegna – anche moltissimo all’estero. Quali sono le differenze che lei nota tra l’impianto didattico-burocratico italiano e quello di altri Paesi?
I luoghi preposti alla formazione musicale all’estero e specialmente negli Stati Uniti sono delle vere e proprie aziende in cui bisogna ottenere dei risultati. Il docente è tenuto a mantenere un attività artistica e ad ottenere dei progressi con gli allievi che segue. Periodicamente viene valutato. Trovo che questa formula sia utile per mantenere un livello qualitativo alto. Anche gli alunni da parte loro nel momento in cui entrano in questo sistema devono ottenere i risultati programmati. Attraverso questa logica meritocratica si è motivati a fare sempre meglio e anche il riconoscimento economico è proporzionale ai risultati che si ottengono.
Che fine ha fatto il Transcontinental Saxophone Quartet?
Il mio quartetto di sassofoni, lo adoro. Nato nel 1993 quando studiavo negli Stati Uniti continua ad esistere. Un italiano, un cipriota e due americani … sembra l’inizio di una barzelletta, ma in realtà tra noi esiste un amicizia e legame profondo. Cosi ogni anno programmiamo un piccolo tour di concerti per stare insieme, suonare e ritornare ad un periodo spensierato della nostra vita.
A suo avviso quali sono i sassofonisti che hanno contribuito in modo determinante allo sviluppo dello strumento?
Non mi sento di dare un nome che derivi da un determinato ambito musicale. Il sax si presta ad una continua evoluzione quindi posso dire per me è importante tanto il suono dei jazzisti Johnny Hodges, Charlie Parker, John Coltrane, Dave Samborn, Michael Brecker, Branford Marsalis, quanto i classici come Arno Bornkamp, Claude Delangle, Nobuya Sugawa, ma anche Kenny G e Fausto Papetti hanno sicuramente detto la loro.
Come descriverebbe il rapporto con il suo strumento? Quali sono le sue qualità più importanti e come influenzano i risultati musicali e, forse, anche la sua performance?
Ho un bellissimo rapporto con il mio strumento. Rappresenta la mia voce delle parole dette e del inesprimibile. E’ il veicolo principale attraverso cui comunico. Il mio approccio semplice e naturale rappresentano per me il punto di partenza per soddisfare il mio bisogno di continua ricerca.
Quali sono i suoi prossimi obiettivi e quali i suoi prossimi impegni? Sono in programma una serie di concerti da solista con varie orchestre in Italia e all’estero e l’avvio di un nuovo progetto discografico sulla musica barocca.
Alceste Ayroldi