Lou Reed è morto da undici anni ma non è stato dimenticato, e nessuno ha intenzione di farlo. Laurie Anderson, la vedova, si sta piuttosto prodigando per mantenere al meglio le opere già note e per far conoscere pagine segrete rimaste negli archivi. Un paio d’anni fa era uscita una interessantissima raccolta, «Words & Music», dove si illuminava il buio luogo in cui erano nate canzoni come Heroin, I’m Waiting for the Man, Pale Blue Eyes; provini del maggio 1965, due anni prima di quando il mondo avrebbe conosciuto quel geniale tormentato storyteller e la band nata intorno alle idee sue e di John Cale, i Velvet Underground.
Ora i responsabili dei Lou Reed Archives tornano su quelle piste giovanili con un cd («Why Don’t You Smile Now», Light in the Attic) che si spinge ancora più indietro, al lavoro del giovane Lewis come autore, cantante e chitarrista per un microscopico gruppo discografico, Pickwick International, specializzato in furberie e piccoli inganni su vinile; quelli che da noi una volta, adesso non so, si chiamavano «dischi da bancone». Erano singoli o album venduti a basso prezzo che alludevano a grandi successi e a mode del momento ma invece delle versioni originali presentavano copie o emulazioni più o meno maldestre. Siamo all’opposto del mondo che si è soliti associare a Lou Reed, i gradini più bassi della retroguardia discografica anziché la visionaria avanguardia; ma è storia vera, e uno dei gusti di questa antologia è proprio il contrasto fra le operine «alimentari» che il ragazzo non ha vergogna di produrre e i sogni di altra musica che comunque continua a coltivare. Sarà fra l’altro un lavoro utile perché, sorpresa nella sorpresa, anche quella manovalanza da poco servirà a modellare un grande talento in sboccio.
Lou Reed approda alla Pickwick nel settembre 1964. Ha ventun anni, a giugno si è laureato cum laude in letteratura inglese alla Syracuse University e la sua prima preoccupazione è stata quella di farsi riformare dal servizio militare – missione compiuta, grazie a una fastidiosa epatite e a qualche pillola ingoiata per disturbare la psiche. I genitori lo vorrebbero a casa e poi ad aiutare il padre nella ditta famigliare di contabilità, ma lui ha idee diverse. Ama la musica giovane, da ascoltatore e non soltanto, e può vantare qualche show con band amatoriali e perfino un singolo, So Blue / Leave Her For Me, registrato con il gruppo degli Shades quando aveva sedici anni. Ascolta di tutto, e sembra attratto specialmente da certe forme di musica radicale; ai tempi della scuola aveva fatto il dj per una piccola stazione radio e il titolo della trasmissione (Excursions on a Wobbly Rail, da un pezzo di Cecil Taylor) era tutto un programma. La fidanzata di un amico gli presenta un giovane discografico, Terry Philips, e Lou afferra al volo l’occasione.
Philips è poco più grande di lui e ha un ruolo di responsabilità in un gruppo discografico che vuole espandersi, Pickwick International appunto. Cercano giovani autori svelti e con idee brillanti, per competere con i grandi team del Brill Building; è l’epoca di Cynthia Weil e Barry Mann, Ellie Greenwich e Jeff Barry, Gerry Goffin e Carole King, compositori dalle mani d’oro, ragazzi che passano le giornate nei loro uffici e poi in studio a sfornare hits per i colossi dell’editoria musicale. Philips non sta al Brill Building, lavora in un tetro magazzino a Long Island dove sono stipati pacchi di singoli e lp a 99 centesimi e, in un angolo, uno studiolino con un pianoforte malandato e un registratore a bobine. L’umore non è depresso però, si sognano tempi migliori, e per quello appunto Philips sta costruendo una sua squadra di compositori, cantanti e chitarristi. Alla fine ne sceglie tre, fra cui il giovane Reed; con lui ci sono Terry Vance, che si fa chiamare anche Jerry Pellegrino, e Jimmy Sims, alias Jim Smith. La paga è 25 dollari la settimana, tutto compreso; nel senso che le canzoni che usciranno da quelle giovani menti non frutteranno agli autori un solo quattrino.
È una proposta da strozzini ma Lou accetta, anche se alla fine resisterà solo pochi mesi; troppo stress, troppi vincoli, «ci chiudevano in una stanza e ordinavano: scrivete dieci pezzi West Coast e dieci Detroit», poi di corsa in studio «e in un’ora o due registravamo materiale per tre o quattro album». La firma era sempre o quasi collettiva e non venivano accreditati i ruoli in studio, così che oggi si deve andare per tentativi, per suggestioni, nell’attribuire a Lou Reed questo o quello. Alla fine «Why Don’t You Smile Now» presenta venticinque brani davvero millegusti, compresi alcuni timidi azzardi (ma forse meglio «azzanni») di rock abrasivo, per niente facile. A corredo, Lenny Kaye, grande studioso rock nonché storico chitarrista di Patti Smith, ha scritto un’appassionata introduzione; mentre Ritchie Unterberger, instancabile minatore dell’underground, fornisce lunghe, dettagliatissime note.
Siamo in un mondo musicale dimenticato, all’alba della British Invasion, alla fine di quel regno di mezzo fra il rock & roll originale e la nuova musica Sixties. Vanno di moda i gruppi surf, i dischi Motown, i complessi del beat inglese, e Phil Spector spadroneggia con i girl groups e il suo granitico wall of sound. L’ordine è battere quelle piste, inventarsi capelloni di Liverpool anche senza passaporto, audaci surfisti anche se non si sa nuotare, cantanti doo wop o mélo per quanto siano finti sospiri e lacrime. E in fretta anche, senza troppi scrupoli. Nell’impagabile foto di copertina si vedono i quattro autori con cartelli in mano che spiegano la cinica filosofia Pickwick. Il cartello di Lou è eloquente: «Non state ad ammazzarvi per ottenere qualcosa di meglio». Reed e la sua squadra eseguono. Sei brani dell’antologia, per fare l’esempio più fantastico, appartengono a una compilation di artisti vari, «Soundsville!», che propone un giro turistico delle musiche più in voga dell’epoca. Si toccano New York, Filadelfia, Detroit, l’Inghilterra, la California, si evocano il surf, le corse in moto e in hot rod, la musica dei campus, in compagnia di musicisti che poi son sempre gli stessi, che di volta in volta cambiano cappello spendendo sigle improbabili. Si passa dal mélo degli Hi-Lifes al garage kinksiano dei Roughnecks, dai falsetti degli Hollywoods (che naturalmente rappresentano la California) alla vocina esile di Jeannie Larimore, piccola Petula Clark che canta di Johnny che Won’t Surf No More. Non tutto è dozzinale, e proprio Lou Reed fa colpo con una sua canzone di vita motociclistica, Cycle Annie, interpretata dai fantomatici Roughnecks. Per una volta i ruoli sono invertiti, è la donna a guidare, e Lou sviluppa la storia con quel piglio ripetitivo ipnotico che farà poi la sua fortuna.
Son tutti pezzi di due minuti e mezzo, anche meno, un ingegnoso juke box di echi, allusioni, inganni auditivi, dove sembra di sentire i Four Seasons e invece sono i Beachnuts (Sad, Lonely Orphan Boy, un inedito), dove la Beverley Ann di We Got Trouble evoca come una medium lo spettro di Martha Reeves e Phil Spector è il convitato di pietra, assente eppure citatissimo, e desiderato, lui e le sue Ronettes e Shangri-las che abitano canzoni come Really Really Really Really Really Really Love o Tell Momma Not to Cry.
C’è posto anche per i Beach Boys, che ispirano un intero lp di cover Pickwick a nome Surfriders. Lou Reed passerà la vita a parlar male di quei tipi da spiaggia eppure in quei giorni difficili gli tocca anche quello, ripassare con gessetti doo dop dop il loro songbook. Alla fine i brani più convincenti sembrano quelli più spigolosi, come Sneaky Pete dei Primitives, in cui si possono trovare tracce del tenebroso mondo Velvet che verrà, o Wild One (Terry Philips) e Ya’ Running But I’ll Getcha (The J Brothers), in cui par di capire che l’acuminata chitarra sia quella di Lou.
Quei mesi di folle immersion dalle nove di mattina a mezzanotte, e qualche volta oltre, finiscono per segnare il giovane autore, che ha ben in mente quel che vorrebbe scrivere e invece gli tocca comporre come «una Ellie Greenwich sfigata, una Carole King dei poveri». A un certo punto però balena un’occasione che potrebbe essere un lieto fine. Philips commissiona a Reed un pezzo da lanciare in grande stile come singolo e Lou se ne esce con un assurdo «ballo dello struzzo», The Ostrich, che prevede che qualcuno si getti a terra sulla pista e gli altri lo calpestino. Non è l’unica idea folle del brano, che si sviluppa con una monotona cadenza tipo Louie Louie e fragorosi rumori di pubblico; un’altra trovata estrema è che tutte le corde della chitarra sono intonate sulla stessa nota – «ostrich guitar» l’ha definita Lou Reed, e se ci fate caso le note interne del primo lp Velvet riportano lo stesso termine, quasi a segnalare una continuità. Per incidere The Ostrich e promuoverlo, Lou Reed organizza un quartetto, The Primitives, con un giovane violista gallese che ha conosciuto da poco, John Cale, un musicista che abitualmente collabora con LaMonte Young, Tony Conrad, e uno scultore che si diletta come batterista, Walter DeMaria. Diventeranno tutti più o meno famosi ma quel consorzio durerà pochissimo; giusto qualche data nella prima parte del 1965 fra New York e gli Stati dell’Est, mentre le vendite del disco non decollano e le speranze si affievoliscono. A quel punto Lou Reed è a un bivio, e per fortuna sceglie la strada giusta. Si libera della Pickwick e con John Cale decide di procedere in autonomia, appoggiandosi ai provini che ha appena registrato, concentrandosi solo sulle canzoni in cui crede, nella lingua sonora che ha scelto, per quanto difficile. Avrà fortuna. Presto verranno gli incontri con Sterling Morrison e Maureen Tucker e nasceranno i Velvet Underground, e poi Andy Warhol e Nico, il disco con la banana, il Plastic Exploding Inevitable, e tutto ciò che all’epoca pareva stranezza ed eccesso oggi ci appare come storia, anzi Storia.