Ilaria si aggirava – bellissima – nei corridoi della Sapienza, mentre io lavoravo alla biblioteca di Storia contemporanea. Un giorno organizzammo una piccola festa, c’era anche una chitarra e lei improvvisamente si fece voce: era un brano di musica brasiliana e tutti rimanemmo in silenzio ad ascoltare quella sua interpretazione straordinaria. (…). Qualche anno dopo, scrivendo il mio primo romanzo Come un respiro interrotto, alla cantante protagonista di quella storia attribuii tratti suoi. Ilaria era davvero un’ispirazione, con quel modo di rendere meraviglioso qualunque suono, dalla canzone popolare al jazz. La nostra collaborazione, qualche anno più tardi, me lo fa ricordare come uno dei periodi più belli della mia vita artistica».
A parlare è lo scrittore Fabio Stassi, ed è proprio Ilaria Pilar Patassini la protagonista in questa pagina di una conversazione piacevolissima ma molto intensa, in occasione dell’uscita del suo album «Terra senza terra» registrato insieme al chitarrista Federico Ferrandina, al bassista Andrea Colella, al pianista Roberto Tarenzi, al batterista Alessandro Marzi e agli archi del Quartetto dei Solisti Lucani.
Cominciamo
Sono appena tornata da un concerto. E quando mi metto in viaggio con i musicisti per andare a suonare, praticamente è come se avessi otto anni. Periodo prepuberale, proprio.
E io la sento, una vena fresca nella tua musica, e non solo dal punto di vista degli arrangiamenti o dei testi: sento la voglia di migliorarti ogni volta e di decidere che questa cosa qui la devi fare, e la devi fare adesso. E questa è una cosa che non ha età, insomma. L’ho desiderata molto, quest’intervista con te. Fin dai tempi di «Ilaria y el mar» avrei voluto sapere se ovviamente ci fosse davvero Alfonsina dietro a tutto…
Era un album del 2021 che riportava un mio live ad Alghero realizzato per il Festival del Cinema delle Terre del Mare, che ogni anno inizia con un concerto di musiche legate al mondo del cinema. Riascoltando la registrazione, c’erano delle cose talmente belle che ho deciso di scegliere qualche brano e metterlo su un disco; in realtà il mio esordio discografico è del 2007 con un disco che si chiamava «Femminile singolare», scritto a sei mani insieme a Franco Piana, che ha composto parte delle musiche e tutti gli arrangiamenti, e a Fabio Stassi, che ho conosciuto mentre studiavo all’università. Un periodo prezioso, perché mi ha fatto incontrare le persone più importanti della mia vita, tra cui proprio Fabio che è una sorta di Dorian Gray… all’epoca sembrava un ragazzino e pensavo fosse uno studente. Abbiamo scritto insieme i testi e lavorato insieme a Franco per questo progetto, cui tengo ancora moltissimo e con il quale ho vinto il premio Musicultura nel 2007 per il brano Gente che resta.
Nel 2011 è uscito poi «Sartoria italiana fuori catalogo», album che invece ho scritto a quattro mani con Bungaro e Toni Canto, che si sono occupati della musica: prima invece avevo collaborato con l’ensemble Sinenomine, con cui ho lavorato dieci anni insieme ad Alessandro Girotto e Fulvio Maras, quindi comunque il jazz c’entra: sempre con questo ensemble ho potuto esibirmi con Gianluigi Trovesi, con il fisarmonicista francese Jean-Louis Matinier… Mi sono sempre mossa vicino al jazz e ho collaborato molto spesso con jazzisti.
Io le donne come te le chiamo «Les flâneuses»: donne che hanno «passeggiato sul jazz»…
Oui, je suis une flâneuse!!! Gli ultimi anni sono stati durissimi per chiunque, e in più ho anche avuto un figlio; avevo appena ripreso a lavorare nel 2019, con l’uscita dell’album «La Luna in Ariete», ed è durata quattro mesi: il tempo di fare promozione e andare in Canada per una tournée, più due o tre concerti, ed eccoci chiusi… Ci ho messo veramente moltissimo a riprendermi, perché ovviamente chi fa questo mestiere, nelle proporzioni in cui lo faccio io, svolge anche un’attività tra pubblico e artigianale. In realtà, pur avendo un’etichetta che mi produce – ora è la Parco Della Musica di Roma (diretta da Roberto Catucci, uomo molto brillante e talentuoso) – ci sono tutti gli altri aspetti collaterali: nel lavoro sono pignola, tutto dev’essere meno asettico e più coinvolgente, perché non amo l’approssimazione.
E questo si avverte ovunque nella tua musica. Ma qualcuno a volte ti ha chiesto di fare qualcosa che non fosse nelle tue corde? Secondo te è successo per esigenze di mercato, o magari per rispondere al fatto che tu sia molto bella?
Ecco! Quello è proprio un problema gigantesco. Solo adesso inizio a godermi la mia fisicità, ora che non ho più 25 anni e pur avendo avuto tutto il diritto di farne ciò che volevo. Però è sempre stato un problema; adesso è diverso, perché è diverso il tempo storico, è diverso il mio tempo anagrafico… Fondamentalmente ci sono alcuni aspetti sessisti che permangono anche e soprattutto per la mia generazione, per cui ora sto cercando di migliorare ciò che posso e seminare per chi verrà dopo di me. Però, ecco, non apparivo autorevole: nel momento in cui sostenevo che i miei testi li avessi scritti io, molti pensavano che non fosse possibile. Il fatto di avere questo tipo di immagine, legata a una vocalità facile, versatile, importante, ha reso veramente difficile apparire autorevole a certi occhi, per loro pregiudizi (in senso letterale) e per mia insicurezza, essendo stata cresciuta a anch’io a pane e principesse, a quest’iconografia femminile che comunque non deve dare fastidio, deve sorridere sempre…
Tutto questo mi ha reso molto insicura e mi ha fatto commettere qualche errore all’inizio della mia carriera, sbagli che non si recuperano più. Posso dire che in parte è responsabilità mia, ma c’è enorme responsabilità anche dell’ambiente culturale nel quale sono cresciuta, che è la cultura maschilista con cui sono venuta in contatto. Di cose che potrei raccontare ce ne sono una marea… Ci sono gli episodi eclatanti come i vari inviti a cena da parte di grandi personalità del mondo discografico, ma anche quelli più sotterranei come il produttore artistico che ti rinfaccia «Ma come, non sento la tua fragilità quando canti»! Eh. Perché siccome sei femmina, devi per forza esitare….
Mi pare anzi che la fragilità non sia proprio una tua caratteristica.
Quando faccio musica mi sento forte. Fragile magari in tanto altro, ma nel fare musica mai. Il palcoscenico per me è proprio «casa» perché è uno spazio dove io sono in comunicazione con tutti e sono veramente nuda. Nell’ultimo album «Terra senza terra» c’è la canzone che ha dato il La per trovare tutte quante le altre, ovvero Del dire addio, dedicata a Pierre Ruiz che era il mio discografico (morto improvvisamente nel 2020 in seguito a un malore, n.d.a.) e uno degli amici più cari, lontano anni luce da questi maschi di cui ti ho parlato. Quando l’ho eseguita le prime volte è stato un disastro sotto il profilo emotivo, piangevo senza alcun tipo di freno perché era proprio il mio modo di elaborare il lutto. Quindi in realtà per me il contatto con il pubblico è un contatto talmente vero che potrei avere di fronte il presidente della Repubblica e farei la stessa cosa che davanti a una persona comune. In questo senso sì: lì esprimo le mie fragilità, me lo prendo come spazio libero, per me la musica e l’arte e l’espressività sono il mio spazio libero. Quello che ha spiazzato un po’ le persone che avevo di fronte era proprio il fatto che io non possedessi nessun tipo di pratica seduttiva nei confronti del mio interlocutore, e quest’assertività e questo rifiuto a servirmi della tecnica modello «cerbiatta smarrita nel bosco» (recita e mima alcune parti da ragazza sprovveduta con occhioni sognanti). È tutto molto sottile, e non a caso nel mio album e nella mia vita vera di tutti i giorni io pago lo scotto di essere femminista fin da quando avevo sei anni.
A volte a me imputano il fatto di «scrivere da donna». E io penso: «Ah sì? Spiegami tu cosa significa di preciso»… Qualcuno ci prova: «Non utilizzi un buon gergo tecnico» «Racconti e non critichi…» eccetera. Ma non cambierò mai il mio modo.
Io, più che altro, a volte sono nella condizione di dover mettere in piedi una strategia, e mettere in piedi una strategia è molto faticoso. Richiede energia.
E tutta questa energia come è cominciata? Nel senso: quando è iniziata la forza che hai convogliato nella tua musica, quando hai compreso che non avresti potuto fare altro?
Mah, in realtà canto da quando ho avevo due anni… Ho iniziato a comprendere che quella fosse la mia strada a diciassette anni. Mio papà suona la chitarra e a casa mia si è sempre ascoltata parecchia musica, e sempre di ottima qualità (canzone d’autore, blues, canzone napoletana, classica…). Si passava davvero da Joe Bonamassa a Roberto Murolo in un soffio, o dai Pink Floyd a Lucio Dalla. Per me era una condizione normale e non ci ho mai fatto caso: in realtà pensavo di voler fare la scrittrice, o il presidente del Consiglio…
Saresti perfetta! Se fosse a elezione diretta ti voterei…
No, no, non ci penso proprio! Anche per una cosa del genere – o soprattutto per questa – devi esserci nato, aver studiato le materie giuste. Ho un rapporto di scrittura con una persona che fa politica ad alti livelli e che ogni tanto mi dice di provare: ma io ritengo che sia più serio farlo con vera competenza. In ogni caso, un anno della mia adolescenza l’avevo passato a Parig, per migliorare il mio francese. Un giorno avevo deciso di andare a visitare l’Opéra, mi sono intrufolata là dove era proibito passare e ho beccato una prova con una ballerina sul palco, con un pianista, un violoncellista e la coreografa… Da quel momento sono entrata indisturbata per molte volte ancora, ma un giorno in mezzo alla luce degli spot ho notato quella polvere che viene dall’alto e che vedi solo nei teatri: dieci secondi e mi sono detta: «Ma io qui mi sento a casa». Ho capito che avrei dovuto farlo anch’io. Non ho più cambiato idea, mi sono iscritta alla Scuola Popolare di Musica del Testaccio e lì mi sono trovata a fare delle prove con ragazzi molto più grandi di me, che mi avevano sentito cantare e mi avevano chiesto di provare con loro un repertorio di standard jazz e canzoni italiane anni Quaranta sul genere di Ma l’amore no. Ci avevano ingaggiato in un piccolissimo posto che si chiamava «Il Sottosopra» nel quartiere Monti a Roma con un palco di due metri per due, e mi chiamavano Cenerentola perché il patto con i miei era che a mezzanotte dovessi essere a casa. Dopo il liceo sono stata molto indecisa se iscrivermi al Conservatorio – cosa che poi ho fatto – o se tentare l’Accademia di arte drammatica. Alla fine, ha vinto il canto: forse perché era più immediato.
Qual era lo standard che cantavi e ti emozionava maggiormente?
I Got It Bad and That Ain’t Good.
Davvero? Che bella risposta. Un brano pieno di intervalli ampi, come te.
Ma sì, hai ragione! E comunque la scuola che mi ha riservato quel mio primo gruppo è davvero la cosa più importante che io abbia fatto a livello formativo, perché parallelamente poi studiavo le arie antiche in Conservatorio, dove frequentavo Canto classico. Per cui se dovessi fare qualche nome di cantante con cui mi sento a mio agio potrei dire Ute Lemper, Cristina Zavalloni o Anne Sofie Von Otter che ha inciso con Elvis Costello un disco meraviglioso come «For the Stars»… Ma ho sempre accostato il jazz a ognuna delle cose che ho fatto, e anche il mio produttore Federico Ferrandina (chitarrista, compositore e arrangiatore) viaggia tra jazz, musica contemporanea, world music.
Nel tuo ultimo disco compare anche un gran pianista come Roberto Tarenzi.
Siamo molto legati, oltre che nati lo stesso giorno!
Tutti i brani di «Terra senza terra» mi sono parsi tangenti al jazz, una cosa che adoro. I puristi si facciano pure una passeggiata altrove…
L’hai detto tu, non io, eh…
Mi prendo tutta la responsabilità! Scherzi a parte, ho amato questo tuo lavoro in tutte le sue sfumature più dense di colore, e quel colore non è pop. Mi dici tu di cosa si tratti?
Ma grazie di averlo percepito! In effetti io non sono una cantante pop, ed è per questo che all’inizio della mia carriera ho sgomitato così tanto. Ora voglio tornare in studio prestissimo. Qualche tempo fa ho fatto un concerto a Tirana (organizzato dall’Istituto Italiano di Cultura e dal suo direttore Alessandro Ruggera) dove mi sono sentita dentro il concerto «perfetto», in termini di repertorio. Dapprima ho eseguito le Folk Songs di Luciano Berio con un’impostazione mista e la copertura vocale per arrivare alle note più acute in una modalità classica, ma cameristica più che operistica. Successivamente con Ferrandina abbiamo suonato sei canzoni mie, voce e chitarra, intervallati da momenti di improvvisazione sua e mia; poi con il pianista Robert Bisha, direttore artistico di questo festival – che si chiama Cantare la Voce – ho eseguito due brani, uno della cultura popolare albanese e un altro in lingua arvanitica (ossia quella parlata dai greci albanesi). Dunque ho impiegato la mia voce in un concerto formato da musica contemporanea, classica, popolare, jazz, canzone d’autore, world music cantando in nove differenti lingue, perché poi nel bis e nel ter ho eseguito Fina Estampa, canzone uruguagia interpretata anche da Caetano Veloso e poi Era de maggio… Una delle poche volte in cui ho concluso un concerto sentendomi veramente sazia. Alla fine è un problema, quello della versatilità, perché la mia voce è come un motore che soffre se non ingrani le marce correttamente: ecco, in questo concerto ho inserito tutte le marce, dalla prima alla sesta. Dunque il mio obiettivo successivo è fare nuovamente qualcosa di analogo a questo concerto.
Il pubblico sarà stato magnifico, ma come ha reagito a questa tua modalità di esecuzione?
Era molto eterogeneo, in realtà, composto sia da persone competenti in campo musicale sia totalmente digiune di informazioni in proposito. Io sento il polso emotivo dello spettatore, la cosa che mi piace di più è iniziare un concerto e pensare a costruire emotivamente un «adesso ti prendo per mano e tu per un’ora e venti minuti stai con me, mentre ti porto in giro». Offro informazioni, emozioni, permetto il riposo, creo una tensione. Come un Luna Park: non perché voglio divertire, ma perché voglio accendere. E ogni volta che canto lo sento. Uno dei complimenti più belli che abbia mai ricevuto me lo ha fatto uno spettatore in Canada, che mi si è rivolto in inglese: «Non ho capito una sola parola di quello che cantavi, ma ho capito tutto ciò che hai detto». Impagabile.
Mi regali il potere dell’immaginazione, è davvero una sensazione stupenda. Nel tuo disco ho creato un chiasmo mio ideale (che in realtà è anche quello del disco) che ha come estremi Antefatto in Do minore – che mi hai detto essere la ninna nanna che cantavi al tuo bambino – e La tosse del sabato sera, pure con echi portoghesi, dal mio punto di vista….
Be’, uno dei dischi che ho ascoltato fino a consumarlo è stato «O Primeiro Canto» di Dulce Pontes.
Vorrei che tu mi parlassi di Chance, con questi archi stupendi.
Pensa che all’inizio era un brano che avevo scritto in francese, poi abbiamo deciso di farne una versione in lingua italiana (ma tornerò all’originale francese molto presto): nel tradurla avevo deciso di seguire un pensiero: «La devo riscrivere come farebbe Paolo Conte». Lui riesce a regalarti immagini straordinarie e a farti sprofondare nella poesia attraverso i suoi testi. Un altro che in questo riesce benissimo è Samuele Bersani…
Posso aggiungere Gianmaria Testa?
Ma certo! Grazie di averlo ricordato. In ogni caso, mettere tutto in un unico progetto è molto complesso: mi è stata data la possibilità, ancora una volta, di fare un disco «libero», ma dal mio punto di vista un disco se non è libero diventa solo un prodotto. Poi a volte mi chiedono: «Ma tu che genere fai?» (io a quel punto scatto e fingo di piangere disperatamente) e rispondo che c’è molto dentro, la canzone d’autore, il jazz, la musica cameristica, la classica e anche la world music e la musica popolare (vedi la mia collaborazione con Daniele Di Bonaventura). La mia collaborazione con i jazzisti è feconda, ma solo con quelli che si smarcano dall’ortodossia e con cui è realmente possibile creare veri dialoghi d’arte sul palco. Invece è molto difficoltoso essere stivata in un cassetto solo…
Lo so bene. Tornando al disco, nel mio cuore c’è Niagara. Pezzo favoloso, a mio avviso. Mi piacerebbe conoscere l’oscilloscopio delle tue emozioni, rispetto ai brani del tuo disco. Dove ha il picco?
Uhm… Si dice il peccato, ma non….
Perfetto! Ma ho ancora una curiosità. «Terra senza terra»: perché questo titolo? Tu lavori molto sui tuoi brani, molto sulle parole (e, come diceva Nanni Moretti, le parole sono importanti …) e questo titolo potrebbe andare in diverse direzioni. Qual è la tua?
In genere quando scelgo un titolo è perché mi sembra che possa avere più chiavi di lettura: in questo caso una delle principali è mettere in chiaro la mia «non-stanzialità» (tra l’altro continuo a non avere nemmeno il nome sul campanello, per me è faticoso anche se prima o poi dovrà cambiare, ‘sta cosa…); sto bene nei luoghi di limbo dove tutto è potenzialmente aperto e dove la mia immaginazione è totalmente libera. Ma è anche un riferimento ai due elementi in cui io mi ritrovo, che sono l’acqua e l’aria: quindi una terra impalpabile. Il testo del brano che dà origine al titolo l’ho scritto proprio in aereo, pensando al fatto che l’aria, al di là delle nuvole, se ne freghi del limite. Infine esiste anche un rimando ai cambiamenti climatici, e cioè al fatto che una terra privata della terra – come abbiamo visto accadere in Emilia – si ribella e altri elementi concorrono a squassarla; e per ultimo un riferimento anche alle migrazioni e quindi a chi ha una terra dentro di sé ma non ce l’ha fuori, non ha un’appartenenza. Tutto questo si riaggancia a un quadro che io spero di aver idealmente realizzato su tutto quanto rappresenta la «società liquida» di Zygmunt Bauman, dove si sgretolano i confini reali, i ruoli, i generi: da un lato è un momento di grande rivoluzione e al contempo di crisi d’identità, mentre dall’altro è anche causa ed effetto di quella che è la sola rivoluzione salvifica possibile, cioè quella che mette le donne in un posto di dignità e di equiparazione dei diritti che per migliaia di anni sono stati negati. Questa è stata la più grande ingiustizia della storia. Se questa cosa non si colma, il mondo va a scatafascio. «Terra senza terra» significa proprio quel punto di inizio.