La canzone popolare americana si è evoluta enormemente in un ventennio, quello compreso tra il 1910 e il 1930, grazie alle intuizioni di gente come Irving Berlin o come Jerome Kern su cui parolieri ispirati come Richard Rodgers e Lorenz Hart, George e Ira Gershwin, Cole Porter, Hoagy Carmichael, costruirono le loro fortune. Da quel momento in poi la canzone americana si impose come uno degli elementi guida della cultura del Novecento fornendo linfa vitale al jazz la cui energia ritmica e melodica iniziò a dipanarsi in un percorso geografico che, partendo da New Orleans e attraversando Kansas City, St. Louis, Chicago, giunse infine a New York sedimentando un chiaroscuro in cui eleganza, distensione, liricità e, perché no, un certo tipo di drammaturgia caratterizzarono un linguaggio che oggi possiamo definire intensamente americano. In tutto questo non va dimenticato il ruolo importantissimo del blues, sia nelle sue varianti rurali che nelle sue stilizzazioni urbane, il cui naturale connubio con la voce «nera» arriva direttamente ai nostri giorni per colorare la gran parte delle produzioni della musica afro-americana moderna, da Robert Glasper a Kevin Mahogany, da Erykah Badu ad Anita Baker. Se non si parte da qui non si può comprendere appieno il ruolo che cantanti come Bessie Smith, Billie Holiday, Mahalia Jackson, Fontella Bass, Shirley Brown, Betty Carter, Anita O’Day, Aretha Franklin, Ella Fitzgerald, Shirley Horn, Carmen McRae, Millie Jackson, Etta James, Abbey Lincoln, Nina Simone, Dinah Washington, Sister Rosetta Tharpe, Sarah Vaughan, e chi più ne ha più ne metta, hanno avuto nel delineare le coordinate di un intreccio di tradizioni così affascinante da lasciare ancora oggi una impronta indelebile in un pubblico, magari inconsapevole, che nonostante la volgarità imperante, continua ad emozionarsi in un equilibrio quasi impalpabile di integrità e seducente passionalità. Sarà anche per questo che quest’anno il Grammy nella categoria «Best New Artist» è andato a Samara Joy, una giovane ventitreenne del Bronx che dimostra, col suo modo di cantare, di possedere una maturità espressiva degna delle grandi vocalists del passato lasciando, vivaddio, a bocca asciutta la posticcia attitudine a riproporre schemi obsoleti e antiquati di gruppi come i tanto ingiustamente osannati e iper sopravvalutati Maneskin che concorrevano nella stessa categoria e, solo per questo, pensavano di vincere. Piccolo inciso: persino Pitchfork, un’autorevole webzine focalizzata in particolare sulla musica indipendente (indie rock et similia) – non Musica Jazz, che occupandosi prevalentemente di jazz potrebbe essere tacciata di parzialità – ha definito il loro ultimo album, «Rush!», «assolutamente terribile, a ogni possibile livello». Non possiamo che essere d’accordo. Ma torniamo a occuparci di cose a noi più vicine e, permetteteci, più serie. Di Samara Joy ci eravamo accorti un po’ di tempo fa (2021) in occasione della pubblicazione di «A Song Of Hope» del sassofonista Eric Wyatt in cui si cimentava in due brani, la rivisitazione di Fragile di Sting e la spirituale Say Her Name. Poi, nei mesi scorsi, la Verve ha fatto uscire sul mercato «Linger Awhile» il disco con cui ha vinto un altro Grammy come «miglior album di jazz vocale» (non è il suo debutto discografico, quello è avvenuto nel 2021 per l’indipendente Whirlwind) e tutti si sono prodigati nel tessere le sue lodi. Il New York Times ha scritto: «la precisione e la potenza della sua voce risaltano così forte all’orecchio dell’ascoltatore da lasciare di stucco… Così come Samara dimostra di essere perfettamente a suo agio all’interno della tradizione della musica afroamericana» celebrando con queste parole la comparsa sul mercato dello showbiz di una vera e propria rivelazione del canto jazz. La voce di Samara è un concentrato di swing, emotività, eleganza, sensualità e il suo «Linger Awhile» è un gioiellino, un prezioso distillato di emozioni, forse un po’ vintage,ma così misurate e coinvolgenti da non poterne fare a meno. Chiunque sia attratto dalle sonorità dell’universo afro-americano non può non lasciarsi sedurre da una musica così ben suonata e così avvolgente, per la quale il produttore Matt Pierson si è avvalsa del contributo di Pasquale Grasso alla chitarra (di Ariano Irpino in provincia di Avellino, ed è il miglior chitarrista del mondo secondo Pat Metheny), Ben Paterson al piano, David Wong al contrabbasso e Kenny Washington (un veterano) alla batteria. È un disco che abbiamo recensito un po’ di mesi fa ed eravamo sicuri che sarebbe successo qualcosa, certi che l’ascolto di questo lavoro avrebbe messo d’accordo il vecchio appassionato di jazz e il giovane seguace della moderna black music. Una voce senza tempo e un timing pazzesco, che derivano dalle grandi cantanti della tradizione afroamericano. Samara, in ogni caso, è una ragazza del suo tempo – prima di incidere era riuscita già a crearsi un grosso seguito su TikTok – e quello che ci ha colpito è stato il suo candore unito a uno sguardo che tradisce passione e che fa bene al cuore. Questa è la nostra intervista.
Mi racconti qualcosa di te?
Sono nata a New York. Sono cresciuta nel Bronx. La mia è una famiglia di cantanti gospel: mio padre è stato in tour con Andraé Crouch, importante cantante di gospel scomparso qualche anno fa. I miei nonni erano Goldwire e Ruth McLendon, che hanno cantato con i Savettes, il più importante gruppo gospel di Filadelfia. Sono cresciuta con mio padre che mi faceva ascoltare i dischi di Stevie Wonder e di Donny Hathaway: erano quelli i miei eroi ma anche la figlia di Donny, Lalah, George Duke, Musiq Soulchild. La soul music ha sempre avuto un forte impatto su di me. Mi sono innamorata del jazz alle superiori quando ho iniziato a cantare con le band della scuola, la Fordham High School For The Arts, poi ho vinto un premio come migliore vocalist durante un concorso al Lincoln Center, «Essential Ellington», e da lì è iniziata la mia avventura nella musica da professionista.
Tu sei molto giovane ma il tuo modo di cantare ricorda molto da vicino quello delle grandi cantanti del passato. Parlami delle tue influenze musicali…
L’hai detto, le grandi cantanti del passato, Ella Fitzgerald, Carmen McRae, Sarah Vaughan. Aggiungerei i nomi di Billie Holiday, Nina Simone. Il solco tracciato da costoro resta sempre ben nitido. E del resto è quello che molte di noi stanno seguendo nell’ultimo periodo. Penso alle mie colleghe Cécile McLorin Salvant o Jazzmeia Horn, per citare alcuni dei nomi che stanno facendo parlare di sé in questi anni.
«Linger Awhile» non è il tuo primo disco ma rappresenta il tuo debutto con una major. C’è un grande rispetto per la tradizione della musica afro-americana e i musicisti coinvolti (Pasquale Grasso, Ben Paterson, David Wong, Kenny Washington) si muovono nella tua stessa direzione. Qual è il tuo legame con la tradizione e quale il criterio col quale scegli i tuoi partners musicali?
Del mio legame con la tradizione ti ho già parlato. Mio padre con i suoi ascolti mi ha influenzato enormemente. Io stessa ho iniziato cantando in chiesa e, quindi, seguendo la tradizione della mia famiglia. Mentre il criterio con cui scelgo i miei partner musicali è molto semplice: canto con loro e, se mi diverto, se sento di condividere con loro delle buone vibrazioni, cerco di consolidare un rapporto cercando di farlo diventare il più duraturo possibile. È attraverso questo semplice processo che mi è capitato di esibirmi con vere e proprie leggende del nostro tempo come Christian McBride o il pianista Bill Charlap. Barry Harris è stato un mentore particolarmente importante per me. La sua influenza sino a quando è stato in vita è stata enorme. «Linger Awhile» è, in parte, dedicato a lui.
È vero che il jazz è maschilista? Se sì, quali sono le più grosse difficoltà che hai incontrato finora per attrarre l’attenzione su di te in questo mondo così difficile?
Il maschilismo nel jazz, come del resto in tutta la società moderna, è qualcosa che dovrebbe appartenere al passato. Non nego di aver avuto delle difficoltà, ma sono quelle di qualsiasi esordiente in un mondo ipercompetitivo. La mia famiglia di origine mi ha aiutato molto a superarle, e poi il fatto di essere ancora giovane crea empatia e aiuta perché, almeno qui a New York, i giovani musicisti hanno la possibilità di avere molte occasioni per farsi conoscere e, di conseguenza, di crescere in esperienza e in qualità.
Mi piace molto il tuo modo di accostarti agli standard. Senza sbavature, assolutamente fedeli agli originali ma con una voce davvero speciale. Sto pensano a brani come Misty, ‘Round Midnight, Someone To Watch Over Me che sono contenuti in «Linger Awhile». Molta gente sostiene che i grandi performers si vedono dal modo in cui cantano le ballads. Sei d’accordo?
Assolutamente sì.
Tu vivi a New York, un posto in cui, nonostante la pandemia, ha resistito una scena jazz molto vivace. Che rapporto hai con questa scena e quali sono secondo te i grandi giovani musicisti del jazz moderno?
Mi risulta davvero molto difficile risponderti perché New York è una fucina di talenti anche misconosciuti che puoi incontrare dappertutto, nei parchi, in metropolitana, ovviamente alle jam nei club. È New York il valore aggiunto, la sua atmosfera, l’umore che si respira nelle sue strade, nei suoi club. I musicisti, i tantissimi e bravissimi musicisti che la popolano andrebbero nominati uno per uno e francamente non li conosco tutti. Posso solo dirti che io sono sulla scena da circa sei anni e non ho ancora smesso di scoprire il suo fascino e la sua vitalità.
Hai un sogno che ti piacerebbe realizzare?
Continuare a cantare e fare in modo che la mia famiglia possa rimanere sempre orgogliosa di me.