I Poeti del Piano Solo

Grande successo di pubblico per la quinta edizione della rassegna fiorentina

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Firenze, varie sedi

9-12 maggio

La quinta edizione della rassegna I Poeti del Piano Solo – organizzata da Musicus Concentus in collaborazione con l’associazione Something Like This – è stata opportunamente anticipata rispetto agli anni precedenti, quando il suo svolgimento in settembre finiva per collocarsi a ridosso di altri eventi. La direzione artistica affidata al pianista Stefano Maurizi e a Fernando Fanutti ha ulteriormente ampliato la propria ricognizione nell’ambito di un pianismo contemporaneo riconducibile alla matrice jazzistica, seppur attraverso impostazioni culturali e coniugazioni ben diverse. Lo hanno pienamente confermato i quattro concerti in programma (uno in più rispetto alle edizioni precedenti), come sempre ospitati in spazi prestigiosi.

L’apertura è stata affidata – il 9 maggio nella Sala del Paradiso del Museo dell’Opera del Duomo – all’israeliano Omer Klein, attualmente residente in Germania. Pianista tecnicamente straordinario, ai limiti (e talvolta oltre) del virtuosismo, Klein possiede un fraseggio riccamente articolato, sostenuto da un tocco cristallino e un’ampia gamma dinamica. Vi applica una lungimirante visione armonica, certamente arricchita da elementi europei con echi di Debussy e Satie, e un piglio ritmico alimentato da potenti giochi e figurazioni sul registro grave. Queste caratteristiche gli consentono di spaziare attraverso vari idiomi, a cominciare dall’esplorazione di melodie e scale ebraiche di matrice sia ashkenazita che sefardita, in cui convoglia cantabilità, possenti crescendo e sottili variazioni dinamiche. L’amore dichiarato per il Brasile si estrinseca in Chega de saudade di Jobim. L’enunciazione del tema viene resa più essenziale grazie alla suddivisione in cellule, mentre le successive, ricche variazioni evidenziano delle affinità con la poetica di Uri Caine. Interessante anche l’approccio di Klein agli standards. Il tema di My Ideal viene esplorato nucleo per nucleo, per poi confluire in ornamentazioni permeate da senso del blues e punteggiate dal gioco ritmico in stile stride della mano sinistra. Un analogo trattamento è riservato a I Got Rhythm di Gershwin. Il tema viene scandito sommessamente e distillato goccia a goccia, e l’intero impianto rallentato ad arte con effetto deliziosamente straniante.

Omer Klein, foto di Luca Segato

Di scena il 10 maggio alla Sala Vanni, antico cenacolo della chiesa del Carmine, il martinicano Grégory Privat è noto principalmente come membro stabile del quartetto Liberetto del contrabbassista Lars Danielsson. Nel concerto fiorentino – e sulla scorta del recente album «Yonn» – ha presentato la sua personale ricognizione in un patrimonio di radici  culturali e memorie familiari, avvalendosi a questo scopo di un abbinamento, originale ma alquanto rischioso, tra piano e voce. Già dall’iniziale Respire si poteva intuire la direzione intrapresa: respiro, appunto, e vocalizzi campionati per costruire una stratificazione sonora sostenuta da scarne puntualizzazioni in un’atmosfera di stampo post-impressionista. Idea di per sé non disprezzabile, che però non è stata sviluppata adeguatamente. Anzi, replicato per la quasi totale durata del concerto, il connubio tra voce e piano ha prodotto un certo appiattimento, sia che desse luogo a note prolungate innestate su cascate di arpeggi, o che lasciasse spazio alla lingua creola. Ne risultava un ibrido tra world music, retroterra classico e sprazzi di minimalismo. Solo per brevi tratti emergeva l’elemento caraibico, con l’eccezione dell’unico brano interamente strumentale, in cui Privat ha espresso appieno la sua statura di pianista capace di efficaci e vitali costruzioni ritmiche, e di gustose invenzioni melodiche.

Grégory Privat, foto di Luca Segato

Sempre alla Sala Vanni, l’11 maggio Fred Hersch ha fornito un ulteriore saggio del suo magistero, presentando un programma prevalentemente composto da standards e brani di altri autori. Si può ben definire Hersch «poeta» in senso etimologico, cioè «facitore» o «creatore», per la rara capacità di rielaborare e rigenerare materiali disparati. Delle composizioni di Jobim, quali O grande amor e Retrato em branco e preto, conserva l’essenza melodica, arricchendola con invenzioni squisite e scavando nei risvolti dell’impianto armonico. Sul terreno di un altro Brasile, Hersch rispetta il respiro palpitante di Palhaço di Egberto Gismonti, esplorandone al tempo stesso il capiente alveo armonico.

Nelle sue mani il raffinato mondo poetico di Billy Strayhorn viene affrontato da due differenti angolazioni. Star-Crossed Lovers spicca per la sottigliezza e la varietà della gamma dinamica, nonché per la dilatazione dei nuclei melodici e la proficua dialettica col silenzio. Per contro, Upper Manhattan Medical Group è animata da una pulsazione vibrante e da un genuino blues feeling. Quanto ad altri standards tratti dal Songbook, l’approccio a I Loves You Porgy di Gershwin è ponderato in modo tale da attribuire il giusto peso a ogni singola cellula. La linea tematica di Come Rain Or Come Shine affiora, scompare e riappare nel contesto di un’estesa variazione. Non è uno standard (ma grazie a Hersch forse lo diventerà) And So It Goes di Billy Joel, brano che il pianista ama spesso riproporre: melodia suadente nella sua semplicità, con un empito affine a quello di un inno, restituita senza orpelli.

Fred Hersch, foto di Luca Segato

Quindi, Hersch ama anche confrontarsi con compositori del jazz moderno con rara sensibilità e autentica creatività. La struttura di Whisper Not di Benny Golson è sviluppata su un tempo veloce, senza peraltro nulla togliere alla sua ingegnosa costruzione. La medley dedicata a Thelonious Monk è introdotta da figurazioni cupe sul registro grave (che sembrano alludere a Evidence) e confluisce in una ‘Round Midnight scomposta segmento per segmento e disseminata di efficaci dissonanze. I Mean You è pervasa da un contagioso senso del blues e, negli sviluppi improvvisativi, finisce per sondare le connessioni tra Monk, Fats Waller e James p. Johnson, complice anche l’uso dello stride. Le ampie curve melodiche, la propensione per il contrappunto e le armonie di stampo squisitamente europeo di Kenny Wheeler vengono rese con felici intuizioni nella versione di Everybody’s Song But My Own. Infine, Hersch sviscera con una misura quasi spartana e dinamiche sottili la successione armonica angolosa, vagamente asimmetrica di Sing Me Softly Of The Blues di Carla Bley. In conclusione, un vero maestro e un degno continuatore dell’eredità di Bill Evans.

A chiusura della rassegna, il concerto pomeridiano di Stefania Tallini (il 12 maggio nel Giardino di Villa Bardini) ha richiamato l’attenzione su una pianista e compositrice di indubbio spessore, forse mai adeguatamente considerata dalla critica. L’aspetto compositivo finisce per prevalere sulle pur notevoli doti pianistiche. Nella poetica di Tallini confluiscono infatti il retaggio di Bill Evans, applicato a una sensibilità melodica che si riflette nella cantabilità di alcuni temi; l’amore per il patrimonio brasiliano, esplorato anche in loco nelle sue varie declinazioni; la profonda conoscenza del linguaggio della tradizione jazzistica. Sotto quest’ultimo profilo, basti pensare alle fini tessiture ricamate intorno al nucleo centrale di The Nearness Of You, con sapienti pause e coloriture blues. Oppure, alle potenti figurazioni ritmiche che, in un’alternanza di accelerazioni e decelerazioni, lasciano emergere il tema di Caravan. La pianista pone giustamente l’accento sull’elemento ritmico in alcuni suoi temi di ispirazione brasiliana: il pulsante e segmentato Hermeto, dedica esplicita a Pascoal; l’andamento contrappuntistico, viatico per la contrapposizione e l’intreccio di linee di Chôro cubano; il frenetico, martellante Frevo storto, basato su una danza tipica del Nordeste. L’enfasi sulla componente ritmica assume poi forme diverse in Lilith Dance, articolata su scale e linee melodiche di matrice ebraica sefardita, impreziosite da efficaci ornamentazioni. Tutti i materiali presi in esame vengono esposti con nitidezza di tocco, scioltezza e incisività di fraseggio, notevole padronanza armonica.

Il concerto di Stefania Tallini nel giardino di Villa Bardini, foto di Luca Segato

Giustamente dedicata da Stefano Maurizi a Luca Flores, suo maestro e riferimento, scomparso nel 1995, la rassegna ha confermato la propria vocazione: documentare varie espressioni del pianismo contemporaneo, anche contigue al jazz, in armonia con l’arte, l’architettura e la storia di Firenze.

 

Enzo Boddi

 

 

 

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