Monsieur Jeanneau, ho letto che da qualche tempo interpreta con sua figlia Agathe le pagine di un libro. Di cosa si tratta?
Fermo restando che un libro, come tante altre cose nella vita, non è mai finito, si tratta di un lavoro terminato ben tre anni fa. Si chiederà chi è l’editore ma io le anticipo che un editore non c’è e che non mi dispiacerebbe trovarne uno, così mi sbarazzerei del testo. Il problema è che in generale mi occupo male delle mie attività, non ho il talento di un vero businessman. Il titolo è Une anche passe, un’ancia passa, anche se in realtà il libro è lì, fermo: non passa velocemente.
Parliamo di un’autobiografia?
Sì e no. Preferisco chiamarla un’«autografia bio». L’etichetta «bio» dovrebbe aiutarmi a venderne più copie, a condizione che il libro venga pubblicato, naturalmente. Spesso e volentieri le autobiografie dei musicisti o degli artisti sono delle auto-celebrazioni, una sequela di avvenimenti, di date: «Ho fatto questo, mi hanno chiamato a fare quello, e via dicendo». Dopo dieci pagine non se ne può più. Quindi ho cercato di abbordare le cose per temi. Il libro è diviso in capitoli ma non segue un ordine cronologico. Mi prendo la licenza di saltare da un soggetto all’altro. Chissà, probabilmente in un’altra vita avrei fatto lo scrittore.
E il passaggio dalla pagina al palco?
È mia figlia a scegliere i brani. Alterniamo letture da parte sua, dialoghi parlati, improvvisazioni su testi recitati, e un paio di momenti sono destinati al canto. Il principio è quasi sempre lo stesso ma il contenuto cambia da un concerto all’altro. Se troviamo un contrabbassista nel posto in cui suoniamo, lo invitiamo volentieri. La formula con il contrabbasso non mi dispiace.
Sua figlia è attrice?
Sì, una vocazione fin da bambina. Attorno ai dodici, tredici anni ha provato la chitarra classica ma non faceva per lei, e, francamente, non so bene cosa le passò per la testa. La chitarra classica è complicatissima. Non abbiamo tanti concerti perché, come le dicevo a proposito del libro, mi occupo male delle mie cose, non è un mistero.
Dopo settant’anni di musica e con gli incarichi che le hanno affidato, fa uno strano effetto sentirle dire che non è in grado di prendersi cura delle sue attività.
E invece…
Forse nell’ultimo periodo?
No, da sempre. Col senno di poi, avrei potuto gestire molto meglio tante situazioni. Oggigiorno fare il musicista non è per niente facile: bisogna compilare dei formulari, elaborare dei dossier, rispettare le scadenze. Tutte cose che non mi interessano.
Descrive una caratteristica endemica del jazz francese, non certo una novità. Oramai tanti giovani musicisti sono anche produttori dotati di competenze amministrative.
Non hanno scelta. Osservo da qualche tempo un paradosso. I giovani sono bravissimi, più bravi di noi alla stessa età. In alcuni riconosco del vero talento, ma alla fine suonano pochissimo, sono compressi in un imbuto. Dice il vangelo secondo Matteo: «Molti sono chiamati, ma pochi eletti». A venti, venticinque anni, la mia generazione suonava trecentoquaranta giorni l’anno. Chi suona così tanto, oggi? Nessuno. È finita, quell’epoca, ma va ricordata perché è stata un periodo fondamentale. Dal 1959 al 1961 circa, per oltre un biennio, mentre uscivano i dischi di Ornette Coleman e Cecil Taylor, cui prestavo orecchio, ho suonato nel quintetto di Georges Arvanitas al Club Saint-Germain, che assieme al Blue Note era il più grande e più importante club di Parigi. La gente, i giovani in particolare, non si rende più conto di cosa volesse dire suonare tutti i giorni; qualcuno mi chiede di raccontargli quegli anni perché non riesce neanche a immaginarseli. Al Club Saint-Germain si esibivano due band ogni sera: il trio di Martial Solal con Guy Pedersen e Daniel Humair e il quintetto di Arvanitas. Avere due gruppi significava avere pubblico, ma il pubblico andava intrattenuto. Dovevi fare attenzione a non ripeterti, altrimenti il pubblico se ne sarebbe andato e il club avrebbe chiuso baracca. Avevamo l’obbligo di reinventarci ed è così che impari, che migliori. Suonare tutte le sere è il sogno di ogni musicista. Provi a immaginare un direttore artistico che dice a Ellington o Coltrane: «Va bene, vi metto in cartellone il prossimo anno, ma qual è il vostro progetto?». Siamo arrivati a questo punto, purtroppo.
Anche a lei chiedono se ha un progetto?
Non sfuggo alla regola. Non vorrei passare per un vecchio rincoglionito ma era meglio prima. Le istituzioni sono cambiate, e non per forza di cose in meglio. Non conosciamo chi lavora al ministero, nelle direzioni regionali degli affari culturali, i vari membri delle commissioni e nemmeno loro ci conoscono.
Bisognerebbe fare un rapidissimo excursus storico. Nel 1981, con l’arrivo della sinistra al potere, la politica ha cominciato a interessarsi al jazz. Chi diede vita a una lunga serie di iniziative, soprattutto al ministero, era più abbordabile. Nel giro di pochi giorni riuscivi a ottenere un appuntamento con Maurice Fleuret, che è stato per anni direttore generale della musica al ministero, mentre ora non so nemmeno se quel posto esiste ancora. Se chiedessi un appuntamento, probabilmente vorrebbero vedere le mie credenziali. Siamo gestiti da amministratori formati nelle grandes écoles ma che di musica, e di jazz in particolare, conoscono davvero poco. Aggiungerei inoltre che noi eravamo più mediatizzati. La televisione si interessava al jazz, anche quella di fine anni Cinquanta, in bianco e nero con un solo canale. Siamo nell’era del digitale, ci sono duecento canali ma del jazz nemmeno l’ombra.
Nostalgia dei tempi che furono?
No, per niente. Mi interessa capire come il mondo sta cambiando, in quale direzione si sta muovendo. Essere nostalgici non ha senso, tanto il pensare di esibirti per due anni e mezzo di fila in un club è pura utopia, quindi…
Bisogna chiarire un punto importante. Posso comprendere la critica alle istituzioni attuali, che in larga parte condivido, ma non dimentichiamoci che molti l’hanno considerata un uomo forte delle istituzioni, un musicista con connessioni politiche. La butto lì: e se invece, in più e più occasioni, lei si fosse semplicemente trovato al posto giusto nel momento giusto?
Ma una cosa non esclude l’altra! Scherzi a parte, sul mio conto hanno detto perfino di peggio, correvano voci che avessi ottenuto certi incarichi perché ero massone. Ribadisco che mi sono sempre occupato male delle mie faccende e che molte cose sono capitate per puro caso. Quando mi hanno proposto di fondare un dipartimento jazz al Conservatorio Superiore di Parigi, mi son detto: «Ma perché proprio io?». Mi feci la stessa domanda quando mi chiesero di diventare direttore dell’Orchestre national de jazz. A mio favore devo dire una cosa: anche se mi mancavano le competenze necessarie, in un misto di suspense e adrenalina non mi sono mai tirato indietro, ho sempre dato anima e corpo in ogni attività.
Più laborioso fondare il dipartimento di jazz al conservatorio di Parigi o l’ONJ?
Ci sono voluti otto anni per mettere in piedi il dipartimento. Prima il trasloco da rue de Madrid, poi i freni della politica – sotto sotto, l’idea che il jazz fosse una musica per selvaggi perdurava – e i limiti di budget: quando una cifra è stabilita, non si sposta di un centesimo. Una volta al conservatorio ho dovuto fare i conti con la diffidenza degli accademici; per circa un biennio ho lavorato quasi da solo. I tentativi di ingaggiare altri docenti, che entravano come assistenti, assumevano i contorni di una tragedia.
Chi è stato il primo docente entrato in ruolo?
Hervé Sellin. Aveva studiato in conservatorio e conosceva meglio di me il sistema. Io in conservatorio non ci avevo mai messo piede, se non per insegnare: un altro paradosso.
Lei ha ricevuto la nomina di direttore di dipartimento senza avere seguito un percorso accademico e senza passare per un concorso?
E meno male, altrimenti non avrei mai ottenuto il posto.
Qual era il proposito del suo progetto educativo?
Aiutare i musicisti a essere sé stessi, a sviluppare la musica che avevano in mente, un loro suono. Dal 1983, quando mi chiesero di elaborare un progetto – ecco, in questo caso ha senso l’uso della parola progetto – fino all’apertura del dipartimento, sono rimasto fedele a questo concetto, se vogliamo. Partivo dal presupposto che insegnavo in un conservatorio supérior, chi entrava aveva già un ottimo livello. Mi ero dato il compito di convincere i musicisti a vuotare il sacco senza che si preoccupassero minimamente dell’estetica. Lasciavo molto correre e ascoltavo: i silenzi avevano lo stesso peso dei consigli. Anche Jean-François Jenny-Clark dosava i suoi interventi. Fabbricare quattrocento musicisti all’anno non era nelle nostre intenzioni, il conservatorio non è mai stato una scuola. Le classi erano composte da pochi studenti: si conoscevano tutti fra loro e conoscevano gli insegnanti. Era l’unica via praticabile per personalizzare il percorso.
Pensa che questo spirito sia rimasto?
Trent’anni dopo le cose sono cambiate, ma qualcosa, più di qualcosa, è rimasto. Mi auguro vivamente che il successore di Riccardo Del Fra prosegua sulla stessa linea.
Nel bel mezzo degli anni Ottanta le affidano la direzione della prima ONJ. A differenza sua, ci sono direttori che hanno travasato parti consistenti di altre orchestre nell’ONJ. Eppure, lei dirigeva l’ensemble Pandémonium già da qualche anno. Non ha mai avuto la tentazione trasformare Pandémonium nell’ONJ?
Era vietato. Molti musicisti di Pandé si infuriarono, e non posso biasimarli. Come reagirebbe, se per anni investisse del tempo in un’orchestra che di colpo viene accantonata per lasciare spazio a un’altra orchestra, per di più sovvenzionata?
Male, penso. Tuttavia il salto fra le due formazioni è considerevole. La prima edizione dell’ONJ era una big band corredata dei suoni caratteristici degli anni Ottanta: lei è d’accordo?
Un segno dei tempi, ci si muoveva in quella direzione. Non ricordo più quanti musicisti di Pandé finirono nell’ONJ: Jean-Louis Chautemps, Marc Ducret… Due o tre, non di più. Se per la nascita del dipartimento jazz al conservatorio ho dovuto attendere otto lunghi anni, per l’ONJ ho avuto a disposizione solo quattro mesi di tempo per reclutare i musicisti e comporre il repertorio: da fine agosto 1985 a gennaio 1986.
Tempi strettissimi.
Partire a gennaio 1986 era un imperativo. Scrissi due ore e passa di musica in un paio di mesi. Un’orchestra è un insieme di reazioni chimiche che a sua volta genera una reazione più grossa. Prendiamo i tromboni. Sulla carta l’intesa fra Denis Leloup e Yves Robert era un azzardo, e invece funzionò a meraviglia. La scelta del batterista, poi, fu un colpo di fortuna. Vuole sapere come andò?
Sono tutt’orecchie.
A inizio dicembre 1985 mancava un piccolo dettaglio: il batterista, appunto. Durante un concerto al Sunset con Ducret e Michel Benita, si avvicina un tizio alto, longilineo. Mi dice che viene da New York e che vuole stabilirsi a Parigi. La musica del set gli era piaciuta molto e mi lascia il suo biglietto da visita. C’è scritto: «Aaron Scott». Curiosa, come presentazione. Una settimana più tardi Michel e Marc mi suggeriscono di non perdere tempo e di chiamare quel tizio, un batterista che secondo loro suonava davvero bene. Nella situazione in cui mi trovavo valeva la pena tentare. Proposi ad Aaron, al telefono, di entrare nel’ONJ, non sapevo cosa dirgli d’altro. Scoppiò a ridere, una risata fragorosa, non me la dimenticherò mai. Per lui si trattò di un’autentica sorpresa. A inizio gennaio si presentò alle prove puntuale come un orologio. Non ho mai rimpianto quella telefonata perché Aaron era un batterista eccezionale. Sa che è diventato il batterista di McCoy Tyner grazie all’ONJ? Si incontrarono per la prima volta a Vienne. Il programma prevedeva dei temi di John Coltrane riarrangiati, McCoy era molto contento di suonarli. Aaron chiuse l’anno con noi e rientrò a New York per suonare con McCoy.
Le dice qualcosa il rifiuto della candidatura di George Russell a direttore dell’ONJ?
Uno dei tanti esempi della stupidità umana. Pure Steve Lacy si candidò, se non erro. Russell fu rinviato al mittente perché era americano e l’ONJ un’orchestra nazionale francese. Mi dica lei se si può rifiutare un musicista del calibro di Russell. I limiti dell’ONJ, anche ideologici, sono determinati dalle istituzioni. Vale lo stesso discorso fatto per il conservatorio: fissano un budget, ma non si spostano di un centesimo. Se volessero davvero renderla la vetrina del jazz francese all’estero, dovrebbero investire di più. Noi suonammo circa novanta concerti in un anno perché rappresentavamo una novità.
Che effetto le ha fatto riprendere in mano con l’ONJ dei giovani il repertorio della prima ONJ?
Un bell’effetto e un’iniziativa accolta bene. Frédéric Maurin, attuale direttore artistico, sta facendo un buon lavoro. Ho diretto un’orchestra di giovani: il fine di tale operazione era anche pedagogico. Venti musicisti come nella prima ONJ ma strumentazione diversa, più leggera, senza i sintetizzatori. Jean-Charles Richard ha coordinato il progetto.
La sua esperienza all’ONJ durò solo un anno. Se avesse avuto più tempo a disposizione, che direzione avrebbe cercato di intraprendere?
Difficile a dirsi, però un’idea ce l’avrei. Considero una big band uno strumento formidabile, tuttavia ho sempre trovato riduttivo reclutare i migliori musicisti sulla piazza per sfruttarli al dieci per cento del loro potenziale. Dover attendere il proprio turno per appena sedici misure e rispettare sempre lo stesso delle cose è frustrante. L’unica ragione per cui ho abbandonato l’orchestra di Martial Solal è proprio questa. Per il resto mi piaceva tutto: dalla musica all’orchestra fino al musicista e personaggio Solal: tra noi c’è sempre stata una bella intesa. Vengo all’idea. Sempre in quel periodo, a metà anni Ottanta, ero stato a New York, allo Sweet Basil, dove avevo visto l’orchestra di Gil Evans…
So dove vuole arrivare…
Non posso esimermi dal raccontare quell’episodio perché c’entra con le big band e perché quell’orchestra mi ha folgorato, un ricordo indelebile. Suonavano Friday the 13th, un tema brevissimo, l’arrangiamento di Evans ne contava al massimo otto o dieci battute, il che non ha impedito all’orchestra di suonare quaranta minuti di fila! I musicisti inventavano in continuazione. Succedeva di tutto: cambi di tempo repentini, solisti che si ritrovavano in solitaria nel bel mezzo dell’orchestra, riff che si delineavano nelle retrovie… Uno spettacolo. Alla fine del brano, Evans, visibilmente soddisfatto, si sedette al piano elettrico e cominciò a rovistare tra le partiture, quando Lew Soloff attaccò all’improvviso un nuovo brano, seguito subito dall’orchestra. Evans, impreparato e sorpreso, gli andò dietro. Questo senso di responsabilità e la capacità di prendere iniziative mi affascinavano. Per me dirigere significava proprio questo.
Insomma, avrebbe trovato ispirazione nell’orchestra di Evans.
Non lo so, molto probabilmente avrei preso spunto. Quel modus operandi non è un’invenzione di Evans, intendiamoci. Già nelle big band degli anni Venti e Trenta capitavano situazioni di quel tipo. Nell’orchestra di Count Basie molti brani nascevano da iniziative momentanee dei musicisti, bastava il suggerimento di una tromba per accendere la miccia. Basie, Evans e Duke Ellington hanno spinto molto in là il concetto di big band. Qui subentra un paradosso: mi piace sì scrivere, ma allo stesso tempo mi piace suonare quando non c’è niente da suonare.
La sua carriera oscilla tra questi due poli…
Tra scrittura e assenza di scrittura, sì. Tutte e due le possibilità mi piacciono. Pensiamo anche al soundpainting, scoperto in maniera del tutto casuale a fine anni Novanta durante un’edizione dell’IASJ di David Liebman. Qual è la bellezza del soundpainting? Il fatto che ognuno partecipa con la propria personalità: non gli vien chiesto altro. E partecipa con ciò che sa fare. Ho praticato il soundpainting in Africa, Uzbekistan, Kazakistan e in tanti altri posti; paesi lontani, con un approccio alla musica diverso dal nostro. Ogni volta è andata benissimo. Il soundpainting si basa su un sistema molto sofisticato, composto da centinaia di segni, ma a inizio concerto non c’è nulla di preparato e alla fine qualcosa succede sempre. Non siamo lontani da quel che dicevo a proposito delle big band: possono agire con poco. Già negli anni Sessanta ho scritto brani lunghi appena mezza pagina, un tentativo di svincolarsi dal jazz americano. Persino con Pandé talvolta interpretavamo materiale scarnissimo composto da poco o niente. Nessun accordo, nessuno tempo definito: ci bastava il tema. Si partiva da quasi nulla e riuscivamo sempre ad arrivare da qualche parte. In tale situazione l’orchestra si sente coinvolta; i musicisti partecipano in prima persona alla costruzione della musica, si assumono delle responsabilità, si scoprono immaginativi. La soddisfazione è condivisa.
Di Pandémonium esistono diverse versioni, l’ultima risale a una quindicina di anni fa. Mi incuriosisce in particolar modo la prima, caratterizzata dagli archi.
Un impulso di Joachim-Ernst Berendt, il critico e organizzatore tedesco, che veniva spesso a Parigi. Berendt era responsabile della programmazione del festival di Donaueschingen, e attorno al 1975 o 1976 mi propose di pensare a un ensemble. Come al solito, accettai. In quel contesto, legato alla musica contemporanea, una big band di stampo tradizionale mi sembrava fuori luogo. Trovai una soluzione ibrida, con archi e una ritmica niente affatto male: Katia Labèque, J.F., Aldo Romano e Mino Cinelu. L’unico fiato ero io. Ma tante cose nacquero alla fine degli anni Settanta. L’ombra lunga del 1968 si è stesa lungo quel decennio. Le sperimentazioni fiorivano, alcune conducevano a buoni risultati, altre finivano in sciagura. Ci sono musicisti che sono rimasti fermi, impantanati in quegli anni – e altri, ancora peggio, negli anni Sessanta – mentre c’è chi è uscito da quel periodo con un’altra consapevolezza. Io, per esempio, non sarei mai entrato nei Triangle senza il maggio del 1968.
Mese in cui faceva parte dell’orchestra di Claude François, star della variété?
Oh, mi fa piacere parlare di Claude François. Ho suonato quattro anni con lui, appena prima di Triangle. Il free era interessante, una bella avventura, ma non ti dava da mangiare, Claude François sì. A quei tempi i musicisti si barcamenavano tra studi di registrazione e orchestre delle star. Finii nel gruppo di Claude François grazie a Jean-Claude Petit, grande arrangiatore di variété. Parliamoci chiaro: di quel giro facevano parte, oltre a Petit, René Urtreger, Marius «Mimi» Lorenzini, Jean-Marie Ingrand, Jean-Pierre Prevotat e altri. Come facevo a dire di no?
Altro aneddoto spassoso. Durante il maggio del 1968 mi divertivo a proclamare l’orchestra in sciopero. Claude François mi chiamava tutti i giorni, inviperito. Gli rispondevo che non potevamo presentarci alle prove perché mancava la benzina. Non era vero, però mi divertiva stuzzicarlo. Claude poteva essere tanto affascinante quanto odioso; era egocentrico a livelli inimmaginabili. Gli scioperi erano una piccola vendetta.
Un passo indietro nel jazz. Si ricorda qualcosa della big band che Eric Dolphy tentò di creare a Parigi?
Poco: ma non fu un tentativo, esistette davvero. Ho ancora delle parti che possono provarlo, mi sono detto più volte che avrei dovuto riprenderle per tentare di rianimarle. Più che una big band direi che era un ensemble composto da dieci, dodici musicisti, non ricordo più con precisione chi ne facesse parte. Abbiamo fatto una prova, forse due, in un piccolo studio scalcagnato a Pigalle. Conoscevo Dolphy perché aveva soggiornato a Parigi, lo avevo visto allo Chat qui pêche, al Club Saint-Germain. Lui e Don Cherry, in momenti diversi, vennero a casa mia per ascoltare musica contemporanea. Non penso ci sia bisogno di parlare del musicista Dolphy. Aveva una personalità incredibile ed era curioso, persona di grande umiltà, come Cherry. Proprio Dolphy mi disse che John Coltrane cercava disperatamente delle ance prodotte qui a Parigi, non riusciva a trovarle a New York.
L’inizio della corrispondenza notturna con Coltrane.
Mi chiamava alle tre di notte per assicurarsi che gliele avessi spedite. Erano delle ance che favorivano il vibrato, fabbricate a Pigalle dalla ditta De Rue.
Inutile chiederle quali musicisti l’hanno più influenzata: la lista sarebbe lunghissima e dopo tutti questi anni non avrebbe molto senso. Ce n’è uno che ricorda in particolare?
Cito uno dei primi – anzi, forse il primo in assoluto –, a quattordici anni: Sidney Bechet. Sotto molti aspetti, quello armonico per esempio, per me era più avanti di Louis Armstrong. Bechet è stato un gigante, tuttora sottovalutato. Senza di lui non avremmo avuto Lacy. Ho suonato con Bechet una volta, negli anni Cinquanta, una jam session a fine concerto, com’era tradizione. Il gruppo di mio fratello, di cui facevo parte, aveva aperto la prima parte del concerto. Avevo visto Bechet nel 1949 al festival internazionale di Parigi, il primo concerto cui ho assistito. La mia carriera cominciò quel giorno. Il festival presentava un programma da urlo: Davis, Charlie Parker, James Moody, Tadd Dameron, Kenny Clarke, Max Roach. Avevamo sentito parlare alla radio dei concerti, non conoscevamo nulla, eravamo sprovveduti. Vedere dal vivo tutti quei musicisti ci lasciò senza fiato. Dopo quel concerto mio fratello decise di fondare un gruppo in stile New Orleans con gli amici del liceo: il mio approccio al jazz suonato cominciò con quei ragazzi.
L’inizio di un percorso da autodidatta, da sempre rivendicato.
Al gruppo serviva una tromba o un sassofono soprano. Ne noleggiai uno e comprai un metodo, che non sapevo bene a cosa potesse servirmi. Mio padre, che aveva suonato il sassofono nella banda di Meilhan-sur-Garonne, mi spiegò come mettere le dita e fare le regolazioni di base: fu la prima lezione di sassofono della mia vita e anche l’ultima. Con mio fratello ascoltavamo i dischi e «tiravamo giù» melodia, linea di basso, accordi. Una forma di trascrizione orale, la stessa che ho sperimentato con Cherry, la stessa che ho trasportato nei corsi al conservatorio cinquant’anni dopo. Con gli studenti lavoravamo a orecchio, ci impregnavamo di un solo brano. Il processo era lento ma consentiva di raggiungere una comprensione globale del brano e del gruppo che lo interpretava. Sono convinto che i ragazzi non abbiano dimenticato i temi studiati in quel modo.
Vede, avermi ricordato Bechet, Dolphy, Coltrane – potrei menzionare anche Wayne Shorter e tantissimi altri – mi spinge a fare una considerazione. L’aspetto che più di ogni altro mi ha sempre colpito è il suono. I dischi non hanno nulla a che vedere con il suono di un Coltrane mentre prova, concentratissimo, nei camerini. Oppure con la tromba di Louis Armstrong o il sax di Bechet: da KO! E che dire di Dolphy? Suonava il clarinetto basso nei club, immerso in un baccano terribile, eppure pareva di ascoltare un sax tenore! Don Byas, poi, era pazzesco. Impossibile ritrovare un suono del genere su disco. Una sera al Club Saint-Germain infilò decine di chorus su un blues, mi toccò suonare dopo di lui. Ecco, quando sei lì, ventenne o poco più, non hai scelta: o la va o la spacca. Questa è stata la mia scuola, una vera scuola. Bud Powell: ho sostituito Lucky Thompson nel suo quartetto, con Pierre Michelot al contrabasso e Kenny Clarke alla batteria. Powell non proferiva verbo, dava per scontato che chi suonava con lui sapesse tutto. Attaccava uno standard – e Dio sa quanti ce ne sono – senza fornire indicazioni. Ma non lo faceva con cattiveria. Il silenzio era il messaggio: «Vuoi suonare questa musica? Allora non hai scelta, deve andare così». Tempo e suono di Oscar Pettiford erano impagabili, facevano passare in secondo piano il caratteraccio che aveva. Da giovane ho suonato in trio con lui e Humair, prima che Pettiford decidesse di partire e non tornare più, alla stregua di Dolphy. Altro impatto rivoluzionario su di me lo ebbe il quintetto di Archie Shepp e Bill Dixon, con Perry Robinson al clarinetto, a Helsinki nel 1962. Il free dal vivo: bruciante.
Più o meno contemporanea a quel concerto, ci fu l’esperienza con l’orchestra di Jef Gilson.
La prima big band libera di marca francese, cui più tardi si aggiunsero, occasionalmente, solisti americani. Gilson è una figura chiave; la mia generazione passò per la sua direzione. Il Quatuor de saxophones è figlio suo, un gruppo pensato per il festival di Moers.
Soffermiamoci sulla fine degli anni Settanta, sul trio con Daniel Humair e Henri Texier. Parlandone con loro ho notato qualche divergenza. Diciamo che ricordi e sensazioni sono discordanti.
Non mi stupisce. Quei due lì non sono più d’accordo su niente, lo dico sorridendo!
Humair sostiene che dopo il free e gli anni Settanta quel trio riuscì a imporre il silenzio nelle sale e che la musica richiedeva al pubblico una certa concentrazione. Texier è in parte d’accordo con Humair, ma sostiene che il silenzio nelle sale, e soprattutto nei club, si era imposto già da prima. In merito a musica e silenzio, che idea si è fatto?
Sono d’accordo con l’uno e con l’altro, ma capisco perfettamente Daniel e potrei fornire degli esempi che, in maniera diversa, corroborano quel che dice lui. Da parte mia posso dire che abbiamo suonato ovunque, anche in posti dove non sapevano nemmeno cosa fosse il jazz, figuriamoci se conoscevano noi, musicisti francesi. Detto ciò, non mi sembra ci sia stato un solo concerto terminato nell’insoddisfazione generale, nostra e del pubblico. Quel trio era alimentato da una vera e propria corrente elettrica, l’energia circolava sempre. Anche chi non capiva cosa stesse succedendo sul palco riusciva sempre a rendersi conto che eravamo «sul pezzo». Il pubblico era sensibile e noi eravamo sensibili al pubblico.
Musicisti più giovani di voi di una o due generazioni dicono che siete stati uno dei trii più belli e significativi del jazz francese, che vedervi dal vivo poteva rivelarsi una vera esperienza.
Sono d’accordo, non mi nascondo. Era un gruppo privo di leader, la chiave era questa. Fossimo stati americani avremmo avuto altra sorte, ma questo immagino glielo abbia già detto Daniel, conoscendolo. I concerti non erano mai l’uno uguale all’altro. La scaletta dei brani che stilammo all’inizio ebbe vita breve. Nel giro di poco, ci fu chiaro che suonavamo molto meglio senza un ordine preciso. Captavamo il pubblico, gli umori; capivamo cosa e come suonare in funzione del posto. Nella musica si rifletteva tutto ciò. Non avevamo bisogno di dirci granché, eravamo un tutt’uno. Anche i concerti con i pianisti, Joachim Kühn o Gordon Beck, per esempio, sono sempre stati molto soddisfacenti.
Da come ne parla, si avverte ancora il suo legame
Assieme alle diverse declinazioni di Pandé, è il gruppo con cui ho suonato più a lungo, dalla fine degli anni Settanta fino all’ultimo concerto, a metà anni Novanta. Due ragioni contribuirono alla sua fine. La prima: le ritmiche divorziano… ma non aggiungo altro. Una ritmica è un corpo unico, uno stesso strumento suonato da due persone diverse. In Francia ci sono state ritmiche di grande valore: Jean-Marie Ingrand e Jean-Louis Viale, Pierre Michelot-Kenny Clarke, Michelot-Humair, Jenny-Clark-Romano, Jenny-Clark-Humair… Texier-Humair rientra a pieno diritto in questa lista. Secondo motivo: me ne andai alla Réunion e Daniel cominciò a suonare sempre più spesso con Kühn e JF: altro grandissimo trio.
Due parole su Jean-François. C’era grande affinità tra noi. Ci siamo conosciuti quand’era adolescente e suonava con Aldo al Chat qui pêche. Il timing di J.F. era una Rolls Royce. Aveva un una facilità e un’inventiva strumentale fuori dal comune, se ne fregava delle regolazioni dello strumento, dell’impianto, degli aspetti tecnici. Suonava e basta.
Veniamo alla Réunion.
Quattro anni, dal 1987 al 1991, dipesi da Henri Fourès, all’epoca Inspecteur général de la musique. Il presidente del consiglio regionale della Réunion aveva messo sotto pressione il ministero perché voleva a tutti i costi un conservatorio. Le racconto un aneddoto. Insieme ad altre persone vengo convocato da Fourès a una riunione al ministero, in rue de Valois. Nove del mattino. Fourès entra nella sala con una carta geografica della Réunion e una bottiglia di rum aromatizzato. Posa con decisione carta e bottiglia sul tavolo ed esclama: «Questa è la Réunion!». Il messaggio passò forte e chiaro, bisognava andare laggiù e combinare qualcosa. Dissi di sì e partii.
Il bilancio di quegli anni?
Positivo. Ma alla fine avevo fatto troppe volte il giro dell’isola, sentii il bisogno di tornare a casa. E per quanto facessi avanti-indietro con una certa regolarità, stare lontano mi aveva tagliato un po’ fuori dal giro, me ne resi conto più tardi. Laggiù ho familiarizzato con le tradizioni musicali réunionnaises: séga e maloya. Ambedue hanno origine nelle musiche afro-malgaches, ma la séga nasce dall’incontro con le danze europee, le quadriglie in particolare, mentre la maloya è più autentica, una musica «vietata» per decenni e riabilitata negli anni Ottanta. Ho suonato con Luc Donat, violinista ed esponente di spicco del séga; mentre con tre percussionisti ho registrato «Maloya Transit» per Label Bleu, un disco sfortunato perché Danyèl Waro, gran sacerdote della maloya, prima mi autorizzò ad arrangiare tre brani scritti da lui, poi minacciò di portarci in un’aula di tribunale per aver utilizzato quegli stessi brani! E pensare che avrei voluto che Waro registrasse con noi. Io e Michel Orier volevamo evitare qualsiasi tipo di problema legale, quindi decidemmo di lasciare le copie esistenti sul mercato e di fermare la produzione. «Maloya Transit» è diventato un piccolissimo oggetto di culto, difficile da reperire. Avevo rispettato la natura ritmica dei brani e mi ero limitato ad aggiungere qualche armonia, non ho mai compreso la reazione di Waro. Mentre il trio di tamburi continuò a suonare con il quartetto del disco e fece anche qualche concerto con Pandé.
Concluderei con una considerazione da parte sua su Batyr Bayan, l’opera che ha creato in Kazakistan.
Ho scritto il libretto a partire da un racconto tradizionale. Una storia cavalleresca, virile, di amori contesi e tradimenti fra due fratelli. Sul palco c’erano un’orchestra sinfonica, dei musicisti tradizionali kazaki, un quartetto jazz, cinquanta coristi, i ballerini dell’opera, due voci recitanti: eravamo in centocinquanta! Un lusso e un impegno, avere a disposizione così tanti artisti. Grande esperienza e gran bel ricordo che risale oramai a qualche anno addietro, come gran parte degli argomenti di cui abbiamo parlato.