Tra i pianisti emersi in quest’ultimo ventennio Ethan Iverson occupa una collocazione del tutto speciale, e per varie ragioni. Musicista eclettico, con un’apertura mentale straordinaria, una visione globale del linguaggio jazzistico e della sua storia che hanno pochi uguali, Iverson è stato capace di riassumere nel proprio stile una caleidoscopica quantità di idiomi musicali: da Fats Waller a Thelonious Monk da un lato, da un altro Igor Stravinsky e il songbook americano, fino al pop e al rock dei nostri tempi. Tutto ciò senza mai perdere l’unicità della propria dimensione artistica, sfiorando solo raramente un eclettismo di maniera e dunque approdando ad un’ammirevole originalità. Sia come strumentista sia come compositore e arrangiatore, pur non essendo un musicista rivoluzionario, si è ricavato con certosina alacrità un posto di rilievo nel jazz contemporaneo. Inoltre ha avuto l’idea – questa sì, alquanto sovversiva nel jazz – di assemblare un trio senza leader, ma sotto l’egida di un collettivo, una band, i Bad Plus, che almeno nel nome rievocava sicuramente più il punk rock che lo Swing, se non un possibile titolo di un film di Quentin Tarantino. Con un successo esplosivo, probabilmente ineguagliato a quei tempi, i Bad Plus – cioè Iverson con Reid Anderson al contrabbasso e Dave King alla batteria – arrivarono a scuotere dalle fondamenta il mondo del jazz fin dai primi anni Duemila. Bastava assistere a uno dei loro concerti, come ci capitò in quegli anni in un localino del Greenwich Village, per rimanere sorpresi sia dalla qualità artistica della musica che dall’accoglienza entusiastica del pubblico, composto prevalentemente da giovani, molti dei quali non certo appassionati di jazz. Qualcuno storceva il naso, però: i puristi ci scorgevano furbizia nel vedere accostati i Nirvana e i Black Sabbath con Rodgers & Hart o Gershwin. Di certo non si può negare che il gioco delle riproposte «inusitate» col tempo avesse preso fin troppo la mano al trio, tant’è che Iverson nel 2017, dopo tanti anni di assidua collaborazione decise di mollare tutto e continuare da solo. Soluzione inevitabile per un musicista versatile e dalla curiosità instancabile come lui, lasciando gli altri due alla ricerca di un terzo perno, trovato per qualche anno con Orrin Evans e poi dal 2021 addirittura con due non-pianisti: il sassofonista Chris Speed e il chitarrista Ben Monder. Musicisti del tutto ragguardevoli, ma certamente non con lo stesso spirito – e aggiungiamo anche il «sense of humor» – che aveva caratterizzato lo stile peculiare dei Bad Plus. I divorzi spesso generano delle «rinascite» particolari in almeno una delle parti in causa, e così è stato per il nostro pianista, il quale si è potuto finalmente sbizzarrire in avventure verso spazi diversi: dal gruppo di Billy Hart ai lavori di arrangiatore per una coreografia di danza sulle musiche dei Beatles e specificatamente in Italia, a Umbria Jazz, con due produzioni originali sulle musiche di Bud Powell (in seguito pubblicato su disco dalla Sunnyside) e di Burt Bacharach con la cantante Dianne Reeves, assieme alla Umbria Jazz Orchestra ai festival invernali di Orvieto nel 2020 e 2022. Ciò gli ha permesso di suscitare un preciso interesse da parte della Blue Note, quindi la più importante fra le etichette discografiche legate al jazz, che gli ha prodotto due album come leader di trio: «Every Note Is True» (del 2022, con Larry Grenadier e Jack DeJohnette) e «Technically Acceptable» (2024, con Thomas Morgan e Kush Abadey più altri tre ospiti in alcuni brani). In particolare il nuovo disco propone una pagina più matura, felicemente creativa e ironica dell’Iverson pianista e compositore, che ha già suscitato commenti più che favorevoli dalla stampa proiettando il nostro musicista verso lidi ancor più ragguardevoli dal punto di vista puramente artistico, come possiamo leggere nell’intervista che segue.
Vorrei iniziare da un tuo articolo apparso proprio oggi sul New York Times e dedicato al centenario della celebre Rhapsody in Blue di George Gershwin. Nello scritto, risolutamente critico fin dal titolo, «The Worst Masterpiece» («Il peggior capolavoro»), descrivi la famosa composizione come un assemblaggio di temi sì accattivanti ma complessivamente trito, stucchevole, pur riconoscendone i meriti divulgativi.
C’è gente che pensa a composizioni quali i Carmina Burana come «i capolavori peggiori» in musica, altri indicano il Bolero di Ravel. Comunque io ribadisco che questi sono brani importanti, di cui non potremo mai fare a meno, però allo stesso tempo dico che possono stancare, annoiare chi li suona. Tornando a Rhapsody in Blue: è certamente un capolavoro indimenticabile, ma reca anche con sé domande inerenti alla struttura stessa della composizione. Per chi ama il jazz e lo suona, questi problemi si posano come macigni sulla testa: per alcuni musicisti posso dire che hanno persino impedito loro la possibilità di poter accedere alle sale da concerto americane in qualità di compositori.
Non pensi che possa anche essere accaduto il contrario, cioè che un brano così rilevante e famoso possa aver contribuito ad avvicinare al jazz una parte del pubblico generalmente restia all’ascolto di quel tipo di musica?
A difesa di Gershwin posso dire che quella sua composizione fu scritta in tempi nei quali personaggi come Louis Armstrong e Duke Ellington non erano ancora emersi in maniera preponderante. Dunque lui lavorava su un terreno ancora fresco, non ancora sondato appieno, pur nello stesso periodo che avrebbe visto quegli stessi musicisti afro-americani imporsi come autori originali. In sostanza direi che la problematica principale risiede nell’appropriazione dell’espressione culturale dei neri da parte dei bianchi. Ancora oggi, a cento anni di distanza, questo gap non è stato del tutto colmato.
Anche per Porgy and Bess il discorso è lo stesso?
Gershwin stava già pensando a un’opera di quella natura in quegli anni. Porgy and Bess ebbe la sua prima nel 1935, solo due anni prima che Gershwin morisse in un’età ancora giovane, a trentott’anni. Possiamo quindi considerare che lui non avesse ancora reso il massimo nel suo lavoro. Però la Rhapsody in Blue, pur avendo contribuito ad aprire molte porte ad un certo tipo di musica, ne aveva anche chiuse tante altre.
A costo di essere provocatorio, non credi di aver fatto qualcosa di simile, ma all’inverso, con La Sagra della Primavera di Igor Stravinsky, da te rivisitata con i Bad Plus a metà degli anni duemila («The Rite of Spring», 2014, Sony Masterworks)?
Ho riarrangiato con i Bad Plus molti brani che erano considerati come pietre miliari in musica, così come ho lavorato su Bud Powell e Burt Bacharach con l’orchestra di Umbria Jazz o sul «Sgt. Pepper» dei Beatles per il balletto Pepperland del coreografo Mark Morris. Dunque ciò fa parte intrinseca del mio stile, se vuoi del mio approccio verso la musica.
Però La Sagra della Primavera è considerata come un caposaldo della musica classica del Novecento. Il che la mette su piano diverso rispetto ad altri brani più affini al linguaggio jazzistico, o se vuoi comunque legati a radici che affondano nella musica afro-americana, ivi compresi il rock o il pop.
La Sagra della Primavera prevedeva una parte ritmica importante, e ciò era davvero qualcosa di innovativo per quegli anni. È a quell’aspetto che mi sono riferito in modo principale per rivisitarla. La stessa cosa non sarebbe stata possibile con la Rhapsody in Blue: il rischio di farla diventare ancora più trita e ripetitiva era praticamente inevitabile. Quindi La Sagra della Primavera è una composizione modernista. Suonata oggi con l’arrangiamento dei Bad Plus avrebbe lo stesso sapore innovativo di brani di Craig Taborn, Vijay Iyer o Kris Davis, pur rimanendo la medesima Sagra in chiave jazzistica. La Rhapsody, che emerge dal ragtime e dal primo blues sarebbe davvero difficile riarrangiarla senza ricadere in qualcosa come un «viaggio per turisti» in musica.
Pensi la stessa cosa delle canzoni scritte da Gershwin?
Certamente no. Quelle canzoni sono state interpretate migliaia di volte dai jazzisti di tutto il mondo, quindi le suoniamo alla nostra maniera, non come furono composte, per esempio, nel 1929. Ci riferiamo alle versioni di Lester Young, di Billie Holiday e di altri, che sono già rivisitazioni. Sono brani assolutamente straordinari, fra i più belli di tutti i tempi. Se ci pensi anche ogni «pezzo» della Rhapsody è di per sé una melodia indimenticabile. Io punto il dito sul lavoro di «assemblaggio» di questi brani. D’altro canto, se oggi uno studente volesse imparare la musica in un conservatorio americano non gli farebbero studiare il ritmo. Certo non il ritmo in chiave jazzistica. Il problema del tutto ironico è che la Rhapsody in Blue fa parte integrante dei programmi: quindi la si studia senza conoscere certi valori ritmici.
E cosa puoi dire del famosissimo Bolero di Ravel, che hai prima citato?
Penso che sia un capolavoro di orchestrazione. Questo è indiscutibile. Credo però che ci siano molte rivisitazioni di quel brano che risultano del tutto melense: ciò non vuol dire che in origine quella composizione lo sia. La Rhapsody in Blue è invece più problematica in questo senso.
Ritieni comunque che queste musiche, assieme agli standard di jazz, abbiano avuto un ruolo importante nella tua formazione di musicista?
Beh, quando insegno ai ragazzi la musica prima di tutto dico loro: ci sono due pilastri importanti che dovete conoscere a fondo, e sono Scott Joplin e George Gershwin. Perché si possono imparare alla perfezione le loro composizioni scritte per pianoforte.
Perché non Jelly Roll Morton?
Perché in origine non era musica scritta. Se sei uno studente il lavoro di trascrivere la musica dai dischi è durissimo, a volte impossibile. Joplin e Gershwin erano prima di tutto dei pianisti con un’educazione musicale formale: quindi le loro musiche sono chiaramente leggibili e interpretabili anche da uno studente di pianoforte alle prime armi. Inoltre ambedue questi compositori si riferiscono al ritmo come elemento preponderante, anche se spesso succede che i pianisti suonano Gershwin con ritmi del tutto errati. Joplin è invece difficile da suonare correttamente, però succede che dopo viene più facile interpretare Gershwin alla maniera corretta. Tutti i grandi pianisti, da Art Tatum a Bud Powell, Teddy Wilson, Bill Evans, Herbie Hancock fino a Keith Jarrett, hanno imparato e suonato bene Joplin e Gershwin: questo è un fatto innegabile.
E nel tuo caso personale, come hai imparato a suonare e ad avvicinarti al jazz?
Sono nato in una cittadina del Wisconsin, Menomonie, e non c’era musica in casa. Pensa che sono stato io a chiedere ai miei genitori di comprare un giradischi! Però c’era il televisore: è da lì, in particolare dai film, dalle colonne sonore, che ho iniziato a interessarmi alla musica. I film di James Bond o quelli con le musiche di Henry Mancini: non era jazz ma ne aveva in qualche modo il feeling. Almeno, era ciò che percepivo io. Poi, verso gli otto o nove anni, ho iniziato a suonare il pianoforte: esercizi, ma già con l’idea del ritmo, Scott Joplin e altro. Devo dire che ho cominciato da solo. Non ho ricevuto un’educazione musicale convenzionale se non quando mi sono trasferito a New York e ho avuto Fred Hersch come insegnante per alcuni anni, fin dal 1991. Fred è stato molto importante per la mia formazione di pianista. Per quel che riguarda l’apprendimento del jazz in senso totale devo però ringraziare Billy Hart: fin da quando l’ho ascoltato dal vivo ho subito pensato che avrei fatto qualunque cosa per suonare assieme a lui. Per fortuna è poi successo davvero, e Billy mi ha insegnato le verità profonde del linguaggio jazzistico. A volte qualcuno mi dice che scrivo della musica davvero interessante, ma ciò lo devo a quello che ho imparato da Billy. È del tutto vero che una gran parte delle mie idee in musica deriva dagli insegnamenti e dalle conversazioni che ho avuto con Billy Hart. Dal punto di vista strettamente tecnico devo dirti che, pur non essendo mai stato un preciso lettore di partiture, una delle qualità che mi riconosco è la capacità di leggere la musica a prima vista. Come compositore non ho avuto dei veri e propri maestri, ma come diceva Gil Evans: tutti ti insegnano qualcosa! Ho «rubato» un po’ da tutti, anche dai dischi. Il primo vero ingaggio che ricordo è stato come pianista di una band per ballerini di tango, e già ero un po’ avanti negli anni. Poi con il coreografo Mark Morris: ero il suo direttore musicale. Non avrei mai messo in piedi i Bad Plus se non avessi lavorato con Morris.
Sei stato tu a fondare la band?
Sì. Con Reid e David facemmo un concerto con il nome di Ethan Iverson Trio nell’anno 2000: pensammo subito che c’era qualcosa di speciale in quel gruppo. Fu David a suggerire di dare un nome alla band, i Bad Plus. Fui senz’altro d’accordo perché pensavo al gruppo come un collettivo, non come al mio trio. David e Reid avevano una personalità molto forte, non da gregari. Infatti sceglievamo sempre assieme il repertorio, che a quel tempo era fatto principalmente di cover, le più inusitate per un gruppo di jazz. Furono proprio quelle strane cover ad attrarre l’attenzione su di noi. In particolare Smell Like Teen Spirits , che era una canzone famosissima dei Nirvana e che io non conoscevo assolutamente! Furono gli altri due a suggerirmela, così la imparai per suonarla dal vivo.
I Bad Plus furono come una bomba arrivata nel mondo del jazz, non credi?
Eravamo arrivati al momento giusto con il repertorio giusto. Il jazz per definizione accoglie le novità e le fa sue, difatti lo spazio creato dai Bad Plus non era occupato da nessun altro.
In che senso puoi definire questa vostra originalità nel panorama jazzistico?
La maggior parte dei pianisti contemporanei risente della forte influenza di Bill Evans e Herbie Hancock. Io invece non credo di averla mai espressa nel mio stile. Questa è la ragione primaria della differenza fra me e gli altri. E anche se a volte potrei ricascare in quell’ambito, cerco comunque di evitarlo. Per esempio, in questi giorni suono al Village Vanguard con il nuovo trio e tra i pezzi in repertorio c’è Laura, il noto brano di David Raksin dalla colonna sonora del film omonimo. Uno dei grandi noir della storia del cinema (in italiano «Vertigine» del 1944 con la regia di Otto Preminger). Beh, io suono la versione con l’arrangiamento di Bill Evans, ma sotto sotto, al di là delle apparenze, ci metto qualcosa di mio proprio per evitare facili similitudini. È comunque sempre una grande ballad di jazz!
Tornando ai Bad Plus, come mai la vostra avventura comune è finita?
Sai, siamo stati assieme per ben diciassette anni, quindi era intervenuta una certa stanchezza. Per me, in particolare, si trattava di approfondire di più il mio interesse per la storia del jazz. Quando iniziammo il nostro percorso fu come una bomba nel jazz, come hai giustamente detto tu. Però man mano che maturavamo come musicisti la mia personale intenzione era di connettermi sempre di più con la tradizione del jazz. Sentivo che avrei dovuto sviluppare la mia strada in quella direzione. Invece David e Reid pensavano di continuare a rimanere nel nostro ambito. Intendiamoci: io amavo suonare con loro, non c’è dubbio alcuno, ma il mio percorso si stava diramando per rivolgersi altrove. Questa è la ragione principale della nostra separazione.
Venendo al tuo nuovo disco, penso sia il tuo lavoro migliore da quando hai lasciato i Bad Plus. C’è molta raffinatezza condita da una forte dose d’ironia, non credi?
Ecco perché amo Thelonious Monk e Herbie Nichols: c’è tanta ironia nella loro musica! Anche Sonny Rollins ce l’ha. Non credo che sia necessario essere sempre seri in ciò che si fa. Il mondo è pieno di problemi complessi e io preferisco cercare di riflettere in musica queste problematiche piuttosto che tentare di dar loro una risposta.
Perché questo titolo enigmatico: «Technically Acceptable» ?
È tratto dai romanzi di Lee Child, l’autore dei bestseller che hanno come protagonista Jack Reacher. «Tecnicamente accettabile» è l’unico standard che un geniere dell’esercito può capire! Mi è piaciuto come titolo proprio perché non si riferisce a nulla di preciso.
Nell’album c’è la tua Piano Sonata in tre movimenti, che si distingue rispetto agli altri brani, che sono brevi originals con qualche standard. Da dove trae origine questa speciale composizione?
Vedi, abbiamo iniziato questo colloquio parlando di Gershwin e io ho composto questa Sonata perché in qualche modo apre delle porte e ne chiude altre. Ecco la ragione della sua collocazione alla fine del disco, in maniera separata dal resto. Con questa composizione ho cercato di riprendere un percorso musicale iniziato negli anni Venti e Trenta: era un periodo in cui molti autori moderni di classica provavano ad avvicinarsi al linguaggio jazzistico mettendolo in una struttura del tutto formale, per poi allontanarsene. Difatti le strade intraprese in seguito dalla musica contemporanea americana seguono da un lato il percorso dodecafonico o atonale e dall’altro il minimalismo di Steve Reich e Philip Glass. Queste sono le vie principali seguite dalla musica dal dopoguerra in poi, ovviamente con le dovute eccezioni, ma tralasciando la lezione del jazz. Dal mio punto di vista, in qualità di pianista di jazz cerco di raccogliere le mie esperienze professionali di autore per metterle in un contesto formale, come per riallacciarmi ad un percorso che era stato precocemente abbandonato.
Nel disco c’è anche una bella versione di Killing Me Softly With His Song di Roberta Flack.
È un pezzo che ho sempre amato molto, e del resto conosco poche altre versioni in trio jazz di quella canzone. In qualche modo lo trovo un brano con un’atmosfera cinematografica, affascinante.