La voce cristallina in primo piano e, a sostenerla, un gruppo di musicisti di prim’ordine. In «A Time to Remember» – già recensito sulle pagine della nostra rivista – la cantante albanese Elina Duni realizza un disco intimo, in continuità con il precedente «Lost Ships» e non solo per il fatto che i suoi compagni di viaggio sono gli stessi (il chitarrista Rob Luft, autore insieme a lei di molti brani in scaletta; il flicornista Matthieu Michel e il pianista e percussionista Fred Thomas). Si tratta di un lavoro dove nostalgia e speranza, amore e separazione, pubblico e privato sono al centro della scena. Così come i rimandi a tradizioni diverse, dalla musica folk della terra di origine e del confinante Kosovo al musical (la ripresa di Send in the Clowns di Stephen Sondheim) fino al jazz (I’ll Be Seeing You con il pensiero a Billie Holiday; First Song, omaggio al grande Charlie Haden su testo di Abbey Lincoln). Ne parliamo con la vocalist, che ci aiuta ad approfondire il senso della sua operazione.
«A Time To Remember» è il tuo quinto cd per ECM e il nono della tua carriera da leader. E arriva dopo un periodo complicato per tutto il pianeta, anche e soprattutto per gli artisti, quello della pandemia. Ci racconti come lo hai concepito?
L’album è stato concepito proprio nel periodo del Covid, tra i pochi concerti che abbiamo fatto con Rob (uno più bizzarro dell’altro con la sua dose di assurdità e stranezza, i problemi logistici e di distanziamento sociale, che sono totalmente in contrasto con la nostra professione…) e poi il nostro soggiorno in Egitto, nel deserto del Sinai, sulle rive del Mar Rosso. È lì che è stata composta la maggior parte delle canzoni originali del mio nuovo disco. In definitiva, rappresenta un momento unico della nostra storia personale e anche della storia recente di tutti quanti noi.
Il titolo dell’album allude al tempo che passa, al ricordo e alla memoria. Argomenti, questi, che a te sono particolarmente cari e che erano presenti anche in tuoi lavori precedenti. Qual è il tuo sentimento rispetto a questi temi?
Il titolo dell’album si riferisce a quel preciso momento in cui tutto nel mondo è caduto nel silenzio e la vita normale è sembrata solo un lontano ricordo. E proprio attraverso quel ricordo nella mia mente ha fatto capolino la nostalgia. Del resto io stessa sono una persona molto nostalgica. Penso spesso alla mia infanzia nell’Albania comunista, a quel mondo senza automobili e senza Coca-Cola dove, paradossalmente, quando ero bambina mi sentivo libera e felice! Ed è proprio questo il paradosso: di quel periodo ricordo solo l’amore della mia famiglia, gli amici, il sole e i giochi… E anche la possibilità di crescere semplicemente con pochi oggetti e pochi beni materiali. Sono stati anni molto belli per me, perché ho avuto anche la fortuna di essere circondata da adulti molto protettivi e coraggiosi, persone preziose che non si sono fatte abbattere dal sistema dittatoriale.
A mio avviso nel modo in cui canti emerge qualcosa di molto personale e privato, un mix di forza e di fragilità estremamente fascinoso: ti ritrovi in questa osservazione?
Grazie mille! Mi riconosco in questa osservazione e ne sono onorata. Per me ci sono due aspetti importanti nel modo in cui si sviluppa una voce. Il primo è l’aspetto tecnico, il lavoro di un artigiano e di un esploratore di tecniche diverse; il secondo aspetto, invece, è quello dell’anima. Cioè è il modo in cui viviamo, osserviamo, sentiamo la vita e come essa a sua volta ci influenza. Tutto questo ha un impatto sulla voce, sul modo di interpretare e di creare la musica. È una miscela di quello che si è e di ciò che si fa con la voce. E tutto questo richiede tempo. Quindi eccoci di nuovo qui, sullo stesso argomento, sul tema del tempo appunto.
Tra i brani del disco ho apprezzato in maniera speciale Évasion, cantato in francese e nato musicando i versi della poetessa belga-israeliana Esther Granek. Ce ne puoi parlare?
Devo dire che mi sono imbattuta per caso in questa poesia. Rob aveva registrato il riff e gli accordi per me e stavo cercando su internet qualcosa che potesse ispirarmi. Prima di tutto, la poesia parlava del deserto e del mare, il che era perfetto perché mi trovavo proprio nel Sinai. E poi c’era il tema della resilienza: Esther Granek dice di essere pronta ad affrontare l’ora più buia come quella più luminosa. Ed è proprio questo che mi ha colpito: nel bel mezzo della situazione di emergenza a causa del Covid, con tutte le incertezze che ciò comportava nelle nostre vite, avevo bisogno di questo messaggio. E poi, quando ho letto la storia dell’autrice – che era stata salvata dai campi nazisti da una coppia che l’aveva nascosta – ho amato ancora di più questa poesia e questa donna con tutta la forza vitale che rappresenta.
Hai incluso anche uno standard, I’ll Be Seeing You, e un celebre original, First Song di Charlie Haden, tra i momenti più toccanti del disco. Come mai questa scelta?
Fanno parte dei miei standard preferiti. Ho scoperto I’ll Be Seeing You in un disco di Rickie Lee Jones intitolato «Pop Pop» e uscito nel 1991, dove lei reinterpreta gli evergreens del jazz con una band di cui fa parte pure Charlie Haden: così mi sono ispirata a questa versione. È una canzone d’amore scritta nel 1938; quindi, anche se proviene dal repertorio di Broadway, ho l’impressione che abbia qualcosa di più tragico: siamo all’inizio della Seconda guerra mondiale per cui il pezzo può anche riferirsi a un uomo che è andato al fronte. First Song invece è un brano che amo da una quindicina d’anni, ma che finora non mi ero mai sentita pronta a registrare. Ho dovuto fare tutto il mio viaggio attraverso la musica albanese esplorando anche le altre lingue per ritrovare la mia strada originale verso gli standard americani. Ora sento di poter finalmente adottare un approccio personale nel cantarli. E poi trovo First Song così pura, un misto tra una cantata di Bach e il jazz.
Puoi rievocare la tua storia e la tua formazione artistica, visto che hai origini albanesi, sei cresciuta a Ginevra e oggi vivi tra la città svizzera e Londra?
Certo. Sono cresciuta in Albania fino all’età di dieci anni. È lì che, quando ne avevo solo cinque, ho cominciato a studiare musica, a suonare il violino e a cantare alla radio e alla televisione nazionali e in vari festival per bambini. Poi mi sono trasferita a Ginevra, in Svizzera, dove ho iniziato a suonare il pianoforte classico, sempre continuando a cantare. Dopo il diploma in musica e lingue moderne, ho proseguito gli studi all’università delle Arti di Berna, dove mi sono laureata in canto jazz, composizione e insegnamento. Da quel momento in poi ha preso il via la mia vita di musicista e sono ormai quindici anni che mi guadagno da vivere con la musica. Per concludere in questo periodo della mia vita mi divido tra Ginevra e Londra.
Canti in inglese, francese, albanese e molte altre lingue, compresi l’italiano (Amara terra mia di Domenico Modugno in «Partir») e anche il dialetto salentino, come accadeva nel tuo lavoro «Lost Ships», uscito tre anni fa che conteneva Bella ci dormi. Avvicinarsi a idiomi e culture diverse è un grande stimolo artistico per te?
Sì, fin dall’inizio della mia carriera artistica, cioè dall’album insieme al quartetto Baresha, ho sempre cantato in molte lingue. In primo luogo perché è una cosa che fa parte di me – ne parlo in modo fluente cinque – e in secondo luogo per contrastare un certo imperialismo dell’inglese nella musica e nel jazz in particolare. Nel corso degli anni questa è diventata una mia specialità, che ha raggiunto l’apice con l’album «Partir», in cui eseguo brani in nove lingue diverse. Da «Lost Ships» in poi ho cominciato a cantare più spesso in inglese. Forse è il desiderio di essere compresa da più persone possibile…
Che cosa rappresenta il jazz nella tua cultura artistica? E ci sono musicisti o cantanti, del passato e anche del presente, che ami in modo particolare e dai quali senti di essere stata influenzata?
Il jazz fa parte della mia vita. L’ho scoperto all’età di diciassette anni grazie a Miles Davis, Thelonious Monk, John Coltrane, Louis Armstrong, Ella Fitzgerald e Billie Holiday. Poi l’ho studiato e sono stati artisti come Chet Baker, Brad Mehldau, Bill Frisell, Charlie Haden e cantanti come Sheila Jordan, Shirley Horn e Sidsel Endresen a influenzarmi. Ma, oltre a questo, penso che ci sia anche un modo di vedere la musica sotto la lente del jazz che mi piace: per me significa cercare di non accontentarsi di fare la stessa cosa ogni sera, spingersi oltre i propri limiti, improvvisare, in qualche modo avere l’approccio entusiasta e libero di un bambino.
Un altro elemento costante della tua poetica musicale è il rapporto con il Mediterraneo, il Mare Nostrum e oggi, purtroppo, anche il teatro del dramma dell’immigrazione, di cui hai parlato in «Lost Ships»…
Il Mediterraneo è il mio mare, con le sue cicale, i suoi pini e tutto il resto, compresa una natura che mi tocca profondamente e alla quale sento di appartenere. Purtroppo questo Mare Nostrum, attorno al quale sono fiorite tante incredibili civiltà, è ormai un cimitero a cielo aperto e noi assistiamo a questa tragedia senza poter fare molto. E questo è terribilmente triste.
Tua madre è la ben nota poetessa, scrittrice e sceneggiatrice Bessa Myftiu. Sappiamo che in passato avete condiviso un progetto. Avete altre iniziative in programma?
È stato proprio grazie a questo progetto di lettura e di canto, cominciato con mia madre circa quindici anni fa, che ho iniziato a esibirmi come solista e a sviluppare il mio repertorio: quindi le sarò sempre grata per questo. Abbiamo suonato spesso in passato, ma al momento lei ha diversi progetti cinematografici come sceneggiatrice e le nostre strade si sono separate. Ma chissà cosa accadrà in futuro…
Parliamo del rapporto, ormai consolidato da una decina di anni, con Manfred Eicher. Come ti trovi con lui e con la «grande famiglia» ECM?
Prima di tutto sono onorata di far parte della «grande famiglia» ECM. Questa etichetta è la culla del jazz europeo, al quale sento di appartenere profondamente, ed è una grande gioia per me lavorare con un’etichetta che non scende a compromessi e dà sempre la priorità all’arte. Non solo: è anche una delle poche grandi etichetti indipendenti a sopravvivere ancora oggi. Ammiro il concetto di «bellezza radicale» di Manfred, e lavorare con lui in studio è stata ed è un’esperienza molto ricca. Mi ha sempre colpito la gioia genuina che esprimeva ogni volta che qualcosa lo toccava. Lui ha la capacità di diventare come un bambino felice quando la magia della musica funziona.
Nell’ultima intervista a Musica Jazz, pubblicata nel gennaio del 2021, avevi raccontato di un progetto più groove che avevi intenzione di sviluppare. Ci puoi dire di che si tratta? E cosa c’è nella tua agenda prossimamente?
Sto ancora lavorando al progetto cui fai riferimento. E vado spesso a Londra per seguirlo. Però, al momento, non posso ancora rivelare nulla. Per quel che riguarda il mio futuro, invece, porterò in tour i brani del nuovo album «A Time To Remember».
Ti ascolteremo anche in Italia?
Suonerò il 25 agosto a Bari per l’A-Riva Festival. È sempre una gioia per me esibirmi nel vostro Paese, spesso in luoghi insoliti e bellissimi dove il pubblico che ama il jazz è così entusiasta.