Dominic Miller: Vagabond

Al terzo album ECM, il chitarrista argentino realizza un gran bel lavoro assieme a un gruppo davvero eccellente: un disco che mescola linguaggi e mal sopporta etichette. Ecco quindi l’esito della nostra conversazione

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I sociologi le chiamano eminenze grigie. Sono personalità il cui talento e il cui carisma diventa il motore silenzioso del successo di un personaggio pubblico; non amano la ribalta se non strettamente necessitata dalla circostanza, ma collaborano proficuamente alla migliore riuscita di un programma ambizioso. Dominic Miller è certamente, nel senso più alto, una delle eminenze grigie della produzione musicale degli ultimi trent’anni. I più lo associano – non a torto – a Sting, il cui percorso musicale dai Novanta a oggi si è svolto al fianco del suo insostituibile chitarrista argentino, al quale lo appaia un idem sentire nella fase compositiva e l’essere una infallibile macchina da guerra nei live. 

Ma a leggere la biografia del musicista d’oltreoceano, le collaborazioni con i maggiori protagonisti delle classifiche deluxe sono talmente tante e varie da dover convergere sulle sue qualità versatili senza troppi distinguo. Il riconoscimento del suo talento musicale è uno dei rari esempi su cui la critica è sostanzialmente unanime. Roba rarissima. Eppure, a dispetto di una vita fatta di grandi palchi e tour da capogiro, Miller sembra trovare il proprio momento identitario ed elettivo nella quiete della campagna provenzale o parigina, dove ha scelto di vivere in mezzo alle mille date in programma. È qui, racconterà, che trova l’ambiente adeguato a comporre la sua musica che con il nuovo «Vagabond» (ECM) arriva a contare tredici album da leader, gli ultimi tre dei quali sotto l’ombrello del prestigioso marchio bavarese («Silent Light» del 2017 e «Absinthe» del 2019). Capace di saltare dal rock a Chopin o Bach, dalla musica brasiliana al jazz, Miller è un chitarrista raffinato, attento ad individuare un ruolo al suo pubblico e ai musicisti che suonano con lui; chiedere la cooperazione al processo creativo è in effetti il segno distintivo anche di quest’ultimo lavoro, che mescola linguaggi e mal sopporta etichette. Lontano da ogni divismo, il musicista è piuttosto preoccupato di lavorare su una forma di arte che si possa riassumere nella semplicità, nella naturalità del suono, nella sua rotonda purezza. 

Per un uomo argentino di padre americano e madre irlandese, che vive tra Parigi e il Sud della Francia quando non è in tour per il mondo, Vagabond sembra il titolo perfetto per un album. Un altro brano si chiama Clandestine … C’è qualcosa di autobiografico? 

Non del tutto, in verità. Faccio fatica a identificarmi con il profilo del «vagabondo»; non lo sono perché vivo una vita comoda, ho un bel tetto sopra la testa. Il vagabondo è qualcuno davvero libero, libero da responsabilità. Mi piace l’idea di un tizio che gira di città in città condividendo storie e aneddoti in cambio di una coperta e di cibo. Vagabondo è chi ha qualcosa da offrire, capisci? Ma soprattutto «Vagabond» è il titolo di una poesia (di John Masefield, ndr) che era la preferita di mio padre; perciò ha anche un legame diretto con lui, una specie di omaggio. Dopo di che certamente mi identifico nella parte di chi viaggia molto perché si porta dietro storie e musica. Clandestine, invece, ha un senso diverso… è nato durante il lockdown. Uscivo da fuorilegge a bere una cosa con alcuni amici, come accadeva anche, ne sono certo, in Italia. Alcune persone hanno chiuso le finestre e noi uscivamo insieme; non so, in qualche modo mi ha ricordato come dovesse essere durante la guerra o qualcosa del genere, quindi l’ho trovato un titolo divertente. 

A proposito di padri, c’è anche un altro pezzo nell’album, Mi viejo, è sempre per lui? 

Sì. In spagnolo quella parola significa «old man», «vecchio mio» è una forma affettuosa e familiare, sono nato in Argentina e quindi parlavamo spagnolo. Sono stato fortunato ad avere un padre che era un musicista non professionista ma molto dotato; nei miei anni di formazione suonava un misto di tango e di blues, perché lui era americano, ma fu portato in Argentina quando era ancora un ragazzino. Quindi in lui convivevano questi due lati culturali e sono stato fortunato ad averli assorbiti. 

Secondo alcuni musicisti, tecnicamente, il tango è una musica difficile da suonare con la giusta intenzione

Ma no, non direi. È una questione prettamente ritmica. Bisogna mettere molta enfasi sul primo tempo, in realtà ha un tipo di andamento piuttosto regolare, a differenza di altre musiche come la brasiliana o la colombiana. Il tango è molto diretto, si gioca sul tipo di attacco. Anche se poi credo che non sia una musica chitarristica, ma abbia la sua migliore espressione nelle forme orchestrali. 

All Change è il brano d’apertura di «Vagabond» , è una specie di storia breve in cui più che il tema melodico si introduce un’atmosfera; in generale, mi sembra che tutto l’album sia costruito molto su climi emotivi 

Sì, vedi, il primo brano ha qualcosa a che fare con il teatro, con un copione. È come se da subito volessi presentare gli «attori» che stanno per interpretare le parti. Io faccio un po’ l’«uomo con la vestaglia rossa», il maestro di cerimonie… per cui il brano è una sorta di overture, l’introduzione a ciò che sta per accadere, ai suoni che si ritroveranno nell’album. Ci sono alcuni movimenti molto pianistici, una batteria piuttosto virtuosa che àncora il brano a terra, come richiede il rock; perché in fondo, lo sai, sono un grande fan del rock. 

Al basso hai scelto Nicholas Fiszman, che è anche un ottimo chitarrista. Devo dire che la sua presenza è piuttosto evidente nella creazione del suono del gruppo. Quanto è importante per te?

Molto! È una questione di personalità nell’espressione, non è tanto nelle note che vengono suonate. È di quello che ho bisogno: carattere. Si tratta della ricerca della profondità e il basso è alle fondamenta del suono che cerco: io vengo dal mondo del rock’n’roll, dove basso, batteria e chitarra sono quasi obbligatori. Sono un fan dei Pink Floyd e in generale del rock inglese, dove il ruolo del basso elettrico è centrale, e mi aiuta a raccontare la storia se sa entrare nel clima musicale. Per esempio, Nicholas aiuta anche lasciando lo spazio perché io possa suonare una melodia. Ho bisogno di questo e lui è grande in questo senso, ha un gran buon istinto per i giri armonici, per capire a fondo le strutture musicali. Il bassista alla fine non può suonare tutte le note, di fatto si limita a tre, quattro note dell’accordo e quindi la sfida è nel trovare la perfetta rispondenza con un voicing, un contrappunto, un cambio di ottava. 

Un concetto di cui parli spesso è quello del «senso narrativo di una canzone», il racconto. Cosa significa? 

Ho preso ispirazione dai grandi songwriters. Penso agli Eagles, Elton John, Stevie Wonder, Paul Simon, Neil Young… Tutti loro raccontano una storia, anche se non necessariamente serve capire il testo, ma interpretare la forma e la forma è quella che mi piace: per me quella è la capacità di raccontare una storia. Mi capita lo stesso quando ascolto musica classica, che so, Chopin o Bach; hanno un senso narrativo molto forte, poi sta a me come ascoltatore capire dove va quella storia, ma certamente mi stanno proponendo una struttura, che mi aiuta a trovare la giusta forma. Per cui, quando scrivo musica strumentale, mi aiuta pensare all’importanza di una struttura che abbia una sua capacità narrativa. Quando lavoro con i miei musicisti in studio o durante una serie di concerti, parlo molto delle canzoni in termini di chorus, bridge, coda; non si tratta della sezione A, B, C che è un approccio più tipico del jazz, ma della «strofa», capire cosa dice, quale è la sua funzione all’interno della canzone; lo stesso con il bridge: quale funzione svolge? Ecco, il bridge, ad esempio, è qualcosa che ti devi «guadagnare» quando scrivi una canzone, perché funzioni efficacemente; ci devi arrivare in modo sensato, altrimenti è meglio lasciar perdere e non metterlo affatto. 

Quanto alle strutture, i brani di «Vagabond» sembrano molto aperti nelle variazioni tonali, anche lontane tra loro, passaggi da minore a maggiore e così via. Hai un approccio modale nella composizione? 

Credo non sia intenzionale. Penso sia più una questione di dove mi trovi nella mia traiettoria armonica; diventando più vecchio, riesco a percepire meglio le dissonanze negli accordi, ma mi piace adottare anche soluzioni molto semplici, come in Vaugines; gli accordi di quella canzone sono molto diretti, voicings tipici della tradizione americana che quindi non sfidano particolarmente l’orecchio, ma poi tutto converge verso qualcosa di diverso; alla fine della canzone, si creano tensioni armoniche più interessanti e particolari, ma non direi che è un pensiero preordinato quello di fare musica modale, esce fuori e basta. 

L’andamento dei pezzi è spesso riferibile a uno slow tempo, è un modo attraverso il quale riesci ad esplorare meglio le potenzialità, i colori dei singoli accordi? 

Non ho una risposta definitiva sul tema della velocità sul tempo, non penso mai in termini di veloce o di lento, è qualcosa che viene e che è difficile capire da dove provenga. È più che altro un fatto di ispirazione, ho una illuminazione e il mio lavoro di musicista e compositore è quello di portare quei piccoli momenti di ispirazione ad una loro conclusione. Mi siedo al mio tavolo di cucina e passo un sacco di tempo a capire come dare la forma giusta a quelle idee, perché tutte convergano su un risultato semplice. Voglio che nel suono tutto accada in modo naturale, ma questo è un duro lavoro, una faticaccia, ecco perché mi piacciono le armonie semplici. È anche il motivo per cui non scandisco tutte le note di un accordo, perché voglio che tu, l’ascoltatore, trovi le altre note, quelle che senti possano funzionare. Questo lasciare spazio è il modo in cui interagisco con chi ascolta, è l’aspetto collaborativo della musica. L’ascoltatore è parte attiva nel mio processo di scrittura, gli chiedo di aprire il cuore in tempo reale e far vedere che c’è posto per completare il brano. Niente a che vedere con l’atteggiamento del tipo Io so tutte queste sottigliezze musicali, quind, adesso ti mostro come si fa. Non ho bisogno di questo, mi piace proporre l’essenza di un brano. È difficile da descrivere, ma qualche volta, se sono fortunato, riconosco che Dio mi ha donato qualcosa e sono onorato di portare a compimento il lavoro, di modo che Lui mi possa dire: ben fatto, hai fatto la cosa giusta! 

Il suono della chitarra in «Vagabond» è molto profondo e ricco di riverbero. Quanto è importante la ricerca del suono? 

Per me? Semplicemente la cosa più importante di tutte! È ciò su cui lavoro da tutta la vita e continuerò a lavorare fino all’ultimo momento: cercare di perfezionare il suono. Tutto ciò che mi interessa non è nell’abilità di suonare veloce, ma nella purezza del tempo, il che non vuol dire che non ci siano situazioni musicali per suonare veloci, ma spesso mi ritrovo a passare intere giornate in quella ricerca della lentezza per cercare il suono giusto e questo è uno dei motivi per cui, quando mi esercito, suono Bach, perché lo puoi suonare molto lentamente, anche in modo piatto se vuoi, ma focalizzandoti esclusivamente sul suono. Quindi, se mi dici che il risultato nel disco è quello di un suono profondo, non posso che esserne contento, ma non c’è alcuna modifica, è tutto molto naturale, c’è un po’ di riverbero, ma certamente nessun compressore o altri effetti. 

Il risultato è un suono molto ECM, per così dire, si vede che si adatta alla tua idea di musica. 

Certamente! È buffo, c’è qualcosa di filosofico in quell’etichetta, hanno un loro tipo di mistica e mi sembra interessante perché sono un loro grande fan. Da ragazzo ascoltavo le loro produzioni di Keith Jarrett, Egberto Gismonti, Jan Garbarek, Ralph Towner, Pat Metheny, e la cosa che condividono è che tutti gli album hanno un suono molto, molto vero, anche se con qualche imperfezione: ma questa è la loro filosofia, catturare l’attimo. Due giorni per registrare e uno per il missaggio, quindi non c’è spazio per le manipolazion. Bello, no? 

Ralph Towner, che abbiamo intervistato qualche mese fa, mi diceva esattamente la stessa cosa. 

Sono contento, anche perché sono un grande fan di Ralph e il suo ultimo disco, «At First Light», mi è piaciuto moltissimo: lui è davvero un chitarrista straordinario, con un gran suono e quello che mi piace è che ha registrato la verità dei suoi momenti musicali, ci sarà ogni tanto qualche «acciacco», ma non mi interessa affatto, perché sa parlare alla mia parte più profonda. Come quando ascolto Egberto Gismonti che suona soltanto due note sul piano o sulla chitarra… Avrò avuto diciott’anni, lo ascoltavo e semplicemente mi ha spezzato il cuore, mi ha incantato e questa è la magia di ECM: garantire all’ascoltatore una verità assoluta. È una forma di grande rispetto, perché presuppone che le persone non siano stupide, sappiano capire; noi possiamo passare tutto il giorno a perfezionarci o fissarci su un dettaglio, finché tutto non sia inattaccabile, ma il risultato qualche volta è paludato. Voglio che resti qualcosa di me che sia reale, come un fotografo che ritragga un momento di realtà, è qualcosa di completamente analogico e questo mi piace di Manfred Eicher: saper scattare un’istantanea di dove i musicisti si trovano in quell’esatto momento. 

Tra l’altro, lui ha contribuito a spezzare la smania di etichettare la musica in generi: jazz, classica, avanguardia… l’idea di una musica contemporanea e basta è stata piuttosto innovativa.

Non ci sono etichette possibili, hai ragione, qualche volta si cerca di restare aggrappati a qualcosa, ma non è possibile, nessuna si avvicina al risultato musicale. La radice di Eicher è fortemente europea e questo è il suo senso più profondo. Se pensi a quello che è stato il jazz nella storia, ECM ha fatto un’operazione diversa… In America etichette come Verve o Blue Note sono state più connotate sulla produzione di un linguaggio musicale definito, che potevi chiamare jazz. In Europa è successo qualcosa di diverso con quel gruppo di lavoro. 

Parlando di musica contemporanea, qualcosa che ha cambiato semantica è l’improvvisazione musicale, sei d’accordo? 

L’improvvisazione per me è semplicemente «parlare il linguaggio della musica», è come avere una conversazione, quindi dipende tutto dai musicisti: il tipo di vocabolario utilizzato e il tipo di dialetto parlato. Quindi, a mio avviso, i migliori improvvisatori sono quelli che hanno studiato dialetti diversi, parlo di accenti musicali; sono i più ricchi perché possono davvero confrontarsi. Ovviamente mi riferisco a un livello molto alto, il primo nome che mi viene in mente è Wayne Shorter, un artista capace di creare qualcosa di incredibile con una singola linea melodica o una sola nota; mi emoziona, sento davvero che mi sta parlando a un livello intimo, ho piena fiducia nel suo linguaggio ed è facile seguirlo. Proprio perché è il linguaggio della musica, io non considero l’improvvisazione come un fatto esclusivo del jazz; ovvio, il jazz è conosciuto per questa caratteristica specifica, ma penso anche al rock’n’roll dove questa qualità è importante e lo sta diventando sempre di più anche nella musica classica, dove hai lo spazio adatto per improvvisare, specialmente quando ti trovi davanti a una cadenza dentro una Partita di Bach o stai suonando la sua Ciaccona. Sempre più musicisti classici si trovano di fronte a questa opportunità; quando inizio a studiare una parte, lavoro sulla decostruzione di ciò che accade nel movimento degli accordi. Un musicista jazz si trova, che so, davanti ad un accordo diesis, con la settima maggiore, la nona che magari passa ad un altro di tonalità diversa con la quinta bemolle. È interessante, perché come improvvisatori o musicisti jazz siamo incuriositi dal sapere come viene costruita quell’armonia, mentre agli studenti di classica non viene insegnato da dove esce quella roba, ma solo a come articolarla. Il musicista jazz vuole sempre sapere cosa c’è dietro, anche se non è sempre accessibile; pensa alle parti di Bach: è come Shakespeare, non si arriverà mai a comprenderlo nella sua interezza. 

Alludi spesso alla musica classica: credi sia importante avere un buon bagaglio tecnico come musicista non solo jazz ma anche rock? 

I musicisti hanno tutti un loro superpotere. I musicisti jazz hanno il superpotere di parlare il linguaggio della musica, i musicisti rock hanno il superpotere di produrre sonorità anarchiche e arroganti. Il superpotere dei musicisti classici è la produzione del suono, perché investono dai primi anni al resto della loro vita professionale a lavorare sul suono: intonazione, purezza e così via. Il loro è l’approccio che cerco di avere quando studio e mi esercito. In genere, i musicisti jazz non investono troppo sul suono, tranne qualche eccezione; per questo sono contento di poter affermare che il pianista che suona nel mio album, Jacob Karlzon, è uno di quei pianisti davvero dotati del tocco classico: ha una tecnica incredibile, è affidabile, ha un suono bello e originale, il che non è affatto scontato nel pianoforte. Nel jazz lo hanno avuto Chick Corea, McCoy Tyner, Keith Jarrett e altri pochi, ma resta il fatto che quando Jarrett, solo per fare un esempio, suona repertorio classico, non arriva ad emozionarmi come un musicista classico. 

Per te la chitarra, oggi, è una specie di articolazione aggiuntiva del corpo o uno strumento per scrivere e produrre musica? 

Questa è una gran buona domanda e sono felice che tu me l’abbia fatta, perché la chitarra per me è solo il mezzo per essere nel «business», mentre ciò che voglio essere è un musicista, che usa la chitarra come lo strumento che lo porta ad essere tale; col passare del tempo sta diventando sempre meno importante per me, non fa parte della mia identità profonda. Ecco perché, come mi è già capitato di dire, «Vagabond» non è un album di chitarra, non avrei mai potuto farlo, sia solo per la considerazione altissima di gente come Ralph Towner o Pat Metheny, quelli sono chitarristi inarrivabili e non potrei fare nulla di simile; ma ciò che posso fare è scrivere musica, perché ho avuto la fortuna di lavorare nel mondo del songwriting per tutta la mia carriera. Certo, sul sedile posteriore della mia macchina c’è sempre una chitarra, ma non mi considero un chitarrista, nonostante sia un fan dei grandi virtuosi, cosa che io non sono.. Purtroppo! 

Dominic Miller

Qualche chitarrista della storia da te particolarmente amato? 

Jimi Hendrix è in cima alla classifica, per ciò che poteva fare con lo strumento, la sua capacità espressiva, ma penso all’incredibile bellezza di Jeff Beck, che ha una voce splendida sullo strumento. Il mio vero eroe è il brasiliano Baden Powell: quando ero un ragazzino lui per me era come Hendrix, lo ascoltavo e pensavo: «Ecco, questo mi rappresenta, questo è proprio ciò che voglio ascoltare». E poi Eddie van Halen per il suo senso del ritmo e lo stesso vale per Paco De Lucia, probabilmente il miglior chitarrista ritmico di flamenco (pensa a «Cositas Buenas» del 2003, wow! Incredibile la forza dei riff, per me quello è l’album perfetto!) 

I riff… Quanto è difficile trovare quello giusto? 

Parecchio! Penso che sia complicato finirlo, perché un buon attacco di riff arriva e basta, semplicemente ti cade tra le mani, ma certamente viene da un duro lavoro, allora lo devi saper catturare, devi saperlo riconoscere e saperlo stanare dal profumo, come un cacciatore di tartufi; quando arriva sai che è una specie di dono. Ma quello è solo il fortunato inizio, poi devi portarlo da qualche parte che lo sappia rendere «micidiale», con tutti i dettagli del caso. La cosa avvilente è quando te lo fai andar bene così come ti arriva (e si sente), perché è un tale regalo che va onorato lavorandoci su. 

Hai tempo di comporre quando sei in tour con Sting o altri musicisti?

Il tempo lo avrei pure, ma la vita in tour non è l’ambiente ideale per la scrittura, perché sono sempre circondato da altre persone e quando sono in quella situazione sono un performer, sto dentro quel ruolo, possono venirmi fuori delle idee ma poi ho bisogno di trovare la struttura, il vero e proprio momento compositivo, e lì preferisco essere da solo. Quando sono in giro tra aeroporti, hotel, soundcheck ho troppe cose in testa, troppa musica. Ho bisogno di spazio, di sentire il vuoto, come quando spegni il computer. Ecco perché, per lo più, riesco a farlo quando sono in campagna, nel silenzio. 

Il silenzio è paradossalmente anche una delle qualità maggiori di «Vagabond», lo spazio che lascia all’ascoltatore di immaginare.

Credo che il silenzio sia una buona cosa. È come nell’architettura, dove i miei preferiti sono gli architetti che lasciano spazio perché c’è un lavoro attento sull’ambiente. Non si tratta di costruire un palazzo fico, disegnato perfettamente, in mezzo al nulla, perché non ti sei domandato come interagirà quell’edificio con la luce. Devi sempre sapere dove ti trovi e come agirà quello che stai componendo con la natura circostante; è questo che nella musica, secondo me, consente all’ascoltatore di sentirsi ben accolto. Provo a lasciargli lo spazio, senza dover ogni volta necessariamente articolare una frase fino in fondo, è come dire: «questo è per te, te lo sto donando, sto aprendo le finestre». C’è un brano nell’album, Open Heart, dove viene accennato un motivo con la chitarra ma poi mi fermo, non suono per quattro o cinque minuti in mezzo alla canzone, perché mi piace ascoltare come i musicisti con me interpreteranno questa idea, lasciandola andare in direzioni impreviste e diverse.

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