A bordo dell’Eumelia, piccolo peschereccio di aragoste nel mare di Cuba, quattro marinai trascinano la loro vita tra la fatica del lavoro e l’alienazione della quotidianità che esautora prospettive e possibilità. Un giorno accolgono un quinto uomo a bordo, che paga loro il passaggio e che passerà le giornate sul ponte a guardare fissamente il fondo del mare, a immaginare storie e guardare la multiforme bellezza della realtà, dando un nuovo orizzonte esistenziale ai suoi compagni di viaggio. È questa, in breve, la storia di El caballo de coral di Onelio Jorge Cardoso, che nel 1983 fu rappresentato a Santiago dal Gruppo Sperimentale di Teatro, con le musiche di José Aquiles Virelles. Aquiles, che oggi è tra i più rispettati padri nobili della musica di Santiago e che ha scritto per il cinema e il teatro, è stato tra i fondatori del Movimento della Nueva Trova nel 1974, che per almeno un ventennio, con un occhio ai trovatori americani da Dylan in poi, è stato l’avanguardia musicale dell’isola caraibica, con significative ibridazioni con il tropicalismo brasiliano e il rock-pop occidentale, e lo sguardo fisso sulle possibilità espressive di un linguaggio popolare, ma saldamente ancorato agli stilemi classici.
E siccome le scelte dei padri ricadono sui figli, anche in senso virtuoso talvolta, il musicista cubano nello stesso anno del Caballo mise al mondo David Virelles, pianista di marca eclettica che oggi a quarant’anni rappresenta una delle più interessanti e solide realtà del jazz contemporaneo. Con il valore aggiunto di una madre flautista, David, dopo aver ruminato gli studi classici e ascoltato tonnellate di musica d’ogni genere, si è andato costruendo un nome affidabile nella comunità statunitense, con una serie di collaborazioni da capogiro: Mark Turner, Steve Coleman, Henry Threadgill, Chris Potter, fino a costituire nel 2010 un trio con Andrew Cyrille e Ben Street. È lui, ad oggi, il raro «caballo de coral» di Cardoso musicato dal padre, propenso a guardare nelle profondità dell’espressione artistica, per condividere quella bellezza con il pubblico. David è un uomo solare e accogliente, al contempo rigoroso (pignolo, si intuirebbe) quando si tratta del suo lavoro, che non limita – come spiega nel corso della conversazione – al momento performativo o di scrittura, ma picchetta con ricerche, studi e confronti.
Ascoltatore vorace, nella già lunghissima discografia a suo nome o a supporto di progetti eterogenei, David ha dimostrato di proseguire con coerenza un percorso dentro le multiformi articolazioni del ritmo, nume tutelare della sua musica, che scompone e ricompone, mescolando i linguaggi sperimentali di Santiago de Cuba con le avanguardie occidentali tanto statunitensi quanto europee. Il risultato è una musica lontanissima da ogni dagherrotipo stilizzato dell’Isola e proiettato in territori di astrattismo contemporaneo, che sfidano e invitano gli ascoltatori ad immergersi emotivamente in un circuito sonoro poco convenzionale. Un passo oltre, dunque, la Nueva Trova e i collettivi free di Chicago dei Settanta, che pure mescola dentro un linguaggio cosmopolita affatto originale.
In effetti, la musica di David Virelles (il quale ha appena pubblicato il suo ultimo «Carta» (Intakt, 2023) in trio con Ben Street ed Eric McPherson) può apparire in prima battuta lontana da questo ragazzo timido e gentile, che parla sottovoce con garbo delle proprie visioni, ma il filo rosso che tiene ben ancorati i due capi è, appunto, il desiderio scintillante di profondità, la capacità di squadernare le grammatiche della cronaca per aprirle i sentieri dell’immaginazione. Il caballo de coral, ancora una volta, che di lui molto sussume.
Entriamo subito nel vivo di questo tuo «Carta», che hai registrato a giugno scorso. Sono tutte tue composizioni eccetto Confidential che è di Enrique Bonne Castillo, un musicista straordinario oggi novantasettenne… È una specie di omaggio?
Ho registrato uno dei suoi brani, Un granito de arena, in un mio album del 2018, «Igbó Alákọrin (The Singer’s Grove)», che fu l’occasione per tornare a Santiago. Mi piaceva l’idea di collaborare con musicisti del posto e rileggere alcuni di quei linguaggi insieme a loro (son, trova, danzòn oriental). Bonne era lì ed era molto vicino alla mia famiglia, mio padre è un cantante e compositore, mia madre una flautista; così, quando ho deciso di lavorare su quel progetto, sono andato spesso a Santiago per fare alcune ricerche ed è la prima volta che sono inciampato in quel brano, ma non lo abbiamo registrato subito. Ho voluto suonarlo per un po’, provando approcci diversi, per vedere cosa usciva fuori, anche con il mio trio. E poi Bonne Castillo non è solo un grande autore di musica ma anche un teorico; ha tirato su un gruppo di percussioni, Los Tambores de Bonne, che per me sono stati di grande ispirazione… è stato realizzato anche un documentario di grande interesse su di loro, si trova su Youtube, perché sono particolarmente rappresentativi della cultura di Santiago nelle sue diverse varianti.
Che è ben diversa dalla musica dell’Avana…
Assolutamente sì, come da quella di Guantanamo o di Matanzas; certamente la musica di Santiago raccoglie le diverse eredità provenienti da Cuba.
Che tipo di ricerche stavi effettuando?
Dunque, quella ricerca aveva diverse articolazioni. In primo luogo ero interessato ad interagire con i musicisti; gli facevo molte domande per imparare il repertorio, provare a suonarlo insieme, conoscere le loro storie. È quella che si chiama ricerca «in situ». Poi ho studiato molti degli archivi sparsi nel mondo, con testimonianze e tracce di quei suoni; sono stato anche ospitato presso la Cristobal Diaz Ayala Cuban Popular Music Collection. Diaz Ayala era un ricercatore, ha vissuto a Porto Rico per molti anni, aveva una delle maggiori collezioni documentali di musica cubana e ha donato il fondo all’Università Internazionale della Florida, la quale offre borse di studio ai musicisti e agli studenti interessati a quel tipo di ricerche. Per me è stata un’occasione importante di approfondire i diversi aspetti di quei linguaggi, sono riuscito a trovare molte informazioni interessanti.
Un’altra opportunità l’ho avuta studiando una nutrita collezione che si trova a Madrid, denominata Gladys Palmera, che ha anche una radio per la quale mi chiesero di fare un podcast durante la pandemia. Nel frattempo mi sono confrontato con Rosa Marquetti, una straordinaria ricercatrice, fondamentale per chiunque voglia imparare quegli argomenti. Lei ha un blog, che porta avanti da anni e che è stato da quest’anno incorporato nella Library of Congress; il suo merito è proprio quello di documentare nello specifico molte musiche o musicisti dimenticati.
Nei tuoi studi, sei particolarmente interessato alle possibilità del ritmo e dell’armonia?
Ovviamente mi incuriosisce approfondire ogni aspetto del mio lavoro di musicista: ritmo, armonia, forme, stili, ma soprattutto mi concentro sul contesto storico, conoscere le persone che hanno coltivato e promosso i diversi tipi di musica. Certo, sono interessato a come mettere insieme, in modo pratico, questi diversi elementi, ma anche a capirli a fondo, perché, come posso dire, è una parte centrale del mio lavoro quella di partire da materiale grezzo e lavorarci su, in particolar modo da un punto di vista ritmico. Quando sono andato a New York ho studiato con un taglio tutto diverso l’armonia, l’improvvisazione, le forme musicali, delle tessiture e quindi il mio interesse è nel trovare una sintesi di questi diversi linguaggi.
Ascoltandoti suonare il piano, può venire in mente l’immagine di chi ha un’orchestra tra le mani, ma un pensiero da batterista… È un’idea strampalata?
Assolutamente no! È qualcosa su cui lavoro da anni… Per un periodo volevo a tutti i costi che il pianoforte suonasse come una batteria. Sai, cerco di lavorare con diversi percussionisti, anche fuori dalla tradizione cubana; ad esempio con Ramón Diaz, che ha vissuto a NYC per molto tempo, una figura leggendaria nella tradizione folk. Diaz è un maestro della rhumba, ma anche delle tradizioni yoruba, per esempio, e così è stata una benedizione poter lavorare con lui… Ma poi ci sono stati meravigliosi percussionisti come Changuito, Horacio El Negro, Dafnis Prieto, Sandy Perez, Julio Barreto; quanto invece alla tradizione nero-americana, ho avuto l’opportunità di suonare con Andrew Hill, Milford Graves, Billy Hart, Billy Drummond, Roy Haynes e con suo nipote, Marcus Gilmore, che è uno dei miei più cari amici e tra i primi con cui ho interagito arrivando a New York.
Per questo album hai scelto due strepitosi musicisti come Ben Street ed Eric McPherson. Perché hai ritenuto fossero giusti per questo progetto?
Dunque, Ben l’ho conosciuto la prima volta che sono andato a New York ed è stato tutto naturale: abbiamo rapidamente scoperto di avere molti interessi in comune, poi è diventata una figura importante per il mio sviluppo successivo ed è grazie a lui, ad esempio, che ho conosciuto Andrew Hill. Abbiamo formato il trio col quale abbiamo registrato e girato live; resta uno dei miei bassisti preferiti al mondo. Per quanto riguarda Eric, devo dire che in termini di batteria moderna lui è uno dei più avanzati, con spiccato senso dell’avventura e capacità di intuizione, sa seguire con naturalezza le mie idee; ho una considerazione altissima del suo modo di suonare ed è un piacere farlo ogni volta che capita.
In questo album ci sono forme non direttamente ascrivibili al jazz; d’altronde l’improvvisazione negli ultimi decenni è diventata qualcosa di diverso rispetto alla nozione tradizionale. Nel tuo universo sonoro che ruolo gioca?
Per me l’improvvisazione è, alla base, una forma di composizione. Quando ci penso, non mi rapporto all’improvvisazione come a qualcosa che avviene per una sorta di «intuizione», che può naturalmente far parte del processo, ma prima è un fatto musicale che può essere studiato. Ci sono dei dati oggettivi per improvvisare che puoi sviluppare attraverso lo studio, ci puoi lavorare sopra; a patire dall’approfondire i linguaggi di tutti i musicisti che si ammirano, occorre farne una routine quotidiana.
Mi rendo conto che la mia è una posizione personale, ma il lavoro lo intendo così: funziona meglio quando è sottesa una sorta di logica, di struttura, che sopravvive anche quando sembra muoversi in ambiti molto astratti. In quello che faccio, c’è sempre qualche elemento che puoi mettere in relazione con la forma, l’armonia, il ritmo. Io ho imparato a farlo, non è venuto da sé. Personalmente ho avuto modo di esplorarlo con alcuni dei miei mentori come Muhal Richard Abrams o Stanley Cowell: sono loro ad avermi trasmesso questo approccio e sono molto grato per questo.
Tra gli altri mentori nella tua formazione credo ci sia stata anche Jane Bunnett.
È stata la prima musicista con cui sono entrato in contatto quando mi sono trasferito in Canada; siamo diventati amici direi già dal 1998, ci presentò un trombettista cubano molto bravo, Inaudis Paisán, che a sua volta aveva collaborato con musicisti leggendari nel circuito della musica cubana ma non solo. Lei all’inizio mi aiutò a conoscere ed apprezzare gente come Paul Bley, Don Pullen, Stanley Cowell…
Anche Keith Jarrett, forse?
In realtà no, lo conoscevo già perché a Cuba era molto popolare tra i musicisti, mentre erano meno noti artisti come Andrew Hill o Billy Higgins. In questo senso, però, mi considero fortunato, perché sono riuscito a conoscere tanta musica grazie a mio padre, che mi ha guidato negli ascolti. A un certo punto mi ossessionai letteralmente con Bud Powell e Thelonious Monk, i miei veri supereroi del pianoforte.
Devi a tuo padre, quindi, la possibilità di sviluppare il tuo amore per il jazz.
Mio nonno ascoltava jazz e così anche mio padre, che, girando spesso fuori Cuba, poteva riportare a casa da ascoltare alcuni artisti che mi interessavano, a partire da Bud Powell. Dopo di che ho iniziato a studiare, iniziando dalla musica classica, che è certamente importante per la tecnica, ma anche perché riesce a mettere in contatto un ragazzo di Santiago, come ero io, con una certa estetica musicale occidentale, gettando i semi per ibridare suoni diversi, anche perché nella mia città c’è una cultura solida della musica classica e brasiliana.
Nel 2022 hai registrato un album per due piano con Hilario Durán: una scelta molto coraggiosa, perché l’interplay giusto è difficile da raggiungere. Com’è andata?
È molto difficile, hai ragione, in primo luogo perché come pianista hai sempre a disposizione diverse possibilità, hai un’orchestra tra le dita e quindi la tendenza è quella di suonare da solo. Per questo, quando si è in due, devi fare molta attenzione a come arrangiare le voci, perché il piano può prendere molto spazio sonoro; quindi, l’uso del pedale, la dinamica del tocco o l’ampiezza del suono devono trovare una corrispondenza coerente con l’altro pianista. Hilario, invece, me lo presentò ancora una volta Jane… Lui si era ritirato già da qualche anno; dopo averlo ascoltato, quando sono andato a Toronto, l’ho incontrato ed è diventato uno dei miei eroi, anzi un vero e proprio mentore. Nel corso degli anni abbiamo fatto diverse cose insieme per due pianoforti, per esempio la CBC ci ha commissionato un pezzo per quartetto d’archi ed è stato un lavoro molto formativo. D’altronde Hilario è uno dei più autorevoli esponenti del pianismo moderno di Cuba e ha una scrittura complessa, intricata ma molto bella per pianoforte.
Ti preoccupa la reazione del pubblico quando proponi un tipo di musica particolarmente astratta e, diciamo, non semplice da ascoltare?
Non parlerei di preoccupazione, ma certo mi interessa il pubblico che ascolta la mia musica. Credo che il tutto abbia più a che fare con l’idea di complessità: se il pubblico è aperto e paziente abbastanza da consentire alla musica di fare il suo «lavoro», il risultato emotivo arriva; non occorre avere un bagaglio di conoscenze tecniche per decifrare cosa sta accadendo. Spero sempre che la musica possa catturare l’immaginazione delle persone, perché questa è la sua magia; io ancora oggi non capisco tutto di John Coltrane o Charlie Parker o Duke Ellington, nonostante li studi con costanza da un mucchio di anni, ma il punto è lasciare arrivare il feeling, la bellezza dei suoni, e questo è in fondo ciò che spero accada alle persone che ascoltano la mia musica.
A proposito di complessità, nel 2012 hai registrato per ECM un album con Andrew Cyrille che si chiama «Continuum». Lui è stato uno dei grandi protagonisti dell’avanguardia musicale: che rapporto hai con quel tipo di sperimentazioni?
Ti dirò che, personalmente, ho qualche riserva verso l’etichetta «avanguardia», perché credo che in più di un caso sia stata mal utilizzata. Ma la identifico con il livello di sperimentazione che i musicisti degli anni Sessanta o Settanta hanno approfondito: penso a Henry Threadgill o a Muhal con la AACM, che metto entrambi tra i miei maestri, ma anche a Eric Dolphy, Stanley Cowell, Cecil Taylor o Pharoah Sanders. Nello stesso tempo, mi piace ispirarmi al movimento dei compositori cubani che hanno fatto musica sperimentale elettronica, orchestrale, da camera come Carlos Fariñas.
Questa intervista sarà l’occasione per scoprire alcuni dei musicisti che citi, poco conosciuti o del tutto ignoti al pubblico.
Mi fa piacere, perché alla fine quando si parla di musica a Cuba in Europa, negli Stati Uniti e nel resto del mondo è solo quella legata alle forme più popolari. In realtà, se entri dentro quel mondo scoprirai una varietà e una complessità inimmaginabile; ci sono molti musicisti nel corso della storia che hanno scritto pagine bellissime in stili diversi, è una specie di serbatoio senza fine… È una delle cose che ho scoperto nel corso della mia ricerca in situ di cui parlavamo poco fa.
«Carta» è il primo album che registri con Intakt, mentre i due precedenti «Nuna» e «Singer’s Grove» erano tue autoproduzioni. Come è stato lavorare con loro?
È stato fantastico, perché sono stati rispettosi del mio lavoro, a partire dalla scelta dello studio di registrazione: i magnifici Rudy Van Gelder Studios nel New Jersey, che hanno una atmosfera particolare, unica, arriva l’eco delle grandi cose che sono avvenute in quello spazio. Di Intakt mi è piaciuta l’apertura, il rispetto per i miei processi creativi, soprattutto rispetto al fatto che tengo molto a curare in prima persona ogni singolo aspetto dell’album, incluse le copertine: questo per me era fondamentale.
Sul retro dell’album c’è anche una presentazione speciale, una poesia di Malik Crumpler che è piuttosto conosciuto anche fuori da New York.
Malik è una di quelle persone con cui riesco a connettermi in profondità! Attualmente insegna a Parigi ed è coinvolto nel movimento dadaista della Città, ma l’ho conosciuto a New York grazie a Jonathan Finlayson, il trombettista, che era un amico comune; la scintilla è scattata subito. In quei giorni stavo giusto pensando di trovare delle note di copertina un po’ diverse, di solito me le scrivo da solo, ma appena ho fatto sentire la musica a Malik ha detto che gli sarebbe piaciuto lavorarci su; lui ha una scrittura molto ritmica che lega quella forma poetica alla musica. Il risultato, credo, è di grande intensità.