Brandford Marsalis: il suono è tutto

Acchiappato al volo nei giorni della sua recente esibizione a Umbria Jazz, il sassofonista si è sottoposto al nostro interrogatorio e ci ha raccontato un sacco di particolari interessanti sul suo approccio all’esecuzione, alla composizione e all’insegnamento

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Sono passati quarant’anni da quando Branford Marsalis fu inscritto nel gruppo degli «Young Lions», giovani musicisti dalle abilità indiscutibili e pronti, con voracità, a mordere e segnare il futuro del jazz passando per le sue origini. Oggi, a sessantatré anni appena compiuti, il sassofonista di New Orleans, erede di augusta stirpe, ha maturato una visione solida di ciò che ama della musica: non sono certo le note, cui delega poco più che la funzione di una vite che tiene assieme un ambizioso progetto architettonico. Quel progetto è il suono e la sua semantica, l’idea di come esprimersi dentro contesti differenti, affermando al contempo la propria personalità senza tradire lo stile. Non che ci abbia lavorato (e ci lavori tuttora) poco. Qualche anno fa, durante un incontro a Parigi per la Selmer, raccontò un episodio significativo di quando militava nei Jazz Messengers di Art Blakey a soli vent’anni, correva l’anno 1980. In una pausa, stava ascoltando in cuffia John Coltrane e ci suonava sopra. Si sentì battere sulla spalla: era Blakey che gli chiedeva cosa diamine stesse facendo, e alla candida risposta: «Sto cercando di suonare come Coltrane», Marsalis si era sentito dire: «E tu credi che Coltrane a quindici anni ascoltasse sé stesso nel futuro per diventare quello che è diventato?». Poi, con una risata sarcastica, Blakey concluse: «Parla con Benny Golson e fatti dire cos’è che davvero ascoltava Trane». Così Branford andò da Golson e venne a sapere che i riferimenti di Coltrane erano Johnny Hodges e Charlie Parker: fu allora che il giovane leone si rimise a imbastire da capo il lavoro su quel suono che, per sua stessa ammissione, non è neanche tra i suoi preferiti, guardando piuttosto alla profondità di Sonny Rollins. «Ma ciò che rende speciale la musica di Coltrane è l’intensità, il modo di essere perfettamente dentro quell’universo sonoro», concluse il suo racconto Marsalis.

A furia di tirare il filo della storia indietro, Branford Marsalis è finito dritto dentro il repertorio classico che, pur noto fin da ragazzino quando lo studiava con accanimento, è diventato uno dei suoi obiettivi per completare il Grande Slam da fuoriclasse del sassofono. E questo a dispetto della sua biografia ufficiale, che racconta della vera ribalta nella cultura di massa per la lunga e strutturata collaborazione con Sting, a pochi mesi dalla chiamata alle armi di Miles Davis per «Decoy». Se in quel momento storico si tirò addosso qualche acredine, era soprattutto per il sospetto di aver abbandonato il grande corso della tradizione jazzistica per avvolgersi nel pop-rock. Non che lo abbia scalfito minimamente quell’ombra, visto che la risposta nei fatti è stata aprire contemporaneamente quanti più tavoli musicali potesse, portando avanti progetti classici, jazz e pop, come solista o come turnista, con la stessa metodica serietà con la quale affronta le domande delle interviste. Riflette pochi secondi e poi struttura le risposte con una forma logicamente perfetta, senza perdere mai il filo del discorso.

Tra i tavoli aperti negli ultimi anni andrà almeno ricordata la musica per il film Ma Rainey’s Black Bottom, intenso racconto di una delle più seminali blues singers degli anni Venti e con forti ascendenze su Bessie Smith, e quella per Tulsa Burning: The 1921 Race Massacre, documentario destinato a History Channel, che gli ha fatto guadagnare una nomination agli Emmy Awards. Nel frattempo, è corso a festeggiare con Yo-Yo Ma i novant’anni di John Williams eseguendone la magniloquente sinfonia Escapades, mentre nel 2020 era con la Philadelphia Orchestra per l’esecuzione di repertori classici del Novecento e paraggi. In Europa, in questi mesi, sta invece presentando un lavoro col suo storico quartetto del 2019, «The Secret Between the Shadow and the Soul», con l’ottima compagnia di Justin Faulkner alla batteria, Eric Sebastian Revis al contrabbasso e Joey Calderazzo alle tastiere e al pianoforte.

Il quartetto è, d’altro canto, un progetto strutturale nella carriera di Marsalis: nato nel 1986 con diversa formazione, ha maturato nel tempo una compattezza di suono, di complicità nell’uso dei linguaggi che non ha molti eguali nel panorama discografico contemporaneo. Certo, non si tratta che di noterelle d’orientamento, poco meno di una mappa concettuale, perché qualunque aggregatore di contenuti si voglia consultare, si avrà una produzione talmente ricca e variegata dell’attività di questo veterano della musica da difficilmente potersi contenere in un sommario ritratto. Qualcosa di interessante, però, salta fuori nel corso di questa conversazione, in cui Marsalis fa il punto su ciò che, effettivamente, lo seduce dei diversi linguaggi musicali che corteggia.

Hai lavorato spesso per il cinema, a partire da Spike Lee. Recentemente hai scritto le musiche per Ma Rainey’s Black Bottom, che ha consentito a un pubblico ampio di conoscere le vicissitudini di questa madrina così influente per il blues. Come lavori a un progetto del genere?
Quando si tratta di musiche per un film, qualcosa puoi iniziare a buttar giù prima, ma il grosso puoi farlo solo dopo aver visto il film, è a quello che devi rispondere. Nel caso di Ma Rainey, una volta che ho capito che non ci sarebbe stata molta musica, ho deciso di concentrarmi nella scrittura di arrangiamenti di brani che venivano da quel periodo e scegliere musicisti che sapessero suonare in quello stile. Non è per niente scontato, sai, è parecchio difficile, perché i musicisti contemporanei non ascoltano quella musica e non posso insegnare loro come fraseggiare. La comprensione può venire solo dall’ascolto e così mi sono limitato a dire cose semplici: niente licks moderni, solo arpeggi, l’assolo non deve essere né corto né lungo. Ed è capitato che qualche volta dovessi ricordare alla fine dell’improvvisazione: «Ti ho detto di evitare i cromatismi! È ambientato nel 1929, quella roba non c’era». Tant’è vero che i musicisti hanno ammesso che non si sarebbero aspettati quel grado di difficoltà.

Attribuire a carattere distintivo del jazz l’improvvisazione è un cattivo stereotipo che dura a scomparire. Abbiamo evidenti fonti che riportano al XVII Secolo. Per te cos’è l’improvvisazione jazz, suonare inserendo terza e settima bemolle?
Questo è quello che è diventato, in effetti. In generale, si improvvisa da ben prima del Seicento. Prendiamola larga: tutte le conversazioni sono improvvisazioni, io e te stiamo improvvisando proprio ora; se dovessimo farlo in italiano non funzionerebbe perché è una lingua che non conosco. Quindi bisogna utilizzare parole, dialetti, frasi dentro una conversazione con le quali si ha grande dimestichezza. Ti sarà accaduto poi di parlare con qualcuno che l’italiano lo conosce, ma tu ti accorgi che non è nato in Italia, perché il suo modo di costruire il linguaggio è un po’ diverso. Con il jazz è la stessa cosa: ha un suo modo tipico di colloquiare, fatto di frasi, slang, qualcosa che non ha nulla a che fare con le scale. Quelle piacciono molto ai musicisti di oggi, peccato che spesso non capiscono la struttura profonda delle regole di quel dialogo; e così, molto spesso non mi trovo a mio agio con quello che loro considerano improvvisazione. La band deve avere sempre una chiara influenza sul tuo assolo e tu devi mantenere la capacità di reagire a ciò che capita intorno. Molto spesso se chi è intorno a te usa solo scale o patterns, l’assolo non ha il minimo senso, ha fallito prima di iniziare. Stai semplicemente su un palco a farti le cose tue, non cerchi e non trovi interazione; in troppi pensano che la cosa divertente del suonare sia fare il loro assolo. Per me improvvisare non è affatto il cuore della faccenda, piuttosto capire in ogni momento dove è il beat, riuscire a interagire con i musicisti, è questo a interessarmi.

Chiaro, ma cosa accade allora all’improvvisazione quando registri e suoni da solo? Alcuni anni fa, per esempio, hai registrato «In My Solitude: Live at Grace Cathedral».
Ti dirò che ho ascoltato un buon numero di dischi strumentali in solo. Ma come appassionato, non come musicista. Ora, se un disco del genere è costruito solo sull’improvvisazione diventa noioso al terzo brano, perché alla fine ci sono solo dodici note, e se le suoni di continuo su e giù, il risultato alla fine cambia poco. Personalmente, quando ho fatto quel progetto, ho pensato che dovesse prevalere la parte scritta, con poca improvvisazione. Nell’album c’è una sonata in la minore di Carl Philipp Emanuel Bach (per oboe, WQ 132, ndr) che è meravigliosa ed è tecnicamente molto difficile, poi ho scelto alcuni standard americani (Stardust e Body and Soul) e solo quattro improvvisazioni; l’idea era quella di sfruttare al massimo la risposta acustica dell’ambiente per costruire il suono. A proposito di questo accadde una cosa divertente: mentre suonavo, all’esterno partì un’ambulanza a sirene spiegate e così iniziai a cambiare altezza del suono seguendo la sirena: si può ascoltare nell’album…

Mi sembra che le produzioni di album per sax solo stiano molto aumentando, ci hai fatto caso?
Credo sia soprattutto per una questione di soldi, costano di meno… Ma il consiglio è di pensare prima molto bene se e come farlo, perché bisogna essere consapevoli che è difficilissimo tenere vigile l’attenzione del pubblico per molto tempo quando si ha un solo strumento.

Sei sempre molto attento al pubblico. Una volta dicesti che la musica non riguarda i musicisti, ma le persone. Che intendevi dire esattamente?
Ne sono ancora convinto! Ti faccio un esempio. Se ascolti Scarlatti, Verdi o Puccini e poi ascolti Bach e poi ancora Richard Strauss e Haydn ti accorgerai che la musica italiana suona italiana, quella germanica suona germanica. Se poi ascolti una delle primissime opere di Wagner, L’olandese volante, scoprirai quanto fosse influenzato da Verdi, è piuttosto evidente. Quindi la struttura è Verdi, ma ciononostante non suona italiano, perché Wagner è tedesco. Se devi scrivere un libro sull’Italia è possibile, per esempio, che tu decida di partire dalla Costiera amalfitana e iniziare a raccontare le persone e il cibo, le loro caratteristiche. Ora, il suono del jazz è il suono che viene dalle comunità nere del Sud degli Stati Uniti, poi in tanti altri hanno utilizzato quel suono e lo hanno adattato alla loro lingua di origine; d’altronde, l’America è stata fortemente divisa dalle questioni razziali fino al XX secolo. Il risultato è che la musica bianca ha qualità che quella nera non ha e viceversa. Crescere a New Orleans mi ha messo in contatto con la musica di Dr. John, che è cresciuto circondato da neri, ecco perché quando parla il suo linguaggio suona nero. L’importante è la conoscenza del ritmo, lui è stato un musicista particolarmente sensibile e ricettivo, per cui quel riflusso culturale è evidente nella sua musica. Ci sono altri musicisti meno attenti e questo ovviamente arriva; ma se puoi interpretare una canzone e far sentire le persone felici quando suoni, quando ti ascoltano, oppure tristi, ciò avviene solo perché sei capace di creare qualcosa nel suono del tuo strumento o della tua band che scatena una risposta emotiva negli ascoltatori. Questa è la vera abilità sopraffina per distinguere la buona musica. Non è qualcosa che vai a scuola e impari o che entri nel negozio e compri, è qualcosa che capisci solo come musicista solista o parte di un gruppo. La musica funziona meglio quando hai la conoscenza completa di quello che stai cercando di fare. I musicisti classici devono fare i musicisti classici, quindi quando suono quel repertorio non faccio tricks o bending col sassofono, sto suonando la musica che ho scelto e che ascolto fin da quando ero ragazzino.

Nei tuoi dischi hai suonato per lo più repertorio di autori nati a fine Ottocento (Debussy, Fauré, Villa-Lobos, Satie, Rachmaninov e così via) i quali, chi più chi meno, hanno operato nel Novecento. C’è qualcosa che ti piace in particolare di quell’espressione contemporanea?
Sono passati tanti anni da quando ho registrato «Romances for Saxophone» (Columbia Masterworks): era il 1995. Quel progetto si concentrava sulla bellezza della melodia e credo che con lo strumento fossi tecnicamente pronto ad affrontare quel repertorio, che è fatto di cose piuttosto brevi. Avevo la capacità di suonare piccole cose carine, non potevo permettermi – se volevo avere un risultato di qualità – di suonare cose diverse o più veloci. Ma mi piace molto il suono classico, essere in un’orchestra e mi piace la sfida di trovare il modo di esprimere qualcosa di personale senza rapportarmi a ciò che faccio di solito: non posso cambiare le note. Non posso cambiare la tonalità o il tempo. Devo trovare il modo di uscire fuori con il mio carattere, senza avvalermi degli strumenti che nel jazz tipicamente ho; le note vanno suonate esattamente come sono scritte.

Quell’album e i successivi erano ancora registrati per una major. Già da un po’ hai fondato la tua Marsalis Music e hai la possibilità di produrre musicisti importanti, da Miguel Zenón a Joey Calderazzo: perché questa scelta?
È un fatto di libertà. Non avevo problemi a trovare grandi etichette, potevo consolidare quella strada o cercare di fare qualcosa di diverso, che mi rappresentasse di più; ma il discorso è semplice: finché avrò i soldi per farlo e le cose andranno bene lo farò, quando non basteranno i soldi, dovrò fermarmi e fare altro.

Come vanno le cose al Musicians’ Village, dove è stato fondato l’Ellis Marsalis Center for Music? Hai contribuito a crearlo, dopo il terribile Katrina che ha lasciato senza tetto migliaia di famiglie.
Le cose vanno bene. A oggi non ho molto a che fare con il prosieguo delle attività, diciamo che semplicemente do una mano quando posso. Sono state costruite e assegnate qualcosa come 850 case e sono molto felice per le persone che sono riuscite ad avere un tetto. Ho provato a fare la mia parte, ma adesso il successo della comunità è rimesso alla loro capacità di costruirsi in termini di vicinanza e solidarietà. Anche l’Ellis Marsalis Center va bene, ci ho registrato un disco e poi credo di averci suonato un paio di volte in tempi recenti…

In quel progetto era sottesa anche l’idea centrale dell’istruzione musicale. A oggi, lo hai detto tu stesso tempo fa, molti ragazzi sembrano solo intenzionati a imparare licks o suonare «nello stile di».
Il jazz non può certo essere insegnato sui libri. Puoi studiare il contrappunto, l’armonia classica, capire come scriveva Bach, Stravinsky o Prokof’ev, però poi devi sapere che la storia non si ripete e che non ci sarà un altro Bach; se il sistema dell’istruzione funzionasse, ognuno avrebbe la possibilità di diventare «grande», di trovare la propria individualità espressiva. Io, quando insegno, faccio così: ho sempre pensato che il «di più» per essere buoni musicisti fosse ascoltare musica, sentire come il suono si sviluppa, prima ancora di rapportarsi con l’armonia, le regole, la tecnica. Ovviamente quelle sono cose che devi sapere, ma dopo che suoni velocissimo un lick devi saperlo fraseggiare correttamente, altrimenti non serve a niente! Quindi bisogna imparare da chi sa fare meglio di te. Ai ragazzi do da ascoltare dischi, su questo ho un metodo molto diverso da Joey Calderazzo che insegna nel mio stesso Istituto. Lui segue l’armonia, i programmi… Io metto su un po’ musica e dico: «Cosa stai ascoltando? Cosa ti arriva? Che pensi stia accadendo qui?», insomma non sono un insegnante tradizionale. All’inizio non riescono ad ascoltare bene, perché non gli è mai stato chiesto di farlo, ma gradualmente, quelli che hanno voglia di seguirmi, diventano molto bravi nel «conversare» … iniziano a capire. Ti faccio un esempio: Lester Young ha registrato un brano che si chiama Back to the Land. Ora, sul sassofono per suonare un Re servono sei dita, per suonare il Re alto devi utilizzare la chiave alta… i musicisti negli anni 30 suonavano la chiave alta con la active key (il portamento) e quindi potevi fare un buon bending; diversamente, con sei dita non puoi avere quell’effetto, non c’è niente da fare. È estremamente difficile fare il bending dal Do diesis al Re se usi solo la alta (chiave palmare). Be’, dico ai miei studenti di studiare quell’assolo; loro ascoltano le note, non il suono. Quando ero ragazzino, mi chiedevo come diamine raggiungesse Lester Young quell’effetto! Quando tornano e suonano quel Re con sei dita dico che no, stanno sbagliando; mi guardano perplessi perché la nota è giusta, in effetti. «Ascolta di nuovo e poi ne riparliamo»; alcune volte passano quattro o sei settimane, quando sono ormai più che frustrati gli do la soluzione. Nel frattempo, però, hanno passato un sacco di tempo ad ascoltare e riascoltare, non se ne sono accorti ma hanno capito il suono: da lì possiamo iniziare a conversare. Questa è roba che puoi tirare fuori solo dai dischi, non ci sono diagrammi con diteggiature su Internet che ti spieghino come arrivare a quella nota alta dalla bassa.

Che rapporto hai con la tecnologia musicale, credi che possa cambiare la creatività e l’espressività?
Certamente ha la forza di cambiare l’espressione musicale. Attualmente, sto lavorando a una colonna sonora e riascoltavo il backbeat registrato; quanto il rullante fosse nel beat: ogni tanto è avanti e altre volte è dietro, questo va bene. La grande musica è coerentemente incoerente! Che senso ha un suono che è identico sempre a sé stesso nello stesso posto, nello stesso tempo… Se prendi un sample e lo accosti a un batterista vero che fa la stessa cosa ottieni un effetto buffo. È come per la scienza e gli esperimenti, lo stesso tipo di metodo non può dare un risultato identico al mutare dello spazio e del tempo. Quindi non puoi fare un paragone: quando i musicisti suonano insieme stanno eseguendo piccole, impercettibili incoerenze. Di conseguenza, se al posto del batterista faccio un brano con una drum machine che quantizza il tempo e mette il rullante sempre allo stesso posto, questo alla lunga cambia il modo in cui ascolti o pensi alla musica. Quando avevo ventun anni mi dicevano: «Abbiamo apparecchi che suonano esattamente come una batteria», ma trent’anni dopo capita spesso il contrario: senti un batterista davvero preciso e pensi: «Suona proprio come una macchina!». Quindi, quando lavoro a un nuovo progetto, mi tocca passare un mucchio di tempo a spostare ogni singola nota un po’ avanti o un po’ indietro… Ma nulla è mai esattamente perfetto.

In fondo l’evoluzione del jazz è stata data anche da errori.
Mica solo del jazz, di tutta la musica! Perché è un inseguimento continuo tra errore e riparazione, come nei dischi dal vivo… Ma molti jazzisti oggi riprendono i loro album live e sistemano tutti i loro piccoli errori sul tempo: ecco, penso che questo sia davvero ridicolo!

Quando si parla di evoluzione della musica, si parla anche di evoluzione del contesto sociale, economico, etico. Questo fa sì che la musica sia un fatto politico?
La musica non è politica, può diventare tale ma bisogna fare attenzione. Il musicista può essere influenzato dalla politica ma la musica no, alla musica non gliene frega niente. La faccenda riguarda semmai i testi, ma a quel punto quando ascolto persone che dicono: «Questo è un brano politico!», io rispondo: «Ah sì? Allora togli le parole, canta la melodia e basta, e poi dimmi se ti sembra ancora politico?». La Terza Sinfonia di Beethoven è politica perché lui la dedicò a Napoleone, ma quando Napoleone si incoronò imperatore Beethoven sì incazzò come una iena e tolse la dedica! L’appellativo «Eroica» le è rimasto attaccato, però oggi resta solo un grandissimo pezzo di musica.

E se prendo Haitian Fight Song di Mingus?
È solo un titolo! Immagina di chiamarla, che so, Good Times Blues: funziona benissimo lo stesso e ha swing! Sono soltanto nomi. Fables of Faubus è politica, ma ancora una volta per le parole; quando la suoni senza, è solo una bella composizione. E in pochi si ricordano oggi chi fosse Faubus… Quindi per me la musica non ha nulla a che fare con la politica. Le circostanze influenzano gli autori, ma poi vengono superate dalla creazione.

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