Bergamo Jazz Festival 2025 “Sounds of Joy” – Parte 2

In questa seconda sezione analizziamo la restante parte del festival

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Sabato 22 marzo – Day 3

Siamo al giro di boa del festival e per il momento il bilancio è più che positivo ma abbiamo ancora molta curiosità rispetto ai concerti che ancora ci attendono in questi ultimi due giorni della rassegna.

La giornata si è aperta alle 11 di mattina presso l’Accademia Carrara, una delle pinacoteche più incredibili di tutto il nord Italia e luogo ideale per l’esibizione di Sara Calvanelli e Virginia Sutera con il loro “Ejadira”. Si tratta di un duo fisarmonica-violino molto fuori dagli schemi, ai confini del jazz fra musica barocca e musica gitana. Il suono della Calvanelli è molto suggestivo ed ha un approccio sicuramente non convenzionale ad uno strumento molto poco utilizzato in ambito jazzistico. Ricordo molto bene un concerto di Kimmo Pohjonen, soprannominato “il Jimi Hendrix della fisarmonica” e sebbene le atmosfere questa volta fossero molto differenti, in entrambi i casi la fisarmonica si è dimostrata uno strumento versatile, dal suono caldo e adattabile a diversi contesti musicali nei quale viene utilizzato. Anche Virginia Sutera ha dato prova di ottime capacità improvvisative e ha arricchito con il suo tocco un bellissimo progetto paritario dove la diversità delle atmosfere e l’intimità dei suoni la fan da padrona.

Bergamo Jazz Festival Sutera Calvanelli
Virginia Sutera & Sara Calvanelli

Nel pomeriggio siamo tornati all’Auditorium di Piazza della Libertà per assistere ad un evento molto sentito e voluto dalla direzione artistica: il “Dialect Quintet” di Alexander Hawkins, una produzione originale varata dalla piattaforma WeStart curata da Enrico Bettinello in collaborazione con Novara Jazz. Si trattava di una vera e propria all-stars della scena europea contemporanea. Alexander Hawkins lo conosciamo da tempo e ci fa piacere sapere dai nostri colleghi d’oltremanica che Alex è molto grato al lavoro e all’attenzione che la nostra rivista gli ha dedicato durante gli ultimi anni e noi continuiamo a stimarlo molto sia come musicista che come persona. La militanza nei gruppi di Louis Moholo e il suo atteggiamento sempre umile e disponibile nei confronti di tutti hanno contribuito ad accrescere la sua aura di musicista e ormai da più di un decennio è una figura centrale del jazz britannico e non solo, come testimoniato da questo ultimo progetto. I compagni di avventura erano Camila Nebbia, una giovane sassofonista argentina trapiantata a Berlino e nome nuovo nella scena del jazz più avanzato, che non ha nulla da invidiare alla più celebrata rising star Zoh Amba. Giacomo Zanus, un chitarrista che personalmente non conoscevo ma che ha subito lasciato un’ottima impressione (uno stile simile a Diodati). Ferdinando Romano, contrabbassista e leader ormai affermato e più volte giustamente piazzato nelle posizioni di rilievo nel nostro referendum del Top Jazz. E per finire Francesca Remigi, bravissima batterista e orgoglio bergamasco in Italia e nel mondo, che dopo aver studiato quattro anni a Berklee, continua a dare lustro al jazz di casa nostra con progetti sempre meritevoli di attenzione. Ed anche questo è stato uno di quelli: oltre ad un trionfo artistico si è trattata di un’ottima occasione per avere nello stesso gruppo cinque nomi che potrebbero essere benissimo leader di cinque diversi gruppi: un incontro fortunato che speriamo possa avere un effetto volano con sempre più frequenti presenze future nei cartelloni dei festival principali.

Bergamo Jazz Festival Alexander Hawkins
Alexander Hawkins
Bergamo Jazz Festival
Camila Nebbia
Bergamo Jazz Festival
Alexander Hawkins ‘Dialect Quintet’

Non facciamo in tempo a salutare i ragazzi a fine concerto che subito veniamo catapultati su un pulmino di critici diretto alla volta di Daste per assistere ad un evento letteralmente imperdibile e inspiegabilmente programmato in una zona così periferica della città: il trio di Emanuele Maniscalco con Pietro Tonolo come ospite speciale. Il concerto si è aperto con un brano tratto da un disco che ho sempre apprezzato tantissimo: Change of Season (Music of Herbie Nichols) nel quale Mengelberg, Bennink, Lacy, Lewis e Gorter indagavano il formidabile repertorio Nicholsiano. Successivamente si passa ad un tributo ad Alice Coltrane, icona dello spiritual jazz, a Mingus con Reincanation of a Lovebird e all’esecuzione di alcuni originals, a coronamento di un concerto godibilissimo e davvero meritevole.

Sono le 20:00, l’intervista ad Azar Lawrence è saltata (ma proveremo ad intercettarlo durante il prossimo imminente tour con i McCoy Legends), abbiamo mezz’ora. Il tempo di volare in hotel per recuperare il biglietto dello spettacolo del Donizetti ed eccoci qua alle 20:30 pronti ad assistere ad un double bill davvero speciale per quello che i protagonisti di questi due show rappresentano nella lunga e multiforme Storia del jazz. La serata veniva aperta da Enrico Rava e i suoi Fearless Five, un gruppo nel quale ai più habituè delle formazioni raviane Francesco Diodati e Francesco Ponticelli sono stati innestati i giovanissimi Matteo Paggi e Evita Polidoro, creando un mix che rappresentava il gotha di tre generazioni diverse di jazzisti italiani. Come il divino Miles, Rava non smette mai di guardare al futuro, ogni esibizione fa parte di una ricerca continua che dura dagli anni 60’ e non accenna ad arrestarsi. Questo organico rinnovato ne è una prova tangibile: gli ultimi arrivati portano nuova linfa e un pathos che pochi ensemble possono vantare. L’intento è quello di guardare ancora una volta avanti, di non crogiolarsi in un illustre passato ma cercare nuove vie e ispirare nuove generazioni di musicisti ed ascoltatori. La sensazione che scaturisce dall’ascolto di un concerto di Rava è quella di “essere come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’acume della vista o l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti”, per usare una felice espressione coniata da Bernardo di Chartres in epoca medievale. Dal canto loro, i quattro compagni di viaggio rispondono mettendo a disposizione della musica le proprie migliori qualità individuali, sempre rispettosi degli spazi altrui e disposti a seguire la direzione indicata da Rava. In un passaggio della prima parte Matteo Paggi, disimpegnato anche all’elettronica, manda un rumore dalla console che Rava non gradisce, basta osservare l’espressione con la quale fulmina la sua giovane recluta. Sussurra due parole. Matteo lascia l’elettronica e torna al trombone e la musica torna a decollare. Ad aggiungere ulteriore pepe entra in scena per l’ennesima volta Joe Lovano, col quale Rava aveva inciso Roma per ECM nel 2019, e si rende protagonista prima di un delizioso duetto con Enrico per poi interagire con il resto della band per buona parte della fase centrale del concerto e confessando il giorno successivo che ci sarebbe la volontà di fare ancora qualcosa insieme, chissà come, chissà quando. Una menzione particolare va alla prova mostruosa di Francesco Diodati alla chitarra, per suoni e costruzione della frase veramente a livelli stratosferici, che in alcuni tratti mi hanno vagamente riportato alla memoria il McLaughlin di Tribute to Jack Johnson.

Bergamo Jazz Festival
Francesco Diodati
Bergamo Jazz Festival
Enrico Rava Fearless Five

Difficile suonare dopo un concerto così intenso e poetico, ma questo onere toccava ai sette samurai dell’hard bop anni 60’, i Cookers, un manipolo di musicisti iconici radunato sapientemente dal trombettista David Weiss con alcuni cambi di guardia nell’ormai ultradecennale storia di questa band e preposto alla continuazione di una tradizione musicale dei quali tutti i membri sono autentici e fedeli custodi. Il programma musicale si è basato principalmente sulle composizioni di George Cables e di Cecil McBee: Peacemaker di quest’ultimo è un’autentica chicca. A farla da padrone sul set è come sempre Billy Hart, un gigante del suo strumento e colonna dorsale di centinaia di incisioni da oltre sessant’anni. Ai suoi studenti insegna: “Drum is the conductor!” e non perde occasione per dimostrarlo nella prassi quando tocca a lui sedersi alla batteria. In generale si è trattato più di una serie di assoli individuali supportati da una sezione ritmica micidiale, purtroppo sono mancati quegli unisoni che tanto caratterizzano l’estetica degli ensemble hard-bop di medie dimensioni. Il solista che ho apprezzato di più personalmente è stato proprio Azar Lawrence, protagonista il 30 marzo del 1974 di un concerto memorabile, poco prima del ritiro di Miles, che vedrà inizialmente la luce solo in Giappone come Dark Magus. Non si vedeva in Europa e in Italia da tantissimo tempo, visto che risiede stabilmente nella West Cost dove continua la propria attività professionale e a Bergamo si è distinto per un suono personalissimo, ruvido ma levigato, ma soprattutto diverso da qualsiasi suo collega del presente e del passato. Era la quarta volta che assistevo ad un concerto di questa band e complessivamente quello di Bergamo è stato un concerto un po’ fiacco, anche se ci sono attenuanti non di poco conto (anagrafiche in primis ma anche legate ad una tabella di marcia serratissima per questo breve tour di tre date fra UK e Italia prima di tornare di corsa a casa negli States). Se fosse stata la prima volta che mi fosse capitato di vederli, avrei sicuramente conservato il ricordo di una serata dal grande impatto emozionale: non capita più oggigiorno di poter vedere all’azione gli esecutori originali di un’epoca irripetibile e, al di là degli assoli, le composizioni originali di questi artisti sanno affascinare anche a distanza di anni. Perciò ne sarebbe comunque valsa la pena.

Bergamo Jazz Festival
The Cookers
Bergamo Jazz Festival
George Cables
Bergamo Jazz Festival
Cecil McBee
Bergamo Jazz Festival
Eddie Henderson e Donald Harrison

Domenica 23 marzo – Day 4

Il festival giunge alla fine ma anche l’ultima giornata sembra promettente e intensa. Si parte alle 11:00 tornando al Teatro Sant’Andrea per uno di quei concerti del cuore, quelli per i quali saresti disposto anche a prendere un aereo per esserci. Avevo conosciuto Barry Guy e il suo vocabolario in un’indimenticabile esibizione in solo per Novara Jazz nel 2016 e da allora non lo ho più perso di vista, cercando quando possibile di procurarmi i suoi dischi. Si tratta di uno dei miracoli del jazz europeo, uno di quei musicisti che si sono emancipati dall’idioma jazzistico afroamericano per dar vita ad un’esperienza musicale indipendente ed originale, segnando una nuova via per la musica che amiamo. Barry Guy penso sia il contrabbassista tecnicamente più completo che abbia visto dal vivo in vita mia. Con lo strumento (un contrabbasso a cinque corde leggermente più compatto rispetto ai contrabbassi tradizionali) può fare letteralmente ciò che vuole ricorrendo a diverse prassi esecutive, dal pizzicato all’archetto, munendosi di bacchette e pennelli per ampliare ulteriormente l’affresco. In questa occasione non si esibiva in duo con la violinista classica (specializzata in musica antica) e compagna di vita Maya Homburger, bensì con Jordina Millà, una nuova protagonista della scena della musica creativa europea. Insieme hanno inciso live in Munich, uscito a luglio per ECM e anche per la data bergamasca l’intesa artistica fra i due ha funzionato benissimo. Jordina porta la musica più sul versante del classico contemporaneo, mentre Barry si mette in mostra nei momenti di improvvisazione estemporanea, riuscendo sempre a far cantare il suo strumento in qualsiasi situazione: un altro momento memorabile del festival.

Barry Guy
Barry Guy in compagnia di “Des Enfant Gâtés”, una colonna sonora che lo vedeva all’azione con Surman e Johnny Griffin fra gli altri. Ci ha confessato di esservi particolarmente legato per aver avuto l’opportunità di suonare con François Rabbath, vero e proprio mentore

Ci concediamo un’ultima veloce pausa pranzo con i colleghi inglesi, francesi e tedeschi prima di recarci presso la Sala Piatti per il recital di Piano Duo di Nik Bärtsch e Tania Giannouli, entrambi protagonisti sulle nostre pagine nel recente passato, per un set all’insegna dell’ascolto reciproco e scambio di ruoli. Per la maggior parte dei brani è toccato a Bärtsch improvvisare sul tappeto sonoro sapientemente tessuto dalla Giannouli. Atmosfere eteree e cameristiche hanno accompagnato gli ascoltatori per tutto il concerto e anche quando Bärtsch ha accompagnato la Giannouli si è creata una bella chimica musicale, nobilitata da una location e un’acustica davvero ottime.

Alle 17:00 era il turno di Stick Men, il gruppo prog composto da Tony Levin, Pat Mastelotto e Markus Reuter. Chi scrive non si è mai interfacciato alla musica progressive, per cui mi viene difficile esprimere un giudizio oggettivo. Un volume assordante ha travolto il Teatro Sociale per quasi un’ora e mezza, con una scaletta che spaziava dai King Crimson a brani originali dei membri del gruppo. I sudditi del Re Cremisi, accorsi da tutto il nord Italia, hanno comunque gradito l’esibizione dei propri beniamini, che per l’occasione avrebbero espresso, almeno a parole, l’intenzione di essere “più jazz e meno progressive del solito”.

Bergamo Jazz Festival
Stick Men

Alle 20:30 il gran finale al Donizetti: un doppio set che vedeva avvicendarsi sul palco gli Hurry Red Telephone di Marc Ribot e il quintetto di Dianne Reeves. Grande era l’attesa per il concerto di Marc Ribot, uno dei maggiori esponenti della No wave e ormai autentico mostro sacro del jazz contemporaneo. Il gruppo, completato dalla chitarra di Ava Mendoza, Sebastian Steinberg al contrabbasso e Chad Taylor alla batteria, ha inondato il teatro di una pletora di suoni noise e punk, imbruttendo non poco parte del pubblico borghese accorso a teatro alla ricerca di un momento mondano. L’onnipresente Lovano non si lascia spaventare da questo tappeto sonoro ed entra in scena per il consueto cameo, addentrandosi in un territorio ai limiti delle proprie frequentazioni artistiche ma uscendone indenne anche in questa occasione. È un set brevissimo di circa 50 minuti ma Ribot ha comunque il tempo per tornare sul palco per il bis finale, che viene preceduto dal seguente discorso:

Grazie! So che siete venuti qua per ascoltare musica e non per sentire discorsi politici ma sono stati due mesi difficili per noi, perché, lasciatemi dire la verità in modo carino: un dittatore fascista sta prendendo il controllo del nostro Paese. Cinque o sei anni fa ho registrato con Tom Waits Bella Ciao e lo abbiamo fatto perché pensavamo che gli americani avessero qualcosa da imparare su quello che è stata la Resistenza. Per questo abbiamo tradotto in inglese le parole di Bella Ciao. Non so che dire ora: abbiamo fatto un casino noi e l’America. Dipende da voi. Fateci sapere come possiamo aiutare”

E così parte una versione totalmente stravolta di Bella Ciao, dove arrangiamento e musica hanno il gusto di Ribot mentre il testo, seppur tradotto, è rimasto più simile alla versione originale. Si è trattato di un concerto stupendo ma sicuramente divisivo, sia artisticamente che politicamente, ma sono scosse che nobilitano l’Arte e colpiscono la coscienza di ogni singolo individuo, indagando la realtà.

Bergamo Jazz Festival
Marc Ribot
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Ava Mendoza
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Sebastian Steinberg
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Chad Taylor

Chiudere definitivamente questa riuscitissima rassegna è toccato a Dianne Reeves, un vero e proprio animale da palcoscenico. Supportata da un gruppo stellare composto da Romero Lubambo alla chitarra, John Beasley alle tastiere, Reuben Rogers al contrabbasso e Terreon Gully alla batteria, la cantante sessantanovenne si è esibita in uno show molto più consolatorio e d’intrattenimento rispetto al set precedente. Rientrati su terreni più mainstream, non sono mancati i momenti di grande classe da parte della Reeves e dei suoi sodali: in particolare i duetti con Reuben Rogers e Joe Lovano hanno regalato momenti veramente godibili e hanno confermato la statura artistica di questa meravigliosa cantante.

Bergamo Jazz Festival
Dianne Reeves e Joe Lovano

È stata un’edizione breve ma molto intensa, con molti spunti interessanti e importanti segnali di vita da parte del mondo del jazz. Ci perdoneranno Lorenzo Simoni e Iacopo Teolis e gli altri gruppi che non siamo riusciti ad andare ad ascoltare, appuntamento solo rinviato. La stagione concertistica bergamasca ripartirà con tre eventi estivi al Lazzaretto, mentre per la nuova edizione del Bergamo Jazz Festival bisognerà attendere il 2026.

Foto di Elena Carminati

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