Ogni anno allo scoccare della primavera riparte la stagione dei grandi festival italiani e il primo appuntamento, nonché uno dei più importanti, è rappresentato dal Bergamo Jazz Festival, una rassegna storica che nel corso degli anni ha saputo dare lustro alla città invitando i migliori interpreti di questa musica, che in più occasioni han lasciato il segno con concerti memorabili, rimasti nell’immaginario collettivo di molti.
In continuità con il lavoro svolto lo scorso anno, la Fondazione Teatro Donizetti ha affidato nuovamente la direzione artistica all’iconico Joe Lovano, che in collaborazione con Roberto Valentino e il suo team hanno allestito una programmazione molto variegata e di grande spessore artistico. Oggigiorno molti festival tendono a proporre uno specifico sottogenere musicale, di solito in linea con i gusti del direttore artistico, mentre a Bergamo la sensazione era quella che palati musicali diversissimi fra loro potessero essere sfamati contemporaneamente nella stessa rassegna. È un segnale di grande apertura mentale e sicuramente nel jazz, così come in molti altri ambiti, è meglio includere che escludere.
Ripercorriamo ora le tappe fondamentali del festival giorno per giorno.
Giovedì 20 marzo – Day 1
È stato il pianista cubano Aruan Ortiz ad essere scelto per tagliare il nastro del festival con il suo “Cub(an)ism”, un recital per piano solo eseguito nell’intimità del Teatro Sant’Andrea. Il titolo del concerto (e dell’album uscito per Intakt) è una precisa dichiarazione di intenti, emersa con forza durante l’esibizione. Prendendo ispirazione da quanto espresso dall’arte cubista ormai più di un secolo fa, Ortiz utilizza gli stessi principi estetici e formali traslandoli nel proprio lessico musicale. Così si procede per circa un’ora in un viaggio fatto di scomposizioni, decostruzioni, sottrazioni: un contesto musicale nel quale ogni singola nota ha un peso specifico superiore alla media e che permette all’ascoltatore di entrare con la lente d’ingrandimento negli elementi essenziali di brani di Ellington, Monk e dello stesso Ortiz, in una maniera del tutto originale e molto personale. Un concerto non facile, assolutamente non per tutti, ma una delle perle nascoste di questo festival.

Per i concerti serali ci siamo spostati al Teatro Sociale, un gioiello architettonico situato in mezzo alla Città Alta, di grande impatto emotivo sia per il pubblico sia per i musicisti coinvolti. In programma c’erano le esibizioni del trio di Antonio Faraò e del gruppo della cantante Lizz Wright. Ha aperto la serata Faraò con una ritmica stellare composta da Ameen Saleem e Jeff Ballard, una formazione ideale per esaltare le indubbie qualità artistiche del leader. Troppo spesso colpevolmente sottovalutato dalla critica, il pianista romano ma milanese d’adozione ha regalato al pubblico un set di pregevole fattura, confermando quella dimensione artistica che gli permette da diversi decenni di collaborare con i migliori assi d’oltreoceano, rappresentando l’Italia ai vertici di un certo modo di intendere il jazz. A suggellare una piacevolissima performance arriva il primo cameo del direttore artistico, amico e collaboratore di Faraò da diverso tempo (li ricordiamo assieme nell’American Quartet con Ira Coleman e Billy Hart, non proprio nomi da poco), che col suo soprano aggiunge ulteriori colori e sfumature al quadro complessivo.

Successivamente è salita sul palco la cantante afroamericana Lizz Wright, una novità assoluta per chi scrive. Dotata di un innegabile presenza scenica sul palco, la performance della Wright è gravitata in un universo sonoro che spaziava dal jazz al soul, fra blues e folk, senza che nessuna di queste influenze prendesse il sopravvento sulle altre e pertanto regalando uno spettacolo molto equilibrato e fruibile da una vasta platea di ascoltatori con storie e gusti musicali anche diversi fra loro. La voce sensuale e autentica della Wright ha messo d’accordo praticamente tutti. Chi aveva già assistito ad altre esibizioni di questo assoluto talento ha rimarcato che la scaletta dei brani e l’indirizzo musicale non si siano evoluti molto rispetto alle precedenti uscite. È un dubbio lecito ma per noi che non la conoscevamo è stata una piacevolissima sorpresa, da tenere d’occhio per il futuro.

Venerdì 21 marzo – Day 2
Per venerdì 21 il primo appuntamento in agenda era il concerto de “La Via del Ferro” – “The Iron Way”, un gruppo rinominato in questo modo per celebrare le connessioni geografiche ed artistiche di quattro dei migliori musicisti della nuova scena europea. La Via del Ferro era un’antica rotta commerciale molto battuta durante l’Ottocento ai tempi del Gran Ducato di Toscana, quando nacque l’industria pesante predisposta all’estrazione del ferro dall’Elba e alla successiva trasformazione in ghisa che avveniva in quel di Follonica. Il bassista e compositore Michelangelo Scandroglio è originario di quelle parti e, come duecento anni prima, ha intrapreso la stessa rotta, che lo ha portato a risiedere e lavorare fra Parigi e Londra, i principali mercati di sbocco dell’antica Via del Ferro. Ed è proprio durante questo viaggio che Scandroglio ha incontrato i bravissimi partner con i quali ha condiviso il palco a Bergamo: Alex Hitchcock, trentacinquenne originario di Londra ma ormai abitualmente di stanza a New York si è eroicamente presentato al concerto pomeridiano dopo aver suonato la sera prima a Londra, trascorrendo la notte all’aeroporto di Stansted con uno spirito da autentico road warrior. Come suono e attitudine ci ha ricordato molto il primo Andy Sheppard e gli auguriamo di continuare il buon lavoro svolto fino ad ora, che gli ha permesso di emergere fra i migliori talenti del jazz britannico e non solo. A completare la formazione Maria Chiara Argirò, tastierista romana trasferitasi a Londra da qualche tempo e il batterista Myele Manzanza, originario della Nuova Zelanda ma anch’egli residente a Londra. Il merito principale di questo concerto è stato quello di aver prodotto un repertorio originale pensato appositamente per le caratteristiche degli altri sodali, coi quali sono evidenti sia i legami artistici che affettivi. Dopo un’ora scarsa di brani originali pensati appositamente per questa occasione, i musicisti sono tornati sul palco per il bis finale ed essendo esaurite le composizioni originali hanno dato vita ad un brano improvvisato che ha arricchito ulteriormente la prova di questi protagonisti della nuova scena. Esperimento riuscito!

Finita la musica all’Auditorium di Piazza della Libertà, ci spostiamo all’hotel dove alloggiano i musicisti e riusciamo ad ottenere una breve ma intensa intervista con Myra Melford, che saremo lieti di proporvi in uno dei prossimi numeri della rivista.

La prima grande serata di musica del Donizetti è stata inaugurata proprio dall’ensemble co-diretto dalla Melford, il Lux Quartet, comprendente Allison Miller alla batteria, Dayna Stephens al sax tenore e Nick Dunston al contrabbasso. Come raccontatoci dalla stessa Melford, il gruppo nacque alcuni anni fa come trio con Scott Colley al posto di Dunston. Successivamente si è ampliata la paletta musicale aggiungendo la personalità pacata e il suono delicato di Dayna Stephens, elemento super funzionale nell’economia generale della band. Le leader indiscusse dell’ensemble sono Myra e Allison, disposte una di fronte all’altra agli estremi del palco, pronte a dare e rispondere reciprocamente agli input lanciati dall’altra. La Melford è sulla scena da 35 anni e ha sempre sfornato lavori di assoluto valore ma è ancora troppo poco conosciuta rispetto alle qualità che esprime nella sua musica. Una musicista imprevedibile, con una solidissima preparazione classica (poi rinnegata per amore del jazz) e una capacità di ascolto fuori dal comune. Anche la tecnica stessa è a livelli altissimi: penso che i suoi mentori Jaki Byard, Don Pullen e Andrew Hill sarebbero tutti molto soddisfatti e fieri nel vedere che musicista è diventata quella ragazza che esordiva come leader solo nel 1990 all’età di 33 anni con Jump, in compagnia di Lindsey Horner e Reggie Nicholson.
Oltre alla Melford anche Allison Miller ha dato una prova di grande spessore ed autorevolezza alla batteria, sciorinando un vocabolario denso e variegato, mai di routine, incalzante ed imprevedibile allo stesso tempo. Se questo è il jazz femminile possiamo dire di essere davvero in ottime mani e fortunatamente sono in cantiere nuovi progetti per quanto riguarda il quintetto rosa completato da Mary Halvorson, Tomeka Reid, Ingrid Laubrock e Lesley Mok. Sebbene non si sia trattato per nulla di un concerto di routine, il pubblico ha restituito l’energia del Lux Quartet con scroscianti applausi di approvazione, a sugellare quella che a parere di chi scrive è stata complessivamente la migliore esibizione di tutto il festival.
Successivamente sono saliti sul palco del Donizetti i discepoli di Wayne Shorter: Danilo Perez, John Patitucci e Brian Blade, celebratissimi membri dell’ultimo quartetto del maestro di Newark. A completare la formazione e a raccogliere l’ingrato compito di non fare rimpiangere Shorter è toccato a Ravi Coltrane, ospite speciale di un gruppo che si è esibito già molte volte in trio (un paio di anni fa furono in tournée in Italia con Adam Cruz al posto di Brian Blade) oltre agli innumerevoli concerti in compagnia dell’indimenticato maestro e mentore. Lo stesso Patitucci ricorda l’esperienza assieme a Shorter come qualcosa di soprannaturale e ultraterreno, uno stato difficile da spiegare a parole. Il maestro non c’è più ma quelli che una volta erano i suoi ragazzi e che oggi sono i pezzi grossi della scena mondiale, mantengono vivo il suo spirito affrontandone il repertorio con la classe e la raffinatezza che li ha portati alla luce della ribalta. Per l’ultimo brano in scaletta sale sul palco anche Joe Lovano per un finale in quintetto da fuochi d’artificio dove le voci dei due sax si incrociano divinamente, sorretti da una ritmica impeccabile: altro grande momento del festival.

Dopo questi intensi incontri musicali ci siamo recati al NXT Bergamo, una struttura allestita in Piazzale degli Alpini, sede di alcuni concerti della rassegna di giovani talenti allestita da Tino Tracanna ma anche luogo d’incontro per le jam post festival. Con molto piacere abbiamo potuto assistere all’esibizione di Matteo Paggi, che sarebbe stato impegnato il giorno successivo con i Fearless Five di Enrico Rava. Impostosi alla velocità della luce grazie ad indubbie qualità artistiche, risulta essere anche un personaggio molto positivo e gioviale. Uno così non poteva mancare in un festival intitolato “Sounds of Joy”. In lui riponiamo le migliori aspettative per il jazz italiano del presente e del futuro e ci auguriamo che possa continuare la strada intrapresa con lo spirito che lo ha contraddistinto in questi primi mesi/anni di notorietà.

Foto di Elena Carminati