Arthur Prysock: Il crooner dalle profonde ombre blues

Quella di Arthur Prysock, nato esattamente cent’anni fa, è stata una delle voci più calde e seducenti di un quarantennio di musica nera, e si è mossa con eleganza e profondità tra jazz, blues, r&b, country e addirittura tracce di disco music, senza mai perdere la sua poderosa forza magnetica sul pubblico afro-americano più maturo e sofisticato.

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A lungo, nelle sue varie epoche e incarnazioni, la casa di Jimmy Rushing e di Joe Williams (e, con forse minor clamore ma altrettanto significativamente, di Lady Day e di Helen Humes), l’orchestra di Count Basie, tra i tardi anni Cinquanta e attraverso i Sessanta e i primi Settanta, ha ospitato in album di talora grande risonanza le voci più prestigiose del jazz e intorno al jazz: Bennett e Sinatra, Sarah e Ella, Billy Eckstine e Sammy Davis Jr., i Mills Brothers e (tornando alla antica, rushinghiana Kansas City) Big Joe Turner. E naturalmente Arthur Prysock, una delle personalità vocali per certi aspetti più affini alla poetica basiana, in un eccellente Verve dal titolo disadorno – «Arthur Prysock/Count Basie» – che ebbe un modesto ma costante impatto commerciale tra l’inverno e la primavera del 1966. Prysock era il romantico, virile e pensoso balladeur nero per eccellenza. C’era in lui un marcato richiamo a Mr. B («Billy Eckstine era il mio idolo,» confessò nel 1987 a Benjamin Franklin V per il volume di interviste Jazz & Blues Musicians of South Carolina) oltre a una spessa venatura blues che lo avvicinava a Al Hibbler (ma spoglia dell’ironica bizzarria di «Hib»): elementi che si univano a una calda e maschia sensualità già espressa nelle prove giovanili su Decca con l’orchestra di Buddy Johnson (tra cui il fortunato esordio, They All Say I’m the Biggest Fool, che lo mostrava ventenne dalla tavolozza già sorprendentemente matura, di una vigorosa ombrosità appena schiarita nel semi-falsetto finale, quasi un omaggio a Pha Terrell e Bill Kenny: e quel mirabile, epocale I Wonder Where Our Love Has Gone del 1947, poi ereditato in area soul da un altro grande baritono, Lou Rawls, e da una rimarchevole alunna di Basie, Irene Reid), a una pronuncia puntuale e persuasiva, e a un tornito e accorato eclettismo melodico, di fonte – appunto – eckstiniana, esibito attraverso i decenni in album Decca, Old Town, Verve, King e Milestone, prevalentemente indirizzati a un pubblico afro-americano maturo e sofisticato.

Prezioso per il naturale bilanciamento tra le ricche sezioni orchestrali di Basie (dinamicamente arrangiate da Dick Hyman, Billy Byers, Frank Foster) e l’ampio e profondo baritono di Prysock, dalla grana densa e calda, dai margini appena velati e dal largo vibrato, quel classico album registrato nel dicembre del 1965 vedeva il cantante muoversi con maestoso e a suo modo swingante relax attraverso un solido repertorio di standard – da Come Rain or Come Shine a I Could Write a Book, delicatamente introdotto dal piano del leader e scandito con sicuro e gentile swing dalla chitarra di Freddie Green – e di bellissime ballate bluesy come Ain’t No Use, Don’t Go to Strangers, Gone Again, enunciate con fine e incantevole alternanza di distacco blasé, malinconica rassegnazione, dignitosa preghiera. Con la sua bruna, cupa luminosità, e una tensione emotiva tangibile e che agisce a lungo sottopelle, lo strumento di Arthur Prysock faceva riverberare le immagini di solitudine e abbandono che accompagnano la limpida e stagionata melodia di What Will I Tell My Heart («…un telefono che ha dimenticato come suonare…»: era appartenuta, nella Swing Era, a Crosby e a Pha Terrell) e riscattava i cliché che compongono la metafora di vuoto e follia di I’m Lost, aiutato dal fraseggio danzante e stridente del muscoloso sax tenore di Eddie «Lockjaw» Davis, principale solista dell’album, esemplare anche quando emerge dai contrasti di dinamica (tenuti sotto controllo dal Conte all’organo) dell’ansiosa supplica di Come Home.

E a dispetto delle sue pesanti proporzioni trovava la grazia ritmica – forse marginalmente ma certo coerentemente jazzistica – per integrarsi nell’agile e policromo arrangiamento concepito da Hyman per I’m Gonna Sit Right Down and Write Myself A Letter, l’antico hit di Fats Waller e delle Boswell Sisters: e per attraversare il terreno jazzistico altrettanto battuto ma sempre stimolante di un Sunday a tempo brillante e dell’ellingtoniano-hibbleriano Do Nothin’ Till You Hear From Me – due outtakes recuperate nella versione cd dell’album – rivelando un gusto sereno del divertimento musicale, accentuato ancora da Lockjaw che gli danza e ruggisce accanto, un gusto che filtra come un lieve sorriso dalla sua sobria e scura maschera vocale.

Nato a Spartanburg, South Carolina (luogo di nascita condiviso con un altro gigante della vocalità afroamericana, Ira Tucker dei Dixie Hummingbirds), l’1 o il 2 gennaio del 1924, Arthur Prysock Jr. crebbe dall’età di tre anni a Greensboro, North Carolina, tornando però ogni estate a Spartanburg a lavorare nella fattoria del nonno. Con il solo background canoro acquisito in chiesa, si trasferì adolescente a Hartford, e mentre era impiegato nell’importante fabbrica aeronautica della città del Connecticut, la Pratt & Whitney, iniziò a cantare in un locale dove ebbe la fortuna di essere ascoltato dal suo conterraneo Woodrow «Buddy» Johnson, leader di una delle più popolari big band nere e fertile e originalissimo compositore (il maestro della blues ballad dal sinuoso tratto melodico). Johnson gli chiese se conoscesse le sue canzoni e Arthur rispose che le cantava ogni sera, ne intonò qualcuna sul momento – in maniera molto convincente – e ottenne il posto nell’orchestra, al posto di Joe Medlin. Negli anni con la big band di Buddy Johnson (1944-1952), in tournée che lo portavano dall’Apollo e dal Savoy sino al Regal di Chicago e alle ballrooms e ai teatri della California, Prysock fu l’ideale contrappeso, con il suo baritono-basso dalle vaste proporzioni e dalla calma virilità, capace di integrare lividi e introspettivi toni di conversazione e pieni aperti e vibranti, dalla grana carnosa, alla rappresa e acidula, singolarissima voce bluesy di Ella Johnson. Un cd della Jasmine, «They All Say I’m the Biggest Fool», dal titolo del primo hit Johnson-Prysock, raccoglie tutte le collaborazioni con l’orchestra, dalla citata ballad blue e torchy di struggente smarrimento, I Wonder Where Our Love Has Gone, all’operistico Because (1950), il venerabile motivo legato a Enrico Caruso (e in seguito a Perry Como) dilatato sui due lati di un eccentrico quanto fortunato 78 giri: passando per meno noti gioielli che illustravano, con le ombrose o ambigue suggestioni della scrittura di Buddy e la dinamica quasi ellingtoniana della sua orchestra, la evocativa tensione drammatica creata dai colori e dal respiro baritonali di Arthur – l’umbratile «torch song» Serves Me Right, lo swingante e sottilmente minaccioso You Had Better Change Your Ways, il solenne e romantico Lovely in Her Evening Gown, sinfonia di un sogno interrotto, il disarmato quanto potente Ever Since the One I Love’s Been Gone. Lasciato Johnson, che avrebbe poi più volte ritrovato sui grandi palcoscenici del ghetto, specialmente nel Sud, in tournée di spettacolari ed eclettici «pacchetti» r&b, tournée alternate a più prolungate permanenze in prestigiose venues come il Toast of the Town di Chicago e il Midtown Hotel di St. Louis, il cantante rimase alla Decca per un serie di singoli, perlopiù arrangiati in chiave pop da Sy Oliver, poi radunati nel 33 giri «Strictly Sentimental», da ricordare per le morbide e sensuali letture di I Didn’t Sleep a Wink Last Night (l’unico hit, con organo e quartetto vocale, nell’inverno del 1952, mentre un fluido e gentilmente danzante At Last ancora appariva con la band di Buddy) e della ballad johnsoniana Baby Don’t You Cry (più tardi argutamente personalizzata da Ray Charles) e per un Temptation illuminato dall’arrangiamento corale jazzy dei Ray Charles Singers (l’altro Ray Charles).

Su Mercury si fece apprezzare lo Arthur shouter: il suo spazioso strumento, affiancato dal torrido sax tenore del fratello minore Red (emerso dalla band r&b di Tiny Bradshaw, come corposo e rauco solista dei popolarissimi Soft e Heavy Juice), libera un passo dalla grave e grintosa grazia – e sempre un ricco ventaglio chiaroscurale – sui cambi di tempo del Woke Up This Morning di B.B. King, del 1955, accoppiato a un’altra tornita ballad di supplica e rimpianto firmata da Johnson, Come Home. E così sulla houstoniana Peacock, con There Goes the Mailman, una malinconica ballad terzinata, e il pulsante e discorsivo O-Ho-O-Yeh (What the Heck), arrangiati da Johnny Pate. In una fase commercialmente depressa della sua carriera, in cui per sostenere la famiglia il cantante trovò lavoro anche come cuoco, nel 1958 Arthur entrò come «class act» nella scuderia della indie Old Town, l’etichetta newyorkese di Hy Weiss. Come illustra la raccolta di 45 giri della Ace, «Too Late Baby: The Old Town Singles 1958-66»», l’iniziale accento sul blues, nella sua espressione moderna (la robusta e ipnotica lettura di I Just Want to Make Love to You di Willie Dixon e Muddy Waters, convincentemente grintosa per quanto sempre controllata, seguita un formidabile Good Rockin’ Tonight, il celebrativo classico di Roy Brown reso con fiero e predicatorio aplomb in contrasto con uno stridente coretto femminile), lasciò presto spazio all’attenzione per il balladeur, con il finemente magnetico I Worry ‘Bout You del 1959 (firmato da un talentuoso pupillo di Dinah Washington, Norman Mapp) a dare il senso di quella tenera e virile devozione che era nelle corde profonde di Arthur, puntualmente espressa, nella tavolozza, dall’elegante bilanciamento di lucenti rotondità brune, confidenziali, e palpitanti abbandoni nel registro alto, dalla grana ocra: come avrebbe confermato la rilettura nell’album con Basie, nella più complessa cornice jazzistica dell’arrangiamento di Frank Foster. Un balladeur che toccava adulti colori soulful in piccole gemme del 1963 come My Special Prayer (il cui solare clima ieratico sarebbe stato poi accentuato da Joe Simon e Percy Sledge), il pulsante Come and See This Old Fool e il finger snapping e bizzarramente onirico House By the Side of the Road (un 45 giri del ‘66 con un arioso e austero My Funny Valentine sul lato B) in contrasto ad assurdi languori pseudo-classici come Pianissimo e a gustosi bozzetti «hootenanny» come Crawdad: e che trovava un perfetto equilibrio di richiamo commerciale e meditata eloquenza jazz-blues in It’s Too Late, Baby, Too Late del 1965 (un’altra contrastata, e cinica, blue ballad ripresa da quella affine songbird, Irene Reid).

Nel frattempo i vari album Old Town, dopo l’iniziale, cangiante raccolta pop-blues intitolata a I Worry ‘Bout You (comprendente altri due sapidi temi bluesy di Norman Mapp, Don’t Quit Me Now e You Never Know About Love, oltre a un’esemplare interpretazione di The Very Thought of You che come «singolo» sfiorò i Top Ten delle classifiche R&B), andavano in cerca di un’identità di intimo quanto imperioso cesellatore di standard, con un seducente piglio contemporaneo che lo rendeva particolarmente gradito al pubblico della middle class nera. In «Arthur Prysock Sings Only for You» (1962), in un prevalente clima cameristico di combo piano-organo (il leader Stan Free e Ram Ramirez), il baritono distilla e personalizza le grandi melodie di Time After Time e April in Paris, prestando una rara attenzione all’equilibrio di senso e suono delle parole, e aggiungendo a Ghost of a Chance una strofetta recitata con gusto radiofonico e una lugubre grazia (à la Vincent Price) che a fine decennio lo avrebbero accompagnato nelle romantiche letture poetiche di «This Is My Beloved» (su Verve). In «Coast to Coast» (1963, orchestra di Herb Goody) Prysock dà una matura emozionalità alla torchiness di un lentissimo They All Say I’m The Biggest Fool e sfida Bennett o Sammy Davis in meditate letture di Blue Velvet, già visitato con scarsa fortuna commerciale ai tempi della Decca, I Left My Heart in San Francisco, What Kind of Fool I Am, tenendosi in chiaroscurale equilibrio tra luci soffuse e aperture risonanti quanto elegantemente frenate: un equilibrio variamente modulato, sotto la guida orchestrale di Mort Garson, in «A Portrait of Arthur Prysock» (1963: un quieto e riflessivo I’ll Be Around, animato da un abbagliante intreccio di sax tenore e archi, un Autumn Leaves dal misterioso mood latino, una policroma, suggestiva rivisitazione di I Wonder Where Our Love Has Gone), «Everlasting Song For Everlasting Lovers» (1964, Close Your Eyes, I’m a Fool to Want You, Stranger In Town), «Intimately Yours» (1965: Willow Weep for Me, Cottage for Sale, omaggio a Eckstine, trasudante nostalgia, oltre al già ricordato hit, It’s Too Late).

Un equilibrio brillantemente proseguito in casa Verve, dopo il debutto basiano, con «Art & Soul» (1966: la Swing band di Easy To Love, gli archi di Someone to Watch Over Me e For Once in My Life, la gloriosa combinazione di rap e melodia di How Did She Look, struggente ballad di Gladys Shelley che rimarrà un cavallo di battaglia del crooner) e, sempre con Garson, «Love Me» (1967: Bewitched, I Concentrate on You) e «I Must Be Doing Something Right» (Since I Fell for You in un elegante arrangiamento di Claus Ogerman, Autumn in New York con Torrie Zito e l’intrigante brano ritmico del titolo, portato a un soffio dal funk da Bobby Scott), illustrato in copertina da foto che mostrano il Prysock più virilmente seducente – e prospero – per le signore di Bronzeville, la figura imponente in smoking al tavolo di un elegante casinò, il bel volto castano da attore concentrato sulla roulette e il suo monetario incanto. Sempre nel 1968, mentre la voce di Arthur emergeva calda e fascinosa in una scena erotica tra i due divi neri Jim Brown e Diahann Carroll (la ballad di Quincy Jones It’s Just a Game, Love) nel brutale The Split, crime movie tratto dal celebre romanzo di Donald Westlake (firmato come «Richard Stark») The 7th, l’album «To Love or Not to Love» offriva episodi memorabili in un danzante September In The Rain ingegnosamente orchestrato da Don Sebesky e, di nuovo con Garson, nell’astuta A Working Man’s Prayer, miscela di sentimentalismo e realismo, di recitazione e canto, resa credibile dalla piena e matura concentrazione del baritono basso.

Qualità che rimane palpabile intorno al 1970 nel pur confuso panorama delle incisioni per la King Records, l’etichetta di Cincinnati che era stata in buona parte responsabile per l’affermazione del r&b e del primo soul. «Where the Soul Tree Grows», dal titolo del 45 giri del 1969 che esaltava con metafora arborea il nuovo linguaggio nero in una chiave insieme bluesy e ballabile, attualissima, ha più che occasionali spunti funky e (appunto) soul negli arrangiamenti del futuro pianista mingusiano Don Pullen (Drown in My Own Tears, un nuovo I’ll Be Around dalla ritmica jazz e dall’ampio equilibrio cromatico, tra bassi lividi, orlature nel falsetto e accenni di singhiozzo): mentre gli album realizzati a Nashville alternano il tipico, variegato pop prysockiano guarnito dal più che occasionale commento parlato («Unforgettable», con tocchi country-soul in un Cry che cresce sino a esplosioni emozionali magistralmente frenate e nel Let Them Talk di Little Willie John, squisitamente omaggiato anche in un soffice, accoratissimo Talk to Me; e il più intimo «Fly My Love», con un Sunny cauto, dal respiro largo e dai plastici sussurri, una definitiva rilettura dell’eckstiniano I Wanna Talk About You, e belle incursioni nel book dei Beatles e di Jim Webb) a episodi più schiettamente country («The Country Side of Arthur Prysock», con una lettura di Today I Started Loving You Again di maestosa e generosamente quanto finemente modulata eloquenza, e un unico, bruciante inasprimento a minarne con classe il relax) e più sobriamente gospel («The Lord Is My Shepherd», la voce, tra melodia e recitazione, ombre cupe e pieghe agre, ben integrata dalle armonie dei Jordanaires, come in un mirabile That Lucky Old Sun dal crescendo finale quasi feroce e in un pulsante e ipnotico Just a Closer Walk With Thee).

A metà anni Settanta il ritorno alla Old Town di Hy Weiss è stato segnato dagli intriganti episodi di soul contemporaneo, ancora curati da Mort Garson, dei pur discontinui «Love Makes It Right» (aperto da efficaci aggiornamenti di Hurt So Bad e It’s Too Soon to Know e caratterizzato dalla pura, carnale tensione celebrativa del brano del titolo) e «Arthur Prysock ‘74» (dal cauto quanto eloquente lirismo di Don’t Misunderstand alla misurata muscolarità di Thank Heaven for You, passando per i tormenti di A Man Sings the Blues e Good Morning Heartache), ma anche da diversi cedimenti all’estetica «disco» («All My Life», del 1976, con il gentile abbandono danzante dello hit When Love Is New, e «Does It Again» del 1977, parzialmente riscattato da un poderoso Shady Lady), sino all’eclettismo pop di «Here’s to Good Friends» del 978, che prendeva il nome dalla canzone che accompagnava la pubblicità televisiva della Lowenbrau (e che gli dette in quel periodo una popolarità estesa ben oltre la sua naturale audience) e che culminava nella bella e colloquiale lettura country-soul di Funny How Time Slips Away di Willie Nelson, in sorprendente conflitto con la eccitante e spiritosa maratona di sudata carnalità da pista da ballo, Spunky.

Sempre elegantemente bluesy, dalla bruna luminosità e dagli ampi e profondi spazi resi forse più frastagliati, appare ancora il canto dell’avanzata maturità negli album Milestone, che sottolineano per pur breve tempo la sua appartenenza al gotha vocale jazzistico e lo portano alla nomination per alcuni Grammy Awards. «A Rockin’ Good Way», una produzione di Bob Porter del 1985, è un solido e divertente set di r&b insieme tradizionale e contemporaneo con un quintetto del fratello Red: il baritono sessantenne è shouter dal timing impeccabile, provocante, nei tributi a Wynonie Harris (Bloodshot Eyes) e Junior Parker (Next Time You See Me), e i suoi rilassati incontri con Betty Joplin, versatile e dinamica sciantosa soul del Michigan, suggeriscono ben più di un’eco di Brook e Dinah (Baby, un Rockin’ Good Way dall’animato dialogo conclusivo, Teach Me Tonight) oltre che di Billy e Sarah (un Passing Strangers sporcato dall’uso della tastiera in funzione degli archi). Un anno dopo, «This Guy’s In Love With You» replica i pregi e i piccoli difetti dell’album precedente, con qualche paabile cedimento (c’è una traccia di fatica nel Bring It on Home to Me duettato con Betty, una senile dilatazione del vibrato in At Last) compensato dall’assorta intensità dell’interpretazione di Rainy Night in Georgia, aperto su bassi placidamente gloriosi e chiuso su un gustosissimo rap geografico. Ancora prodotto da Porter, nel 1988, «Today’s Love Songs, Tomorrow’s Blues» chiude la carriera di Arthur Prysock su una nota familiare (e magari frustrante, per chi cerca piena coerenza di poetica) di eclettismo nella stesura dell’album, tra divagazioni dance e pseudo-country. Ma la matura e densa vocalità, dall’emozionalità vivida quanto controllata, rimane sovente apprezzabile: nel gospelizzante Got to Get You off My Mind, dal book di Solomon Burke, nella laconica soul ballad di Billy Preston, You Are So Beautiful, nella rivisitazione di How Did She Look in un romantico rubato, e nel gioiellino finale, All My Lovin’ Was in Vain, un originale, swingante monologo firmato da Arthur con la Perrier. In questi brani i mobili bassi di antracite e gli alti velati, di una grazia sobria e scabra, creano un virile gioco di chiaroscuri, ricco di venature blue e crepe riarse, e il fraseggio disteso e gli attacchi sicuri, ben marcati, trovano perfetti riflessi strumentali negli interventi del tenore di Red Prysock e di ospiti come Hank Crawford e Melvin Sparks.

«Era un ottimo cantante che poteva interpretare qualsiasi cosa,» aveva detto ad Arnold Shaw il fratello di Hy Weiss, Sam, «ma che non ha mai ottenuto il riconoscimento che avrebbe meritato.» Prysock era sospeso tra r&b, pop, jazz e altri registri musicali che sapeva dominava con forte personalità: e quel pieno riconoscimento ha continuato a sfuggirgli, anche postumo. Fu proprio Denise Perrier, impegnata – qualche anno dopo gli album Milestone – in una rassegna piemontese di blues, a comunicarmi il motivo del prolungato silenzio del suo grande partner: era stato coito da un ictus e si era ritirato a Hamilton, Bermuda. Qui sarebbe morto il 21 giugno del 1997 (Red lo aveva preceduto di quattro anni, a Chicago, per un infarto). 

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