Nel suo Ugly Beauty, il critico inglese Phil Freeman ci offre un panorama abbastanza esaustivo della scena jazz internazionale degli ultimi decenni, anche se sostanzialmente solo americana (New York, Chicago, Los Angeles) e londinese. Nella sua analisi, oltre che in aree geografiche (e metropolitane), Freeman divide il campo anche per tematiche o, diciamo, per stili e sottostili, il tutto guardando quasi esclusivamente a quei musicisti che, comunque sia, cercano un rinnovamento del linguaggio. In linea di massima, nel volume si parla di contemporary mainstream, ma anche, quasi un contraltare, di un’avanguardia che fa più musica che jazz (e c’è un ragionamento interessante sul termine «jazz», come una sorta di superword che ingloba molti aspetti anche extramusicali). Quindi, prima di affrontare altri tipi di avanguardisti accomunati da uno spirito «contro» (anche qui, al di là della musica, in senso psico-sociale), Freeman traccia le linee e i confini di un campo a suo dire abbastanza definito e influente, quello che lui definisce «spiritual jazz». E qui Freeman nomina musicisti quali Shabaka Hutchings, Yazz Ahmed, Nubya Garcia & Shirley Tetteh, Brandee Younger & Makaya McCraven, Nduduzo Makhathini, Siya Makuzeni, Thandi Ntuli, Linda Sikhakhane & Ndabo Zulu, Kamasi Washington, Ryan Porter, Cameron Graves, Miles Mosley, Thundercat & Dwight Trible, Darius Jones. Quello della musica spirituale (o con metascopi spirituali) è un ambito quantomeno insidioso e, per capirci sulla problematicità della definizione, basta guardare alla diversità della musica prodotta dai musicisti citati sopra. Ma la definizione di un campo d’azione, addirittura di uno stile, denominato spiritual jazz è una novità? Non lo è nel senso dell’uso della terminologia ma lo può essere se si pensa convintamente a uno stile del jazz e non solo a un repertorio o, in linea di massima, a una maniera per caratterizzare obliquamente altri stili.
Storicamente, se si parla di repertorio, a parte gli spirituals pre-jazz, con spiritual jazz si può fare riferimento alle musiche per le celebrazioni liturgiche (per esempio la Mass di Mary Lou Williams, più o meno come nella tradizione classica occidentale) o ai Sacred Concerts di Duke Ellington. Oppure a un tipo di musica, come il cosiddetto soul jazz degli anni Cinquanta, che accoglieva i suoni e gli umori del gospel e del r&b. Tuttavia, per giungere al vero senso di «spiritual jazz», bisogna collegarsi alla spiritualità di John Coltrane che, verso la metà degli anni Sessanta, da «A Love Supreme» si muove nella direzione di una sorta di panteismo universale e troverà i suoi epigoni diretti nel partner dell’ultimo quintetto, il tenorista Pharoah Sanders, e globalmente soprattutto nella moglie Alice. Solo oggi, anche in virtù della ricapitolazione e della nuova catalogazione di Phil Freeman, ci sentiamo di poter dare ad Alice Coltrane quel ruolo di ideale punto di riferimento per tutto ciò che, a oltre mezzo secolo dalla scomparsa di John, in questi anni Venti del XXI secolo si ricollega allo spiritual jazz. Un ruolo di collegamento che compete ad Alice più che ad artisti in sé più importanti (vengono in mente nomi quali Albert Ayler e Don Cherry o, per altri versi, Sun Ra), le cui figure e opere vanno a coprire ambiti diversi, ben più ampi e meno specifici. E tutto sommato, in qualche modo persino di più rispetto allo stesso Sanders che, nella sua lunga carriera ha percorso pure altre strade (non dimentichiamo l’incursione nelle piste da ballo, ai tempi di Love Will Find a Way), dopo aver sbalordito mezzo mondo con The Creator Has a Master Plan, assieme a un altro personaggio spiritual come Lonnie Liston Smith. Ma per quale motivo Alice, dal mero punto di vista strumentale, non è mai parsa una personalità imprescindibile? Sostanzialmente perché, più di altri, ha dato un senso complessivo al termine «spirituale», unendo vita e musica in un unico flusso sia di pensiero sia di quotidianità.
Alice McLeod, nata a Detroit, Michigan, il 27 agosto 1937, cresce in una famiglia di musicisti dilettanti (a parte due: la sorella minore Marilyn McLeod, morta alla fine del 2021, è stata una cantautrice per la Motown e il fratellastro Ernie Farrow lo storico contrabbassista di Yusef Lateef sui dischi della Savoy). Con l’incoraggiamento del padre, Alice intraprende studi musicali e inizia a esibirsi in vari club intorno a Detroit, fino a trasferirsi a Parigi alla fine degli anni Cinquanta, dove continua a studiare sia classica sia jazz, venendo in contatto con Bud Powell che le dà lezioni. Siamo nel 1960. A Parigi, è al Blue Note come pianista d’intermezzo e ha l’opportunità di lavorare con alcuni musicisti di valore: è in questo contesto che appare alla televisione francese in una performance con Lucky Thompson, Pierre Michelot e Kenny Clarke. Sempre in quell’anno, sposa Kenny «Pancho» Hagood con cui ha una figlia, ma il matrimonio finisce ben presto a causa della crescente dipendenza da eroina del cantante. È così che Alice è costretta a tornare con la figlia a Detroit, dove suona professionalmente, sia con il suo trio sia in duo con la vibrafonista Terry Pollard. La scena di Detroit è particolarmente viva e interessante: Pollard era stata scoperta da un vibrafonista della città ben più noto, Terry Gibbs, che nel 1962-63 giunge a collaborare con Alice, introdottagli da Ernie Farrow. Ma di Detroit sono anche il tenorista basiano Billy Mitchell così come Elvin Jones, e non è un caso che in questo periodo Alice conosca John Coltrane, a lui presentata da Gibbs: i due iniziano a frequentarsi e nel 1965 convolano a nozze a Juárez, in Messico. John diviene come un padre per Michelle, la figlia di Alice, ma soprattutto arrivano, uno dopo l’altro tre figli, fatalmente destinati a vivere di musica: John Jr. (1964, bassista scomparso in un incidente d’auto nel 1982), Ravi (di gran lunga il più noto, nato nel 1965, sassofonista come il padre) e Oranyan (1967, dj ma, per un certo periodo, sassofonista con Carlos Santana). Alice Coltrane diviene ben presto una presenza importante nelle scelte di John, a partire dal coinvolgimento nella sfera spirituale che porta, il 9 dicembre 1964, alla registrazione di «A Love Supreme, subito seguito da «The John Coltrane Quartet Plays (con Song of Praise) e quindi da «Ascension (inciso il 28 giugno 1965), «Kulu Se MaMa (fra giugno e ottobre) e «Meditations (23 novembre). Con il 1966, Coltrane rinnova il gruppo: se ne vanno McCoy Tyner ed Elvin Jones, sostituiti da Alice e da Rashied Ali; si aggiunge un secondo tenorista, Pharoah Sanders, e il quartetto diviene quasi stabilmente quintetto, con nuove, chiare linee guida: il modal-free e la spiritualità.
È da questo momento che Trane inizia veramente il suo nuovo viaggio musicale e spirituale. Nella ricerca di un mood che trascenda la dimensione terrena, egli tende al dialogo, ai dialoghi: con Ali (si veda «Interstellar Space», inciso per la Impulse! nel 1967 ma pubblicato solo nel 1974); con Sanders, spesso con gli stessi strumenti (due sax tenori ma anche due flauti: To Be in «Expression») e forse anche con l’LSD che mina ulteriormente un fisico già provato. Coltrane, però, ama per lo più suonare ancora in quartetto, tanto che a un certo punto si parlerà comunque del «secondo quartetto», proprio per sottolineare la presenza di Alice e Ali in luogo di McCoy ed Elvin Jones, al di là di Sanders e al di là dei dialoghi e dei duo.
L’apporto di Alice al pianoforte è discreto ma, con un uso insistito degli arpeggi e un approccio molto coloristico dello strumento, certamente funzionale a quel tipo di musica a suo modo evocativa. Quell’avventura si blocca con la morte di John, il 17 luglio 1967, ma Alice si sente quasi di aver ricevuto l’investitura di prima continuatrice di quel messaggio, musicale e spirituale insieme. Lo ricorderà lei stessa, in seguito: non poteva esser facile per una giovane vedova, single, nera, madre di quattro figli. Dopo la morte del marito, è per lei un periodo di dura prova. Da subito soffre di una grave perdita di peso e di notti insonni, oltre che di allucinazioni e questa sofferenza la porta presto a cercare una guida spirituale indù nel guru Swami Satchidananda che proprio in quegli anni fa la sua immanente comparsa negli Stati Uniti (fragoroso il suo arrivo in elicottero direttamente sul palco di Woodstock nell’estate del 1969, vestito d’arancio, capelli lunghi e barba fluente). Il primo album da leader di Alice è «A Monastic Trio» per la Impulse!, quasi totalmente inciso e pubblicato nel 1968 assieme agli ultimi compagni di viaggio: Pharoah Sanders, Jimmy Garrison, Rashied Ali (ma in tre brani alla batteria c’è Ben Riley, che in quel periodo lavorava stabilmente con Monk e che successivamente sarà spesso coinvolto con Alice). Nei brani in cui ci sono le ance e il flauto di Sanders il clima riparte dall’ultimo modale free di Coltrane ma, in sua assenza, l’ambientazione inizia a spostarsi verso il modale evocativo, cosmico, nel quale la musica sembra voler essere primariamente un mezzo per arrivare ad altro.
Nella decina d’anni tra il 1968 e il 1977 Alice pubblica tredici dischi completi. Con il passare degli anni, la sua direzione musicale si sposta dal jazz tradizionalmente inteso al mondo musicale più chiaramente spirituale. Già album come «Universal Consciousness» (1971) e «World Galaxy» (1972), mostrano un evidente cambiamento di indirizzo sin dalla line-up degli organici, passando dalla vecchia formazione di quattro elementi a un approccio più orchestrale, con lussureggianti arrangiamenti di archi e suadenti suoni d’arpa a cascata. Nel 1973, data fino alla quale aveva sempre pubblicato con la Impulse! (l’etichetta jazz per la quale suo marito era divenuto una vera e propria bandiera), passa alla Warner con cui pubblica sino al 1978, quasi in esclusiva: un cambio di casa discografica che, in questo frangente, pare tutt’altro che casuale. Poi, quasi d’un tratto, si allontana dagli occhi del pubblico e, in fondo, dagli occhi del mondo.
Tuttavia, a ben vedere, questi mutamenti non avvengono di colpo perché già nel 1972, dopo «World Galaxy», si era trasferita in California, per abbandonare la cosiddetta vita secolare e dedicarsi convintamente all’educazione religiosa. Ciò non le aveva impedito di registrare per l’ultima volta per la Impulse!: si tratta dell’album «Lord of Lords», con Charlie Haden, Ben Riley e ancora una poderosa orchestra d’archi. Qualcosa sta in effetti cambiando anche nella musica, ma l’uso che Alice fa degli archi nella title track fa di primo acchito vagamente pensare agli Skies of America di Ornette, più che ai tappeti orientali. Ciò che invece succede, totalmente e senza veli, con il passaggio alla Columbia.
Nel 1974, innanzitutto la major le organizza una session con collaborazioni importanti, che si aggiungono all’orchestra d’archi, a iniziare dalla chitarra di Carlos Santana e una ritmica che, in alcuni brani, include Dave Holland al contrabbasso e Jack DeJohnette alla batteria. Il disco è «Illuminations» e gli arrangiamenti degli archi si stagliano illuminanti su una sonorità easy fusion che sconfina con Hollywood. Questa sensazione di non ambire alla profondità prende ancor più quota in «Eternity» (inciso nel 1975 e uscito l’anno dopo per la Warner), con un organico che, a tratti sinfonico, riporta a echi soul, mentre nei piccoli gruppi spazia da un camerismo etno-orientale alle citazioni più disparate (e pericolose, comunque in sé coraggiose), volendo collegare la Sacre di Stravinskij con il Love Supreme di Coltrane.
Sono trascorsi più di sette anni dalla morte di John e, con lui, del panteismo modal free. Cosa ne sarebbe stato degli sheets of sound, a contatto con la fusion e col funk? Non lo possiamo sapere, ma le Illuminations di Alice sono fuori e oltre qualsiasi tipo di concetto che in quel momento potesse girare intorno alla superword jazz. Trane, invece, anche l’ultimo Trane, per quanto incline alla spiritualità, senza alcun dubbio era sempre rimasto totalmente dentro al grande alveo del jazz.
Non così Alice, che vive quel momento come un autentico periodo di svolta e nel 1975 fonda il Vedantic Center nella periferia di Los Angeles, un centro di meditazione che si rifà agli antichi testi della religione vedica del secondo millennio avanti Cristo. La Warner intravede nuovi spiragli di mercato e le dà l’opportunità di registrare «Radha-Krsna Nama Sankirtana»: il contesto ora è sì totalmente diverso e con Alice e i suoi studenti ci sono anche la figlia Michelle e il figlio Arjuna John Jr. Non solo il jazz non c’entra più ma, tutto sommato, nessun tipo di sviluppo del linguaggio musicale pare interessare Alice, che è come se nascesse un’altra volta. Il clima è facilmente intuibile dai titoli dei brani (Govinda Jai Jai e poi, naturalmente, Hare Krishna) e, fosse capitato in Europa, nello stesso periodo, non sarebbe stato così diverso da quello che si viveva in Francia, a Taizé, nella comunità di frère Roger.
Escono altri due album, «Trascendence» (1977) e «Transfiguration» (1978), che nei titoli sembrerebbero continuare un percorso che da «Eternity» e «Illuminations» riconducono a ritroso sino ad «Ascension». Reggie Workman al contrabbasso e Roy Haynes alla batteria assicurano il consueto dinamismo ma il modale della mano destra di Alice sul sintetizzatore non può essere riconducibile al soprano di Trane.
Il suo paese meraviglioso è oramai dentro al centro di meditazione e dal 1978, cambiato il nome in Turiyasangitananda, Alice sparisce quasi totalmente dal mondo esterno. Nel 1983, sempre in California, nei pressi di Malibu, con il Vedantic Center fonda l’ashram Shanti Anantam, dove si impegna come swamini, direttrice spirituale. Negli anni 1980 e nei primi Novanta, dal punto di vista musicale, registra solo album di canti devozionali indù, pur intendendo farlo anche con l’uso di sintetizzatori e componendo brani originali, anche strutturalmente non banali. Finalmente, a partire dalla fine del decennio e del secolo, pare riaccendersi un po’ di luce intorno all’ormai piccolo mondo di Alice. Nel 2004 tutto sembra tornare dove tutto era iniziato: la Impulse! la rimette al centro di un quartetto che comprende il figlio Ravi al sax soprano, Charlie Haden e Roy Haynes, e che dà alla luce «Translinear Light». Forte di un bagaglio spirituale a questo punto senza pari, Alice è tornata al punto in cui si era lasciata con John. E dopo circa un quarto di secolo dalle sue più importanti presenze su un palcoscenico come musicista, nell’autunno 2006 è di nuovo pronta per esibirsi in concerto: accade con lo stesso quartetto del cd, all’Ann Arbor’s Hill Auditorium dell’Università del Michigan, nella data significativa del 23 settembre, a ottant’anni dalla nascita di John; sempre con Ravi e con Haden e Haynes, il 4 novembre di quell’anno è al jazz festival di San Francisco.
Due mesi dopo, il 12 gennaio 2007, Alice McLeod Coltrane si spegne per insufficienza respiratoria al West Hills Hospital & Medical Center nella periferia di Los Angeles; la salma viene portata a New York, dove è deposta accanto a John Coltrane nel Pinelawn Memorial Park, Farmingdale, Suffolk County. Da New York, Ravi può finalmente riprendere la propria strada. Lo spirito di Alice rivive in nuove musiche, nelle mostre d’arte, nei film, nelle raccolte di poesie. A Los Angeles, nel 2015, Kamasi Washington fa uscire «The Epic» e nei primi due accordi di Change of the Guard il ricorso al modale di McCoy Tyner è lampante. Nel 2018 l’ashram di Alice è distrutto fra i paurosi roghi del Woolsey Fire: anche da quelle ceneri riprende vita lo spiritual jazz.