«KEEP LEFT and go straight South». Intervista a Lucia Ianniello

Nuovo album per la trombettista e compositrice campana. Ne parliamo con lei.

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Buongiorno Lucia, benvenuta a Musica Jazz. Parliamo di «KEEP LEFT and go straight South» per il quale ho delle curiosità che potranno sembrare marginali. La prima è perché hai voluto in lettere maiuscole la prima parte del titolo?
Felice di essere a Musica Jazz. Mi strappi un sorriso con questa domanda, beh le indicazioni stradali sono nella maggior parte dei casi scritte in maiuscolo, se provi a cercare KEEP LEFT su un motore di ricerca te ne accorgerai. Poi, in seconda analisi, si potrebbe ipotizzare la voglia di attribuire una maggiore enfasi a questa indicazione, ma chi può dirlo con certezza? E se avessi voluto alludere a qualcos’altro invece che a una semplice indicazione stradale? Se ci fosse un riferimento specificamente politico? Una cosa è certa: tutto il lavoro che c’è stato intorno alla pubblicazione di questo nuovo album ha seguito traiettorie quasi oniriche. In realtà, non ci sono state scelte troppo razionali e alla fine se si è rivelato un filo di coerenza, almeno lo spero, che tiene insieme l’intero lavoro, è il risultato di un’armonia tra i musicisti e di una nuova consapevolezza personale.

Qual è il messaggio che vuoi dare?
Nessun messaggio. Mi piace pensare che ogni ascoltatore possa crearsi le sue immagini, il proprio soundscape e i nessi che ne derivano. La musica procede per strade sconosciute. È incomprensibile e capace di influenzare profondamente l’animo umano. Il mio pensiero rispecchia pienamente quanto riportato nelle note di copertina dallo scrittore Filippo La Porta a proposito di un Sud inteso non solo come un luogo geografico ma piuttosto come una categoria morale e antropologica che, in quanto utopica, possa rappresentare una critica all’efficientismo e al principio di prestazione del nord industriale… un mito culturale e civile insomma. E aggiungerei che quel luogo buono, «eutopico» che canto in Feronia, esiste davvero ed è raggiungibile attraverso il rifiuto di ogni forma di razzismo, soprusi e ingiustizie sociali.

Si parla della rinascita del Sud da decenni, a essere buoni. Quali sono, a tuo avviso, i motivi ostativi di questa rinascita?
Un convegno non basterebbe per rispondere a questa domanda, la stessa che circa cento anni fa si poneva lo stesso Antonio Gramsci, e non era certo l’unico. Egli si chiedeva, infatti, se esistesse una volontà vera, da parte delle Istituzioni italiane ma non solo, di risolvere il divario enorme che separava il Nord dal Sud del mondo, il Nord dal Sud dell’Europa, il Nord Italia dal Mezzogiorno. Vero è che il Sud per troppo tempo è stato il mercato coloniale del Nord industriale, nell’interesse degli stessi industriali settentrionali ma anche dei ricchi latifondisti del Sud. Ciò che un tempo è stato quasi giustificato alla luce di un più alto interesse nazionale oggi però non ha alcun senso perché sono cambiati gli scenari e il mondo del lavoro. Da musicista tenderei a favorire e a promuovere le armonie di queste terre, le bellezze, le specificità; investirei per creare opportunità per i giovani che scappano via, offrendo loro le condizioni per valorizzare le diversità.

In quanto tempo hai concepito questo album?
Il primo brano che ho composto è stato It’s Raining, in una giornata piovosa al mare, quasi un presagio perché di lì a poco è arrivato il covid ed io, Roberto e Paolo ci siamo visti costretti a dedicarci ad un nuovo progetto creato a distanza insieme a Calvin Weston e Mario Mazzenga My One and Only Planet. Ritornati alla normalità, rispuntato il sole, ho riannodato fili interrotti ritrovando quella naturalezza che mi spingeva ad uscire, a camminare lungo il mare, che mi faceva canticchiare melodie al cellulare, che poi riascoltavo in studio. Diciamo che c’è stata una gestazione ininterrotta di un anno e mezzo circa mentre contemporaneamente ho cominciato a frequentare il corso di Musicologia alla Sapienza. Un periodo pieno di contenuti ed emozioni confluito naturalmente in studio di registrazione.

Chi è Mr. L.P.?
È la prima volta che mi trovo a rispondere a questa domanda. Mr. L.P. è Luigi Poggesi, un amico e una persona che stimo per coraggio e caparbietà. Ci siamo conosciuti alla fine degli anni Ottanta e nel 2007 è entrato in un lungo coma a causa di uno shock anafilattico dal quale si è risvegliato ascoltando Comfortably Numb dei Pink Floyd. Ha combattuto per anni affinché ritrovasse una fluidità del linguaggio e adesso sta bene ma non è più riuscito a suonare la chitarra che tanto ama. Lavorando con Roberto Cervi che trovo molto espressivo e sensibile e soprattutto calato pienamente in quelle sonorità, ho trovato che fosse il momento favorevole per omaggiare il caro Mr. L.P.
Si potrebbe obiettare che il brano rappresenti un elemento estraneo a quello che si presenterebbe come una sorta di concept album. In realtà non è così, il trauma subito che ha profondamente cambiato, facendolo riflettere, Mr. L.P. può ben rappresentare il conflitto interno alla società: l’efficientismo, la produttività, la competitività, il ruolo del mercato da una parte, contro il passo lento, il tempo come valore, la difesa delle esigenze personali, la priorità degli affetti, la ricerca della profondità nei rapporti umani dall’altra.

Mi sembra di notare, rispetto ai tuoi precedenti lavori discografici, una svolta sia nella tua tecnica, che nella tua vena compositiva. Mi sbaglio?
No, non sbagli affatto. I precedenti lavori sono stati in buona parte frutto di una ricerca intorno alla figura artistica e politica di Horace Tapscott che ha dato vita nel 1961 a una delle prime cooperative artistiche nere e alla Pan Afrikan Peoples Arkestra a Los Angeles, nel quartiere di Watts. Poi sono successe tante cose, cambiamenti materiali, sociali, interiori. In quei dischi, forse, il mio approccio compositivo è stato più accademico e risulta più rigido. In KEEP LEFT invece, si è capovolto tutto, il mio luogo di lavoro è stato spesso la riva del mare, dove camminando registravo melodie, idee e testi al cellulare per poi riascoltare e trascrivere nel mio studio, seduta al pianoforte, e confrontandomi costantemente coi miei colleghi. Ho realizzato che la mia creatività si attivava in movimento e quindi ho assecondato questa cosa mentre il mio orizzonte era il Sud, perché il golfo di Terracina dove abito guarda verso la Sicilia e l’Africa, e costeggiando verso sinistra si raggiunge la Campania, la mia regione di origine… da qui forse il titolo del disco? Chissà.

Tra l’altro, in questo disco canti. Cosa racconti?
Canto per la prima volta e senza alcuna remora anche se non sono una cantante perché l’uso della lingua napoletana mi ha sempre donato il senso del gioco, i ricordi d’infanzia, i richiami dei venditori ambulanti, insomma la lingua degli affetti, un po’ come era per Camilleri il siciliano. I pochi versi in South raccontano di un viaggio in treno da una stazione caotica del Nord verso il Sud con i treni di una volta, quelli senza aria condizionata, coi finestrini spalancati e le vecchie tende che ti sbattevano in faccia. Vagoni che ho molto frequentato avendo compiuto i primi studi in Toscana e che diventavano terre di mezzo, di separazione. In Feronia invece parlo di donne che con difficoltà cercano di realizzare la propria identità e l’immagine del bambino al seno conclusiva simboleggia le nascite e le rinascite che si realizzano lungo l’arco della vita.

Non ci sono standard, ma Human Race trae ispirazione da Strange Fruit di Abel Meeropol e consacrata da Billie Holiday. La tua è una dedica al testo o a Billie Holiday?
Sicuramente è stato fonte di ispirazione anche se il nesso l’ho fatto a posteriori. Come quando in un’improvvisazione ci si trova a fare una citazione, spesso non la si evoca razionalmente… arriva e si afferma a tua insaputa e ti fa sorridere. È successo così anche per Human Race, mi sono trovata a pensare a questi strani frutti di cartone che stazionano ai margini delle stazioni oppure scaraventati in mare da uno scafista.

Lucia Ianniello 4tet

Vorresti parlarci dei musicisti che ti accompagnano in questo disco?
A Paolo Tombolesi, pianista, compositore e didatta di grande esperienza, mi lega un lungo sodalizio artistico e d’amore. Devo dire che con molto slancio e generosità ha risposto alle mie richieste abbandonando la musica jazz in senso stretto, nel cui ambito si colloca la maggior parte della sua attività discografica, facendo largo uso di strumenti elettronici alla ricerca di un’espressività che travalica i limiti del pianoforte, pur molto presente nel disco. Roberto Cervi è un chitarrista alquanto introverso  ma dalla grande capacità comunicativa, in grado di passare dal rock al jazz, dal funky al country, dal pop al reggae con una naturalezza spiazzante. Questo fa di lui un artista unico nel suo genere, o meglio, nel suo non-genere. Nel brano South è stato prezioso il suo apporto compositivo. Alessandro Forte è presente con la sua batteria solo in quattro brani ma fa ormai parte a tutti gli effetti del quartetto dal vivo. È il più giovane e il più vicino alle sonorità del jazz contemporaneo, la sua freschezza e il suo punto di vista sono un valore aggiunto per la nostra musica.

In generale, che requisiti deve avere un musicista affinché tu voglia collaborare con lui?
Deve essere generoso e voglioso di provare prima dei concerti. Non deve avere un approccio competitivo ma contributivo (come diceva Tapscott) e deve apprezzare il buon vino (scherzo).

Lucia, come e perché hai scelto la tromba come tuo strumento?
Per il timbro. Ho iniziato a studiare canto ma poi ascoltavo prevalentemente i trombettisti e mi sono fatta delle domande. Ho trovato sul mio percorso diverse persone che mi hanno scoraggiato o che non mi hanno incentivato ma non mi sono data per vinta. Quello che cerco dal mio strumento è altro che i pattern jazz, sono la qualità e la varietà del suono ad intrigarmi. A volte a darmi i brividi sono solo le modulazioni di una singola nota.

Quali sono le tue riflessioni sull’industria musicale italiana attuale?
Mi sono chiari i meccanismi, anche di quella di ieri. Ma mi arrendo davanti a queste che sono evidentemente le conseguenze naturali di una economia capitalista in un sistema globale e cerco di trovare, faticosamente, degli spazi e delle modalità alternative che mi consentano di poter proporre al pubblico i miei progetti originali. Inoltre, studiare gli avvenimenti ed i personaggi che fanno la nostra storia musicale a partire da alcuni secoli fa e collocarli in uno scenario internazionale, mi fa stare molto meglio… trovo risposte che riducono l’insoddisfazione o la rabbia a favore di una comprensione nuova della nostra ignoranza, nel senso di scarsa preparazione, che la dice lunga nei confronti di paesi come la Francia, la Germania o la Gran Bretagna.

Lucia, chi è stato il tuo mentore?
Non ho avuto un mentore. Sono arrivata alla musica da adulta, facevo altro nella vita e ho dovuto aspettare un po’ per realizzare le mie esigenze. A parte gli insegnanti in Conservatorio, i miei movimenti, le scelte, le decisioni sono quasi sempre state il risultato della mia sensibilità e della mia determinazione.

Qual è la tua missione come artista e quali sono i tuoi obiettivi?
Non penso di avere una missione in quanto artista, credo fermamente di avere l’obbligo di essere una persona “umana”, di dover agire con coerenza ed onestà, di voler tendere sempre alla realizzazione della mia identità umana, prima che di artista. Se questo significa poi riuscire a scrivere buona musica o un bel libro, francamente non lo so.

Invece, quali sono i tuoi  prossimi impegni?
Lo studio, la ricerca per me sono sempre al primo posto. Poi presenteremo in giro questo nuovo lavoro, abbiamo diversi appuntamenti estivi, tra cui la Germania a luglio, a Roma saremo il 29 novembre alla Casa del Jazz, e l’autunno sarà portatore di diverse novità.
Alceste Ayroldi

*Le foto sono state fornite dall’ufficio stampa dell’artista

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