Ciao Alea, benvenuta a Musica Jazz. Parliamo subito del tuo nuovo album «Cummei», ovvero in vernacolo brindisino Con me. Perché hai voluto questo titolo?
Ciao e grazie innanzitutto per questa intervista, non è facile oggi far ascoltare la propria voce in questo oceano musicale immenso.
Il titolo ha un significato molteplice. È un invito che prende l’ascoltatore per mano sussurrandogli “vieni cu mei, ti racconto una storia, ti faccio guardare con i miei occhi”. Allo stesso tempo si riferisce a quello che porto con me nel mio viaggio e cioè tutto il mio passato, le tradizioni della mia terra, l’amore della mia famiglia, ovunque io vada. Infine, Cummei sarà l’ultimo capitolo di questo disco, una piccola aggiunta che ancora non è stata pubblicata, ma questo non diciamolo ancora a nessuno…
E, visto che ci siamo, anche del sottotitolo che è particolarmente intrigante: MediterraNeoSoul. Le sonorità neo soul sono particolarmente evidenti. Quali sono le tracce del Mediterraneo di questo disco?
Sì, ho deciso di aggiungere questo sottotitolo per rendere chiaro il mondo in cui ci si sta addentrando una volta schiacciato play. È il cartello sulla porta d’ingresso su cui c’è scritto “oh voi che entrate, sono Alea una donna nata a Brindisi, figlia del Mediterraneo, ma non ascolterete musica popolare, qui c’è nu soul, c’è il mio dialetto, c’è sperimentazione, ci sono le influenze del mondo, c’è il racconto di come si vive da questa parte”.
Come è nata l’idea di questo disco?
Avevo da tempo questi brani, alcuni chiusi ed altri ancora da chiudere e stavo decidendo di tenerli per sempre nel cassetto. Sai, dopo la pandemia, l’allontanamento da un mio vecchio amico e collaboratore, ero abbastanza demoralizzata e stavo pensando che forse non avrei mai più pubblicato altro e che forse questa non fosse più la mia strada. Poi, grazie alla collaborazione con le label Lukania Sound Digital e Kido, abbiamo deciso di partecipare al bando di Nuovo Imaie che proprio un anno esatto fa ci ha comunicato che avrebbero dato il loro contributo per la realizzazione di questo lavoro. Così la macchina è ripartita, si è riaccesa quella scintilla che mi ha portato a dire “devi farlo ora!”. Mi sono guardata allo specchio e mi sono chiesta: “perché vuoi farlo?” Ho capito che pubblicare musica originale è il mio modo di stare al mondo, di dare un contributo alla società, il mio modo di fare attivismo. Così quando ci siamo messi a sistemare la scaletta dei pezzi mi sono resa conto che era tutto collegato ed il racconto era sempre stato lì davanti ai miei occhi.
Come hai agito in fase compositiva?
Dopo il mio secondo disco con la formazione Alea & the Sit con i ragazzi avevo cominciato a scrivere altri brani. D’altronde, con loro ha sempre funzionato così: io portavo un brano piano e voce, magari con accordi semplici, o una melodia cantata senza testo, poi insieme lo stravolgevamo chiusi in sala prove e, dopo due giorni, avevamo tirato sù un brano totalmente nuovo e un po’ pazzo, frutto della nostra capacità di divertirci e creare insieme. Poi la vita ci ha un po’ allontanati ed io ho continuato a scrivere da sola nuove cose. Con la scintilla riaccesa sono tornata a collaborare con Aris Volpe e Giuseppe Pignatelli che, oltre ad essere due fratelli, per me sono due musicisti pazzeschi, e abbiamo chiuso insieme gli altri brani. Il tassello mancante poi lo ha aggiunto Pasquale Strizzi, che ha curato la produzione di due brani, Sublimazione e These Waves, ed ha suonato in tutti gli altri brani facendo un lavoro meraviglioso, per il quale gli sarò eternamente grata. Infine, sempre lui lo ha confezionato, mixandolo con grande pazienza e dedizione.
I testi sono miei, ma avevo lasciato uno spazietto libero in due brani perché il mio sogno era quello di collaborare con una grande artista come Mama Marjas.
Ho notato con piacere che non utilizzi l’auto-tune. E’ una scelta casuale o causale?Diciamo che semplicemente non è nel mio stile. Non lo condanno ma non è il mio.
Vuoi parlarci dei tuoi compagni di viaggio?
Il primo compagno è mio marito, un produttore cinematografico che però ha sempre avuto collaborazioni professionali nella musica. Il nostro sodalizio si è intensificato quando abbiamo realizzato due spettacoli in teatro con Fabrizio Bosso nel 2020. Il suo sostegno per questo disco è stato fondamentale. Poi accanto a me, come ti dicevo, ho due fratelli, Aris Volpe e Giuseppe Pignatelli, che sceglierei ogni giorno della mia vita come compagni musicali, perché sono in grado di mettersi in discussione, sono disposti a ribaltare le regole armoniche, amano giocare con il ritmo dandogli una connotazione semantica in base al testo. Prima di lavorare su un brano loro vogliono sapere di cosa parla quella canzone o, in mancanza del testo, cosa mi passa per la mente quando scrivo quella melodia. Credo che il segreto della nostra collaborazione e della nostra amicizia sia la leggerezza, la sincerità e la voglia di sperimentare senza porci paletti.
Marco Falcon, mio vecchio compagno di corso in conservatorio, polistrumentista e producer eclettico, è stata una presenza decisiva sicuramente per l’arrangiamento dei brani Mediterraneo e Do you Remember my Name?.
Infine, Pasquale Strizzi, che non ha bisogno di presentazioni; è la sua storia ed il modo in cui suona che parlano per lui: è quello che ha posto correttamente gli argini perché si scorresse nella direzione giusta, e lo ha fatto sempre con rispetto ed entusiasmo. Ecco, l’entusiasmo credo che sia un modo fondamentale per far amare agli altri le proprie opere, e secondo me questo si percepisce.
Come nasce la collaborazione con Mama Marjas?
Ho chiesto il suo numero ad un amico in comune, Manuel della Krikka Reggae. Ho sempre pensato a lei quando ho scritto quei due brani ma mi sono sempre imbarazzata poi nel chiederglielo. Benché non si direbbe, sono una timidona…
L’ho contattata inizialmente solo per un brano Do you Remember my Name?, ma durante la nostra telefonata, raccontandoci un po’ le nostre vite, ho capito che dovevo farle ascoltare anche Mediterraneo che è un manifesto di amore verso la nostra terra. Ed ecco qui ricomparire l’entusiasmo, questa volta il suo dopo aver ascoltato le tracce. Mi ha scritto che di getto aveva buttato sul foglio la sua parte al primo ascolto. Credo che da questa collaborazione possa nascere una bellissima amicizia perché è strano ma incredibile vedere come due persone che non si sono mai conosciute e che vivono a km di distanza, provino le stesse emozioni e le stesse paure.
Di cosa parla «Cummei»?
Dunque, questo disco va ascoltato come un audiolibro, ogni canzone è un capitolo del racconto, un racconto che parla della storia di una persona qualunque che vivendo delle difficoltà decide di ricercare un cambiamento e di cominciare così il suo viaggio, la sua emigrazione. Che la protagonista sia una donna che dal Sud Italia attraversa la penisola alla ricerca di se stessa, o che sia un ragazzo di vent’anni che attraversa un continente verso una nuova vita, poco importa perché ognuno può ritrovare un po’ di se stesso in questa storia. Il/la protagonista racconta in ciascuna canzone ogni tappa del suo viaggio, dalla causa che muove la decisione di partire, alla difficoltà del viaggio, passando per la scoperta di diversi modi di esistere, la frenesia del mondo contemporaneo, la nostalgia di casa sino al raggiungimento della consapevolezza di se stessi. Per ora.
La circostanza che buona parte dei tuoi testi siano in lingua italiana ti penalizza dal punto di vista della visibilità internazionale?
Ho fatto pace con la mia lingua e le mie radici con questo disco. Nel mio primo acerbo album del 2016, «Spleenless», cantavo in italiano e dialetto, ma non ero totalmente io come compositrice, non ne ero totalmente consapevole. Nel mio secondo disco, «Generation», volevo evadere, ero ribelle e puntavo all’estero e così, anche se presente, la lingua italiana è stata penalizzata dando più spazio all’inglese.
In «Cummei» voglio parlare forte e chiaro, voglio che il messaggio arrivi netto, e lo faccio usando tutto quello che ho a disposizione: l’italiano, l’inglese e il dialetto. La lingua è al servizio del significato e non viceversa.
Ho studiato Lettere all’università, amo il padre del volgare e le immagini poetiche che la nostra lingua può donare. Non so se questo possa penalizzare la fruibilità della mia musica all’estero, però mi piace pensare che ci sia qualcuno nel mondo che cercherà il testo su internet delle mie canzoni per farne la traduzione e capirne il significato.
Singolare la tua scelta di titolare i brani in inglese, ma la maggior parte del testo è in italiano. Perché questa scelta?
In effetti, tolti Sublimazione, Mediterraneo e P.S. i titoli in inglese rappresentano la maggioranza. Potrei dirti che è una scelta dettata dalla volontà di dare una parvenza internazionale al disco, oppure che il mio inconscio spingeva ancora verso una ricerca di approvazione, o probabilmente un po’ di paura, ma come prima risposta ti direi semplicemente che è capitato. In fondo, il titolo racchiude il messaggio di tutto il brano ed in queste frasi ho trovato il giusto compromesso.
Parliamo un po’ di te. Qual è il tuo background culturale e artistico?
Arrossisco, di solito preferisco sia la musica a parlare. Ma siamo in tantissimi a fare questo mestiere, anche se non riempiamo i palazzetti o non vendiamo milioni di copie, eppure esistiamo anche noi e siamo la maggioranza. Siamo persone che crescono con l’obiettivo di fare della musica il proprio lavoro e con tanti sacrifici, momenti di up e momenti di down, aspettative delle volte appagate e delle volte no, si raddrizza il tiro e si va avanti, aggiungendo ogni giorno un mattoncino nuovo alla carriera di questo meraviglioso lavoro.
Io appartengo a quel gruppo di persone definite “figli d’arte”: mio padre è un cantautore ed attore, ma io avevo deciso che avrei voluto fare l’insegnante di Lettere e filosofia. In questo caso, però, la mela è caduta vicino all’albero e dopo giri immensi ho ripreso la mia strada, così sono tornata a studiare jazz in conservatorio, forse solo per autorizzarmi a proseguire su questa via. L’orchestra è il mio palco preferito, ma è stato bello anche calcare il palco di casa Sanremo con una più piccola formazione o fare l’autrice per altri. Di certo le esperienze internazionali come il World Music Expo a Santiago de Compostela o la tournée europea fatta nel 2019 mi hanno molto arricchita, ma il momento più alto della mia carriera sino ad oggi è sicuramente lo spettacolo al fianco di Fabrizio Bosso, una persona davvero speciale: sentirlo suonare sulle mie canzoni è stata un’esperienza davvero appagante.

Qual è il tuo rapporto con la musica soul?
A tre anni canticchiavo Natural Woman inventandomi le parole, ad otto I Will Always Love You e a dodici Apple Tree. A casa mi hanno nutrita di musica italiana ed internazionale ma la mia indole mi ha portata ad amare principalmente la musica jazz e soul. Ho adorato delle grandi donne che facevano della musica il loro manifesto nella società: da Billie Holiday e Nina Simone a Erykah Badu, Lauryn Hill, Nai Palm ed Esperanza Spalding. Non a caso, tutte donne che hanno condotto le loro battaglie attraverso la musica e la loro splendida voce. Da queste muse ispiratrici è nato e cresciuto in me il desiderio di portare il mio di messaggio, in una forma medesima. Di certo, è una cosa che viene fuori naturalmente, che nasce da un seme ancestrale. È il genere che mi fa sentire libera e allo stesso tempo a casa.
E qual è il tuo rapporto con il tuo territorio?
È stato un rapporto complesso a tratti. Fino a qualche anno fa, ho lottato con me stessa per restare a casa, non muovermi da qui e contrastare la fuga dei cervelli. Quando fai musica sei portata a viaggiare spesso, ma la casa base è dove costruisci di più, così ho deciso di fuggire e ricostruire la mia vita altrove, ed è proprio quando ti allontani che ti rendi veramente conto di quanto splenda forte la terra dalla quale provieni. È questo il racconto del mio disco in realtà. Contemporaneamente credo di avere la fortuna di essere nata in una terra meravigliosa, terra di molti artisti, tradizioni spettacolari, colori splendenti e profumi inebrianti, una terra di persone pronte ad aprire la porta e donare ospitalità, persone che sanno cos’è il sacrificio e sanno apprezzare quello che hanno, in primis la famiglia.

Hai mai pensato di trasferirti altrove?
Per l’appunto oggi vivo a Milano da sei anni, ormai, ma torno spesso a casa a Brindisi: mi manca il mare, non si può vivere troppo a lungo lontano dal mare. Mi piacerebbe poter fare un’altra esperienza in città come Barcellona o Parigi o tornare in Senegal e rimanerci per un periodo un po’ più lungo di quello che ho vissuto; in fondo, siamo cittadini del mondo; ma non nego che dentro di me so già che prima o poi tornerò a casa, in Puglia.
Sai che hai una “concorrente” quantomeno nel nome: una cantante milanese che anche lei si chiama Alea (Alessandra Desdra)? Tale fatto non ti crea problemi?
Ho scelto il mio nome d’arte con mia sorella tantissimi anni fa e non esisteva nessuna Alea. Ormai anche i miei genitori e le mie migliori amiche non mi chiamano più Alessandra da anni ma Alea, non posso più cambiarlo. Pazienza. Per ora nessun problema se non un paio di volte l’essere stata taggata in un post social che non mi riguardava.
Quali sono i tuoi obiettivi e quali i tuoi prossimi impegni?
Il prossimo obiettivo è suonare tanto live questo disco, raccontarlo, fare quel tipo di attivismo tra la gente, nelle piazze, parlare e cantare alle persone guardandole negli occhi. Voglio vivere di nuovo quel momento meraviglioso, che dura pochissimi secondi di silenzio, che separa la chiusura di un brano dall’applauso che parte. Quel secondo di silenzio ti dice tutto, quel silenzio in realtà è il suono di tante anime che si sono sollevate e sono ancora abbracciati a quella musica.
Nel frattempo, sto già scrivendo il prossimo disco, ma di questo ne parliamo un’altra volta…Per ora voglio solo invitarvi ad ascoltare «Cummei».
Alceste Ayroldi