Roma, Casa del Jazz
17 luglio 2023
In una serata a dir poco torrida, Dave Holland, Maestro indiscusso del contrabbasso e parte niente affatto secondaria della Storia del Jazz, presenta il proprio nuovo quartetto, composto da Jaleel Shaw al contralto, Kris Davis al pianoforte e Nasheet Waits alla batteria. Si tratta di un gruppo del tutto nuovo, che dimostra appieno l’attitudine inesausta del musicista inglese a non riposare mai sugli allori: e forse questo è anche il segreto che può spiegare la sua apparentemente eterna giovinezza, che lo vede ancora oggi in una forma fisica a dir poco smagliante e in condizioni di freschezza strumentale stupefacente, evidentemente frutto di un esercizio di studio e pratica continui e mai trascurati.

Anche l’assemblaggio del gruppo, per le individualità che il leader ha inteso accostare, suscitava una certa curiosità, per la diversità dei caratteri e delle attitudini: la Davis è pianista principalmente vocata all’improvvisazione, sebbene di formazione (udibilmente) classica e formatasi al jazz con riferimenti altrettanto «classici» (Hancock, Jarrett), con una carriera ricchissima di collaborazioni e anche titolare della benemerita etichetta discografica indipendente Pyroclastic Records. Shaw è un contraltista (e sopranista, ma non in questa occasione) grandemente virtuoso, dalla carriera personale iniziatasi sotto i migliori auspici, ma poi, probabilmente, rimasta sottostimata, per ragioni che ignoriamo. Waits, infine, è un batterista semplicemente universale e perfetto, per le sue capacità strumentali e l’incredibile versatilità. In realtà il concerto ha dimostrato praticamente ciò che si poteva intuire: la sintesi tra le diverse personalità è garantita da una leadership tanto gentilmente esercitata, quanto ferrea negli effetti pratici, che il buon Holland, evidentemente non dimentico della lezione appresa da Miles Davis, ha cura di non perdere mai di vista.
Ma il segreto non è soltanto in questa evidente centralità del contrabbassista in ogni spunto e movenza del quartetto, ma nella sua assoluta capacità di intersecarsi con tutti i possibili piani della performance: le angolosità improvvisate e i cluster cari alla Davis; gli spunti elettrici, che la stessa asseconda passando dallo strumento acustico a quello elettrico; la generosa spettacolarità – del resto da Holland mai rinnegata in carriera, né sottratta alle giuste aspettative del pubblico – che lo porta a concedere amplissimi spazi di visibilità a Shaw, riservandone altrettanti a sé e agli altri; la consapevolezza della necessità di una ritmica solida, che lo porta a ricorrere a un «motore» raffinato e potente come quello di Waits raddoppiandolo ogni volta che serva.

La temperie prevalente, dunque, è quella di un evoluto post bop che riporta a certi suoi fasti autoriali degli anni Ottanta, ma venato di più di qualche inquietudine (elettrica o astratta), sempre pronto a ripartire attraverso lo sfoggio performativo, mai eccedente il gusto, né l’opportuna misura (Shaw, talvolta, si è fermato giusto al limite). Il concerto è stato quindi generoso e senza risparmio, presentando non molti brani, ma di durata piuttosto estesa, per un tempo complessivo di due ore tonde. Tra essi ricordiamo Triple Dance, A New Day, Between Nothingness And Infinity (di Waits, pezzo invero di assorta bellezza), Bring Back Home offerto come bis.

Un grande concerto, che porta a concludere che dinanzi ad Artisti che sanno rimanere così vitali, null’altro si possa fare che togliersi il cappello ed ascoltare.
Sandro Cerini