La voce dello Standards Trio tacerà per sempre, ora che purtroppo Gary Peacock non fa più parte del mondo e di quel «corpo mistico» costituitosi per la prima volta nel 1977, sotto coordinate estetiche apparente-mente diverse rispetto a quelle che poi saranno destinate a costruirne la storia (il disco, a nome del contrabbassista è «Tales Of Another» e l’etichetta, ovvia-mente, ECM). Nulla di nuovo, quanto ai nudi fatti, se si considera che l’ultimo concerto del gruppo risaliva al 30 novembre del 2014 (presso l’amato New Jersey Performing Arts Center di Newark) e che Jarrett aveva già dichiarato, nel 2015: «Non ho un trio adesso, quindi. So soltanto che non cercherò altri partner, coi quali avrei bisogno di trent’anni per diventare bravi come eravamo noi, questo è il problema più grande di tutti. Credo che il rapporto e la comprensione che abbiamo avuto noi non abbiano eguali, ovunque» [1]. Forse però contribuisce a gettare una luce crepuscolare sul piano del reale la doppia ondata emotiva generatasi in stretta successione con la morte di Peacock, per l’intervista rilasciata dal pianista a Nate Chinen, che ha confermato tutti i peggiori dubbi sul suo stato di salute, facendogli affermare: «I don’t feel right now like I’m a pianist» [2], ed è difficile scrivere di nuovo di lui – per quello che altrimenti sarebbe potuto essere anche un «tranquillo» modo di celebrare i suoi settantacinque anni – facendo argine all’emozione. Ma l’intera vicenda artistica di Jarrett, da sempre, sembra essere stata forgiata nel fuoco vivo di un’emozione, o di un’aperta polemica, in qualche modo così spesso sviata dal pregiudizio, che ne ha portato talora visioni sfuocate od offuscate, per eccesso o per difetto. È così è anche per la più famosa e longeva delle sue formazioni (anche se in misura minore che per la sua attività di solista). Ciò avviene anche perché è certamente impossibile esaminare la storia dello Standards Trio senza (tentare di) ricollocare l’intera esperienza autoriale del pianista di Allentown, nel suo complesso e anche rispetto alla «casa madre» bavarese.Si ritorna intanto a quello snodo tra gli anni Sessanta e il decennio successivo nel quale il discreto successo – tanto buono almeno quanto insperato – di «Free At Last», di Mal Waldron [3], spinse Manfred Eicher a proporsi epistolarmente a molti artisti, tra cui Jarrett, il quale finirà per incidere «Facing You» il 10 novembre del 1971, durante il tour con Miles Davis, presso l’Arne Bendiksen Studio di Oslo (poi Rainbow Studio). Da lì si concretizzerà una storia nuova, attraverso due passaggi: il primo, di natura per così dire «manageriale», legato a una drastica riorganizzazione interna della Columbia Records, che a causa di un grosso scandalo finanziario in cui si era trovato coinvolto il suo presidente Clive Davis non aveva rinnovato svariati contratti discografici, tra cui quello di Jarrett (dopo aver dato alle stampe il pur eccellente «Expectations», registrato ad aprile del 1972 e pubblicato nell’ottobre dello stesso anno), tanto che il pianista finì per cedere alle insistenze di Eicher, tornato alla carica con una nuova lettera, sotto promessa di carta bianca. Il secondo, destinato a maturare nella metà del decennio, prenderà corpo nel feticcio totemico ed epocale che sarà «The Köln Concert»(registra-to il 24 gennaio 1975 e dato alle stampe il 30 novembre dello stesso anno), destinato a segnare per sempre la fama di Jarrett e dell’etichetta e anche a strutturare in una direzione precisa la carriera del pianista, ma anche a consegnarne il corpo al pubblico [4]. Va peraltro anche ricordato che nel 1973 venne pubblicato da ECM l’album in duo con Jack De Johnette «Ruta And Daitya», che era stato registrato tra fine aprile e i primi di maggio del 1971 durante un tour californiano del gruppo di Miles Davis, ma che fu in qualche modo assorbito nel catalogo della casa discografica dopo il successo di «Facing You» e per non perdere l’occasione[5]. Quanto si va dicendo permette di cogliere come il rapporto fra i tre fosse in verità predestinato, articolandosi su tre assi: quello che già raccordava Jarrett e De Johnette, la cui frequentazione si era rodata nel quartetto di Charles Lloyd e nei gruppi di Miles Davis, quello invece esistente tra Peacock ed Eicher (attraverso Paul Bley), infine quello infieritra il pianista e il produttore tedesco. Rimane invece una suggestione piuttosto estrinseca, che pure la critica negli anni iniziali ha voluto sottolineare ed è poi divenuta in una certa misura pigramente tra la tizia, quella che ravvede il legame fra i tre nella circostanza che il contrabbassista e il batterista avessero già militato entrambi, in momenti diversi, nel trio di Bill Evans [6]. Ma sul punto si tornerà breve-mente più oltre. Non secondario invece appare il fatto di considerare quanto Jarrett sia stato sempre particolarmente esigente in fatto di partnership, condividendo il proprio percorso con un numero davvero limitato di abituali sodali confacenti alla propria ed esclusiva «lone self-expression» (per usare le sue stesse parole), nella quale del resto i non pochi detrattori hanno sempre ravvisato la ben lumeggiata conferma di una(ritenuta) personalità egotista.

Tornando in argomento, non può dunque stupire, se dopo la stipulazione del contratto di esclusiva con ECM Eicher avesse proposto al pianista, vedendo tuttavia respinta la propria idea, di formare un trio proprio con Gary Peacock e Jack De Johnette, quello stesso trio che sarà poi destinato a registrare, sotto la leadership del contrabbassista, il già menzionato«Tales Of Another»(l’altra proposta del produttore, negli scambi epistolari, avrebbe riguardato la formazione di un quartetto con due contrabbassi, che avrebbe visto la presenza dello stesso Peacock e di Chick Corea (che lo ha riferito). Da questa non subìta imposizione potremmo trarre già alcune prime sommarie conclusioni circa la ferrea determinazione del pianista riguardo al proprio progetto, dal quale egli mostrerà di non deflettere mai, ma anche una diversa valutazione, francamente ispirata alla sua abilità nel costruire una personale mitopoiesi e in qualche modo legata anche a un discorso di fama e di successo economico, se è vero, come è vero, che nel periodo 1970-74 il suo manager era George Avakian, che lo era già stato di Charles Lloyd, nel cui quartetto il giovane pianista come già detto aveva militato, affermandosi. Orbene, è dato per assodato che Avakian, con grande abilità, seppe costruire la carriera di Lloyd, se non dal nulla almeno applicandole un vertiginoso effetto moltiplicatore, che sfruttava abilmente le tournée oltre oceano del gruppo e la fama conseguita presso il pubblico europeo

Carr e Shipton ricordano le dure critiche mosse al musicista da Conrad Silvert, Don Heckman, Richard Williams, Gary Giddins. Peraltro Heckman (che era anche musicista: l’unico tra i citati), rispetto allo Standards Trio si espresse successivamente in termini lusinghieri, sottolineando come il gruppo avesse portato il formato verso una nuova dimensione (giudizio reso, in particolare, dopo la pubblicazione dell’album «Inside Out»), mentre Williams, subito dopo la pubblicazione dell’intervista nella quale Jarrett ha pubblicamente reso noti gli esiti invalidanti della propria malattia, ha recuperato sul proprio blog un articolo che riassumeva alcuni dei passaggi salienti di una propria vecchissima intervista al pianista, risalente ai tempi del concerto all’isola di Wight con il gruppo di Davis, ricordando che «his words captured the thoughts of a man who was clearly ambitious but at that stage had no idea of what would begin happening to him a couple of years later» [14]. Più in generale, va detto che la critica anglofona, pur non risparmiando talora severe censure, non si è sottratta nel riconoscere la ricchezza umana e musicale e gli ampi spunti positivi, nella persino ovvia (ma non sempre da tutti sviluppata) considerazione che la sovra esposizione a cui il pianista si è sempre sottoposto ha agito di sicuro anche con un effetto telescopico sui suoi difetti. Ma egli egualmente non vi si è sottratto.
Rimane comunque singolare che possa esser stata tramandata la figura di un musicista elitario e narcisista, sfuggente o scostante di fronte agli intervistatori (riguardo a ciò che egli ha sempre preteso dagli organizzatori e dal pubblico, in occasione dei concerti, il discorso è diverso, ma largamente comprensibile). A far giustizia di questa sciatta(o peggio ancora pre-giudicata) «tradizione», basti considerare la messe rilevantissima di interviste disponibili e la loro capacità di «parlare» al lettore: in esse Jarrett si rivela ben più che facondo, a volte fluviale, dimostrando la propria enorme capacità di «raccontarsi», avidamente, entro un percorso narrativo affabulatorio arguto e di grande fascino, certo fortemente consapevole (talvolta sino al punto di far sembrare rovesciati i ruoli) ma anche di indiscutibile e granitica coerenza. Egli, come già si diceva, ha agito consapevolmente la propria mitopoiesi, in questo incontrando (o scegliendo consapevolmente) il progetto ECM. Non è secondario rammentare al riguardo che l’etichetta ha pubblicato anche un suo disco-intervista (seppure promozionale): «Interview: Keith Jarrett. Conducted by Timothy Hill»del 1994. Del suo atteggiamento di apertura e franchezza (sicuramente non passivo, ma anzi sempre orientato a prescegliere l’affinità e la capacità di ascoltare – o forse è più corretto dire di assorbire– dell’interlocutore) può costituire un esempio la bella intervista rilasciata per queste pagine a Gianni Morelenbaum Gualberto nel 2015, in occasione del settantesimo compleanno [15].
Da questo quadro emerge una realtà molto precisa: il percorso autoriale del pianista è sempre stato monolitico, una sorta di arco tracciato con un compasso, del quale, definita l’apertura, la circonferenza segue. Perciò il discorso-Jarrett comprende tutte le sue espressioni ma, in questo, il ritorno all’esperienza del solo è sempre una sorta di ritorno all’essenza, che può approssimare al «tutto». Il che non significa negare la disponibilità di Jarrett a fare musica insieme agli altri [16]: anzi, come si dirà, proprio questo momento di consapevolezza lo (ri)porterà verso il trio. Nella biografia di Ian Carr esiste un passaggio in cui, come proemio al capitolo dedicato aL’orso «sun» (nel quale si racconta la storia di«Sun Bear Concerts», raccolta ciclopica di dieci dischi in solo, tratti da una tournée in Giappone del 1976, edita nel 1978), viene riportato un significativo passaggio che illustra molto bene l’atteggiamento strenuo a cui Jarrett ha ispirato molta parte della propria vita. Nel ricordare come uno dei suoi quattro fratelli ne lodasse la carriera, le doti, gli onori parlando con la propria fidanzata, il pianista conclude, a mo’ di rimprovero: «Ma tralasciò quella parte e norme della mia vita che è stata la lotta!». Lotta che per inciso Jarrett ha sempre pagato «in proprio», a prezzo di pesanti costi personali.

Tornando al trio, si è già accennato a come la prima registrazione di Jarrett con Peacock e De Johnette sia del 1977, «Tales Of Another», disco nel quale la titolarità è formalmente del contrabbassista ma che in buona sostanza nasceva da un’idea del produttore, il quale fin dalla prima delle lettere che ebbe a scrivere al pianista, per convincerlo a entrare a far parte degli artisti dell’etichetta, aveva insistito per la formazione di un duo con Peacock, o di un trio con Peacock e De Johnette oppure, come si diceva, di un quartetto meno usuale, con due pianoforti (l’altro sarebbe stato Corea) e due contrabbassi (con Peacock sempre della partita). È infatti da osservare come Peacock rappresentasse un’altra delle magnifiche ossessioni eicheriane e si trovasse in quel periodo in una posizione piuttosto «ritirata», avendo di fatto abbandonato del tutto la musica alla fine degli anni Sessanta, anche per ragioni di salute o comunque personali. Il ritorno sulle scene fu cosa degli anni Settanta (dopo il rientro negli Stati Uniti, avvenuto nel 1972), in occasione di una tournée con Paul Bley in Giappone. L’occasione di un nuovo tour in Europa rappresentò il momento di contatto con Eicher. Ciò lascia intendere quale ampia potesse essere la reale importanza dell’album che il gruppo registrò nel 1977 (e che ad ogni buon conto non è il primo di Peacock co-me leader, spettando invece tale primogenitura a«Eastward») [17]. Il disco tuttavia non ebbe un seguito. Nel 1978 Jarrett declinò un invito di Peacock a fare concerti assieme: non era evidentemente ancora tempo che il progetto sbocciasse, poiché il pianista era intento e devoto ad altro.

Nella febbrile vita personale e artistica di Jarrett, in quegli anni frenetici, sembrava davvero non esserci posto per molto altro che il solo pianoforte. Il successo era davvero arrivato in misura in gente e Carr ricorda come nel 1978 i compensi di Jarrett avessero raggiunto la più che ragguardevole cifra di quindicimila dollari «per un concerto di circa novanta minuti», segno tangibile di un artista divenuto importante [18]. La sensazione è che questa importanza fosse ben chiara al pianista, che dal canto suo ne nutriva un profondo convincimento da sempre (si è già ricordata l’intervista del 1969 che Jarrett impose a Williams, recandosi direttamente e senza preavviso presso la redazione di Melody Maker).Questo argomento ha anche a che fare con il giudizio negativo che la critica ha spesso espresso su di lui, talora basato su considerazioni di natura personale, oppure sulla valutazione pregiudizialmente negativa della raggiunta fama (intesa come diminutivo «commerciale» dell’arte), e in qualche modo anticipa il tema della formazione del trio, riguardando molto da vicino le reazioni del pubblico alla sua musica e la «funzione» da lui desiderata per questo pubblico (naturalmente questo approccio ha avuto anche a che fare, profondamente, con la visione di Jarrett della musica e dello strumento, insieme così corporale e mistico: per quanto l’argomento del «Jarrett mistico» richiederebbe una trattazione a sé stante) [19]. Nell’articolo-intervista di Collier, Jarrett, davvero agli inizi della propria carriera, getta una luce molto interessante sul suo «metodo», dimostrando di possedere già una chiara e invidiabile visione d’insieme, accennando ad alcuni temi estetici poi destinati a riapparire con assoluta coerenza nelle interviste successive e dimostrando una forte consapevolezza del suo modo di essere e dell’impatto sul pubblico [20]. Per dirla con le parole di Ian Carr: «È questa conoscenza che Jarrett ha di sé stesso e del processo inerente al suonare che gli ha reso possibile raggiungere questo stato di grazia con una tale costanza e di comunicarlo al pubblico» [21].
Nella talora sommaria valutazione dell’atteggiamento estetico tenuto di vista dallo Standards Trio, per il fatto di essere una formazione che ha predicato (e operato) un«ritorno alle forme» (e anzi alle piccole forme) e per il chiaro pre sceglimento della«forma chorus» (si veda quanto ne ha scritto Riccardo Facchi [22]) come mezzo strutturale, esiste un sotto testo valutativo di tipo fortemente critico (per quanto talvolta abilmente dissimulato): quello secondo il quale la scelta del repertorio degli standard da parte dell’artista (e ovviamente la considerazione si estende in qualche modo anche ai suoi partner), sarebbe stata un sorta di forma di disimpegno o piuttosto una deriva di carattere commerciale. Del resto si è già detto come una parte della stampa si fosse di mostrata fortemente reattiva al raggiungimento del successo da parte del pianista. Questa conclusione, soggiacente in molti discorsi critici, risulta ingiusta e fuori bersaglio: intanto la maggiore popolarità per Jarrett, anche per quanto riguardava gli aspetti pecuniari, era giunta senza dubbio dalle esibizioni solistiche (che quantitativamente rappresentarono una buona parte della sua enorme produzione del periodo, riguardo a dischi e concerti). Inoltre non c’è dubbio che tale produzione solistica rappresentasse una precisa scelta autoriale e un grande cimento, volontariamente assunto, del quale il pianista in qualche modo finirà per pagare i costi ma che, nel momento in cui fu compiuta, era di fatto assorbente, come dimostravano l’originario rifiuto del progetto del trio proposto da Eicher e il successivo, analogo diniego opposto a Peacock immediatamente dopo la registrazione di«Tales Of Another». Ma al di là di questo discorso, che valorizza l’aspetto più propriamente artistico, va sottolineato come in questo tornante della sua vita Jarrett si trovò a raggiungere sì la vetta della notorietà(e inoltre: una nuova condizione familiare, per effetto del divorzio da Margot Erney e del nuovo rapporto con Rose Anne Colavito e un nuovo assetto «casalingo» con l’acquisto di una proprietà attigua alla propria casa, che in astratto sarebbe dovuta servire per attività di docenza e di workshop), ma anche subito dopo a misurarsi con una grande difficoltà: a metà del 1982, infatti, si rese conto di una condizione di profondo dissesto finanziario che lo riguardava. Una cattiva gestione del proprio patrimonio lo lasciò gravato di debiti, sia nei confronti di privati sia nei confronti del fisco, proprio nel momento in cui egli si era esposto economicamente per effetto del nuovo acquisto immobiliare (con il quale, come detto, vagheggiava di realizzare una «scuola», ma in cui poi sistemerà uno studio di registrazione, insieme ai pianoforti). Questa condizione di imprevista grave emergenza lo costrinse a intensificare la redditizia attività concertistica in solo, e in misura maggiore, poiché nel frattempo il proprio cachetsi era ridotto (infatti Jarrett iniziò a misurarsi con una certa disaffezione del proprio pubblico, dopo il climax di notorietà raggiunto) [23]. Il numero di concerti solistici del 1983 fu davvero impressionante, superando la cadenza di uno a settimana fino a raggiungere un totale di cinquantatré (distribuiti su otto mesi di tournée) [24]. Riferire della sovraesposizione di Jarrett nell’attività concertistica rappresenta uno snodo fondamentale, non soltanto perché contribuisce a spiegare le ragioni della sua successiva condizione determinatasi per effetto della sindrome da affaticamento cronico che lo terrà a lungo lontano dalle scene, ma perché rende molto chiaro il processo, che poi lui stesso illustrerà con estrema nettezza in diverse interviste, che lo riporterà verso le forme, la struttura degli standard, il Great American Song book. Si trattò in buona sostanza di una presa di contatto diretta con gli istinti del pubblico, con i meccanismi che creano la stare che, in qualche modo, la espropriano del proprio processo creativo [25]. Un forte momento di rottura si ebbe in occasione di un tour in Francia, di quell’anno così faticoso. La sensazione generale riportata dal pianista fu quella di una tournée mal gestita, in un gravoso periodo estivo, con un grande richiamo di pubblico, ma locations inadeguate. L’episodio culminante, a segnare una crisi, si verificò in occasione di un concerto nei pressi di Parigi, nel quale l’artista ebbe una sorta di rivelazione, invero piuttosto traumatica, del crudo potere della folla nei confronti della star. Infatti, in occasione di uno dei concerti suddetti, di fonte a un pubblico soverchiante che invocava dei bis, Jarrett si trovò nella condizione di concederne uno, ma, in una situazione che doveva assomigliare a una bolgia dantesca, rifiutarne un secondo, trovandosi di fatto assediato in camerino dalla folla che lo reclamava, rumoreggiando. L’episodio è stato riferito da Rose Anne Colavito a Ian Carr: «Egli […] stava soltanto cercando di concentrarsi per iniziare […] sedette aspettando in silenzio […] e fu allora che il pubblico iniziò a urlare: “Suona. Devi suonare e basta! Altrimenti perché siamo venuti qui?” […] gli lanciarono anche alcune sigarette e lui stava per dire qualcosa quando qualcuno, dalle gradinate, gettò qualcosa dal palcoscenico. […] Ci fu anche una donna che rotolò giù da quelle gradinate. Dopo la seconda metà del concerto, [Keith] tornò sul palcoscenico e quella fu la fine. Non c’era proprio altro che avrebbe potuto fare per queste persone. Ritornò nuovamente nel camerino e fu allora che iniziò quella specie di tumulto, una situazione quasi da rivolta, con tutto quel gridare e urlare… “Ancora, ancora, ancora!”. Stavano tutti martellando di colpi il nostro camerino che era posto sotto il palcoscenico – li potevamo sentire proprio sopra di noi, che saltavano sul pavimento. Sembrava non avessero alcuna intenzione di smettere, e fu allora che il nostro tour manager, Thomas Stöwsand, venne giù e ridendo disse a Keith: “Devono essere diventati tutti matti, là sopra, forse è meglio che torni su e suoni”. Keith lo guardò incredulo, e rispose: “No, questa è la fine!”. Dovemmo chiedere nuovamente la nostra macchina.Uscimmo per raggiungerla ma alcune persone che nel frattempo avevano lasciato la sala cercarono letteralmente di rovesciare l’automobile! C’era gente ovunque, sul tetto, sul cofano e altri ancora che cercavano di rovesciarci. Erano così furiosi con Keith perché aveva osato non inchinarsi alla volontà generale. Credo non abbiano ascoltato neppure una sola nota di ciò che aveva suonato quella sera» [26]

Subire questo genere di condizionamenti determinò in qualche mo-do una riflessione del pianista sull’opportunità di offrirsi ancora in maniera così impegnativa, verosimilmente accelerando i tempi di un sentire che si faceva già largo. Non soltanto si poneva il problema di suonare come e cosa, ma anche per chi. L’esperienza parigina (al di là del dubbio che essa possa esser stata vissuta putativamente come un atto di violenza subìto, anche per accelerare un processo inconscio), certamente imponeva una presa d’atto quanto alla ricettività di quel pubblico, in qualche modo polarizzato e isterizzato dal successo del concerto di Colonia, divenuto un feticcio. Ciò per una dimensione di tipo artistico, certo, ma anche in relazione allo sforzo fisico ed emotivo che la performance solitaria richiedeva al proprio autore, sotto il profilo fisico e mentale. In più, vi era an-che una ricaduta sulla musica, su quello che veniva meno rispetto al suonare insieme, argomento, questo, che era già stato espressamente affrontato da Jarrett nell’intervista a James Lincoln Collier. Resta il fatto che la cronologia delle attività di Jarrett ci racconta, oggi, che egli si sarebbe poi astenuto da concerti solitari per un lungo periodo, dal1984 e sino al 1987. Ma gli standards si affacciarono di nuovo nella carriera del pianista nel 1983. Di certo non erano un argomento a lui ignoto, anzi. Sia per il fatto di averli lungamente praticati nelle fasi iniziali della carriera, negli anni Sessanta, come pianista di sala, sia perché la lunga serie di esibizioni solitarie sino a quel momento, lo aveva visto fare ricorso a uno o più pezzi del Great American Songbook nei bis (abitudine che del resto il pianista ha mantenuto sempre, sino all’ultimo concerto del 2017, distillando in questi brevi spunti alcune delle pagine più coinvolgenti della propria carriera). L’idea del «ritorno alle forme» fu senz’altro del pianista, che in questo modo realizzava una sorta di sintesi delle proprie sensazioni e pulsioni riguardo alla musica, stemperando in qualche modo la delusione del rapporto con il grande pubblico e, insieme, mettendo a punto una sorta di dimensione di terzietà. Assai perspicuamente Franco Fayenz ha parlato, a questo riguardo, di un «bisogno di auto espropriazione», quasi come se l’artista, avvedutosi del rischio incombente di una espropriazione ad opera del pubblico, subìta come un agito del tutto indifferente alla musica, avesse deciso di anticipare il processo, tornando verso la musica, e lo avesse fatto nel modo più deciso, scegliendo«di porsi, anche, con umiltà al servizio della musica altrui», celebrando inoltre il ritorno alla tradizione, vissuto in maniera fortemente personale [27]. Questo è un passaggio motivazionale di importanza cruciale, che Jarrett ha messo chiaramente a fuoco nell’intervista ad Art Lange, per molti versi fondamentale [28]. La questione che Jarrett lascia abilmente emergere riguarda il rapporto con la musica e con il pubblico e la profonda relazione, per cosi dire «triadica», nel rapporto artista-musica-pubblico che attiene strettamente al possesso o all’estraneità (o terzietà) reciproca degli elementi di questa relazione e che Ian Carr coglie bene in un passaggio molto incisivo del suo volume:«[…] Jarrett […] aveva riflettuto molto sull’intero progetto […] per diversi anni aveva avuto la sensazione, anche mentre improvvisava, che la musica fosse di altri, sentiva che non era musica sua e non desiderava neppure che lo fosse» [29]. Sicuro è che la decisione fu concordata con Eicher, ma d’altro canto non sarebbe stato possibile il contrario, atteso anche il precedente ben noto e sopra riferito che aveva fatto partire la genesi di quel gruppo proprio da una idea nativa del produttore (per quanto destinata a germinare dieci anni dopo), originariamente rifiutata.

Ma sia Jarrett sia Eicher sono sempre stati molto abili a raccontarsi, in una sorta di lascito a futura memoria, e in questa sorta di gioco con gli altri rientra anche il racconto circa l’accurata preparazione interna del progetto, almeno nel suo primo esito produttivo, la seduta di registrazione del gennaio del 1983 dalla quale origineranno gli album «Standards, Vol. 1»,«Standards, Vol. 1»e «Changes», editi nel biennio 1983-1985 e poi di nuovo riuniti nel 2008 nel cofanetto«Setting Standards. New York Sessions»(soprattutto interessante per il fatto di comprendere nel libretto il breve saggio«The Art Of Metamorphosis», di Peter Rüedi). Sicché tradizionalmente si riferisce dell’incontro conviviale trai quattro che servì a varare il progetto, presso un ristorante indiano di New York [30]. E nella già citata intervista rilasciata a Breskin, Jarrett, oltre a confermare il passaggio della cena, sottolinea i legami con Peacock e DeJohnette, ritornando anche sul discorso della tradizione, della pratica di un «linguaggio tribale» e della necessità di prestargli ossequio perché «ci è stato dato» [31]. Tra gli aspetti della vita del trio che sono stati usualmente sottolineati (per esempio: l’influenza che per i tre musicisti fu rappresenta-ta dal trio di Ahmad Jamal con Israel Crosby e Vernel Fournier [32]; oppure il fatto di essere i tre tutti pianisti, anche se di Jarrett si dovrebbe considerare piuttosto l’attitudine innata di strumentista polimorfo e talora naïf), merita un’ulteriore menzione quello relativo alla presunta discendenza stilistica di Jarrett da Bill Evans, già riferito, che si suole anche ricollegare alla circostanza della collaborazione del contrabbassista e del batterista con il pianista di Plainfield (per quanto piuttosto limitata nel tempo). In realtà, parrebbe che questa presunto apparentamento, come già accennato, vada a cogliere piuttosto elementi di somiglianza estrinseca (rafforzati proprio dalla formazione dello Standards Trio, con una progressione logico argomentativa che può risultare ingannevole [33]) che non la realtà dei fatti, soprattutto ove si consideri che lo stile di Jarrett si è sempre contraddistinto almeno per una mescolanza di elementi di «avanguardia» (basti pensare alle influenze di Paul Bley e di Ornette Coleman) e di gospel, che sono del tutto assenti in Evans, oltre che alla predilezione per modelli differenti (Jamal, come detto). Peraltro, sebbene vi siano in entrambi spazi di lirismo molto marcati, l’esperienza di ascolto riferisce di sensibili diversità quanto agli aspetti armonico-strutturali, molto differenti, certamente più sviluppati in Evans mentre il dato che maggiormente colpisce in Jarrett è lo sviluppo di una cantabilità estrema (da taluni avversata e ritenuta insopportabile) che nasce da quella che ben viene definita come«aspirazione a emulare il sassofono o le frasi dei fiati» [34]. Peraltro è noto che quella parte della critica che si è specificamente dedicata a dimostrare la tesi della semplificazione armonica cara a Jarrett (lo sviluppo del «circolo delle quinte»), ha comunque dovuto convenire delle estrema differenziazione rinvenuta nei voicing usati dal pianista[35]. Una più accurata disamina delle differenza tra i due pianisti è nel già citato saggio di Riccardo Facchi, che ben sottolinea gli aspetti di «esplorazione “melodico-ritmica”» e lo sfruttamento di catene motivi che, presenti nell’opera di Jarrett [36].
Invero, una considerazione che viene naturale sviluppare pensando all’innato senso di libertà che traspare dalla musica di Jarrett (e che ha a che fare anche con quella gioiosa manifestazione di naïve téche è in«Spirits», lo «zibaldone» primitivista del 1985, che non casualmente è uno dei capisaldi dei suoi più feroci detrattori) è che il sodalizio con Peacock e De Johnette si fosse rivelato così solido e fecondo non per il presunto collegamento con la tradizione o con i pregressi trii di Evans ma proprio perché i due, che per lo più avevano praticato musica libera e fuori dalle convenzioni, asseconda-vano un naturale anelito del pianista. La verità è che i tre, nell’insieme, traendo spunto dall’interazione paritaria che fu tra Evans, La Faro e Motian, ne hanno tratto ulteriori sviluppi dimostrando proprio che le «piccole forme» ottenute in dono potevano essere rispettate e amate anche fuori da un mero ossequio formale, anche fuori da un canone fisso e immutabile, in quel procedimento estatico che Jarrett ha argutamente definito come «l’applicazione di una solo-Gestalt a tre persone» [37]: il tutto è diverso dalla somma delle sue parti. Quest’ultima considerazione fa anche il paio con la realtà della coesistenza di due trii nello stesso contesto: Standards e Changes, sin dalla prima seduta di registrazione del gennaio 1983, il secondo direttamente collegato alla primi-genia esperienza del 1977, e soltanto questo processo può spiegare l’approdo a opere «libere» come «Changeless»(1989), «Inside Out»(2001) e «Always Let Me Go» (2002). Il movente «commerciale» non fu quello esclusivo nella decisione di formare lo Standards Trio, ma quando il successo si presentò in forma clamorosa, fu certamente sfruttato in modo molto accorto, anche grazie a un momento storico che, in termini di accoglimento da parte del pubblico, vi si prestava assai bene, vedendo l’affermazione del neo-bop ad opera dei «Young Lions». Se è vero che i tre non cominciarono subito a girare in tour (anche perché il 1983 del pianista presentava ancora moltissimi impegni in piano solo), considerazioni di tipo diverso, circa una sostanziale pianificazione, possono essere indotte da come venne gestita la pubblicazione così abilmente scaglionata dei primi tre album e dal fatto che nel luglio del 1985 le tournée iniziarono (tuttavia soltanto dopo la registrazione del già citato «Spirits», che fu uno snodo personale molto importante per Jarrett e che sarà pubblicato nell’anno successivo). Ciò che sappiamo per certo (e che Carr riferisce con estrema precisione), è che gli aspetti di regolamento contrattuale furono assai minuziosi, al fine di stabilire gli assetti operativi del trio, che non dovevano rappresentare per gli artisti una fonte di stress, dovendosi prevenire«qualsiasi fattore potesse nuocere alla tranquillità dei musicisti o alla qualità dei loro concerti» [38]. Anche in questo essi sono stati unici, gestendo una enorme fama senza tramutarla in inflazione né concertistica né discografica, traendone il massimo rientro commerciale sui mercati più floridi (come quello giapponese) ma senza mai divenirne schiavi. Trentuno anni di vita, ventuno album ufficiali (otto dei quali doppi, più un box sestuplo), quattro DVD, circa duecento tracce poste su disco audio (cento novantotto, ma si contano varie medleye brani con introduzioni o postludi): uno pus magnum che esprime in maniera eloquente uno dei principali filoni in cui, nel Jarrett-autore e forse in generale, il sincretismo tipicamente «americano» si è meglio espresso, nelle forme di una affermazione identitaria (come «enciclopedismo stilistico» e come strumento di «una narratività quasi biblica», per esprimersi con le parole di Gianni Morelenbaum Gualberto). Come ha osservato Fanco Fayenz, e forse non c’è miglior conclusione: «Jarrett evoca il passato traducendolo in presente» [39]