Un ricordo di Dakota Staton, la dimenticata cantante che, nei suoi anni d’oro, seppe far propria la grande lezione di Dinah Washington
Eccentrica ed esuberante creatura di quella formidabile fucina jazzistica (anche a livello vocale, con giganti come Billy Eckstine, Eddie Jefferson, Maxine Sullivan) che è stata la industriosa Pittsburgh, fluviale metropoli della Pennsylvania mineraria, Dakota Staton (1930-2007) è stata più volte associata a Dinah Washington, che lei stessa indicava come fonte di ispirazione. In realtà l’inquieto rapporto della cantante di Pittsburgh con le parole, spesso tormentate sino al pianto e al singhiozzo, la mordace voluttuosità e il gioco teatrale negli accenti e nei contrasti, tra bluesy e melodrammatici, le sue forti e insieme languide aperture, sembrano rimandare più direttamente alla grande rivale di Dinah, Ruth Brown: una Ruth Brown dalle proporzioni vocali meno assolute e dai colori qua e là più friabili, con una sua originale, secca tensione nel registro più chiaro, uno stridore cercato con una strana grazia.
Nelle registrazioni Groove Merchant del suo periodo di mezzo, prodotte da Sonny Lester e raccolte in lp come «Madame Foo-Foo», del 1972, e «Ms. Soul», del 1974, questa peculiare e schietta soulfulness della cantante trovava un suo maturo equilibrio. Dakota vi riscattava certe erotiche affettazioni che avevano reso disuguali i pur brillanti e fascinosi album Capitol della fase giovanile (1957-1962), e regalava performance nel complesso solide ed energetiche: più convincenti sul blues (I’d Go Back Home) o su spiritosi bozzetti come Between 18th & 19th On Chestnut Street (antico cavallo di battaglia per Bing Crosby e Connie Boswell), che non su ballad come He Will Call Again o A Nightingale Sang In Berkeley Square, lette un pelo sopra le righe, o su standard jazzistici come un troppo esplosivo Cherokee, già nel repertorio Capitol. Rimarchevole per la sua misura era l’accompagnamento del quartetto del pianista chicagoano Norman Simmons, uno specialista nella guida e nel commento dei cantanti (lo conoscevano bene tanto Carmen McRae quanto Joe Williams) e vicino alla Staton in varie fasi della carriera: ma forse appariva ancora più in sintonia con il linguaggio sanguigno di Dakota il gruppo funky della seduta del 1972 con l’organo di Richard «Groove» Holmes, la chitarra di Cornell Dupree e la batteria di Pretty Purdie, dalla quale emergono bozzetti di franca natura soul come Play Your Hands e la superba ballad neorleansiana (firmata da Dr. John) che era appartenuta alla voce di Johnny Adams, A Losing Battle.
Svezzata nei club di Hill District, lo storico, dinamico quartiere nero di Pittsburgh, come vocalist della band di Joe Westray, Dakota frequentò il circuito jazz delle città del Midwest e del Nord-Est e fu scoperta al Baby Grand di Harlem da Dave Cavanaugh, produttore della Capitol. Fin dalla seduta iniziale del novembre 1954, nella robusta cornice dell’orchestra di Howard Biggs, rivelò la sua energica personalità e il peculiare (anche se non particolarmente raffinato) bilanciamento cromatico del suo pulsante strumento, tra le ombreggiature castane e i passaggi secchi dei medi e le bizzose, a tratti afonizzate smerigliature degli acuti: in particolare su due brani firmati dalla prolifica Rose Marie McCoy, il veemente My Heart’s Delight (subito attaccato con un singhiozzo à la Ruth Brown e modulato con una certa libertà colloquiale) e la ballad di devozione For The Rest Of My Life, gridata con un impeto che si sarebbe accentuato, alternandosi a pose di una vezzosità irritante, nella schietta seduta r&b del 1956 con band e coretto di Jesse Stone (I Told You So). DownBeat si accorse presto di lei, segnalandola come più promettente newcomer, e la piena consacrazione della sua swingante teatralità avvenne tra 1957 e 1958 con l’album «The Late, Late Show», fluidamente arrangiato da Van Alexander (e con Hank Jones al piano), che raggiunse la Top Five della classifica pop dei microsolchi, rara prodezza commerciale per una cantante di jazz. La Staton appariva qui sicura dei suoi capricci stilistici, conditi di ironia, con equilibri felici sui tempi mossi di Broadway e dell’intrigante bozzetto del titolo, e spostati verso quella chiara coquettishness in A Foggy Day e verso un miagolio dallo stretto vibrato nella blues ballad Ain’t No Use (tanto più ombrosa e accorata nella precedente lettura di Big Maybelle), che giunge a un climax finale di gridato stridore nell’intreccio con la più sobria tromba sordinata di Jonah Jones.

Attraverso una serie di lp Capitol comunque ammalianti – «In The Night» con il quintetto di George Shearing (e «Confessin’ The Blues», che ben esemplifica il singolare incontro tra la coolness del pianista londinese e la flamboyance della Staton, più misurata tra le ombre notturne della notevole ballad del titolo), «The Dynamic Dakota Staton» (con un efficace Let Me Off Uptown, un arguto Say It Ain’t So, Joe, un troppo felino Night Mist e un Anything Goes ancora tutto eccessi), «Crazy He Calls Me» (con un Angel Eyes sempre ondivago, un più centrato No Moon At All), «Time To Swing» (con orchestra swing di Sid Feller e riflessi di Lady Day che emergono da You Don’t Know What Love Is) – la cantante arriva gradualmente a trovare un più meditato bilanciamento, dal quale i pur smussati accenti giocosi o sensuali emergono in realtà con maggiore eloquenza: in particolare nella varietà di atmosfere bluesy di «Dakota Staton Sings Ballads & The Blues» curate da Eddie Wilcox (e nel bellissimo Where Flamingoes Fly, con le sue ansie e attese noirish) e nei tre set arrangiati da Benny Carter attraverso il 1960, nell’ariosa cornice d’archi di «Softly» (letture concentrate e minutamente, puntualmente decorate e contrastate di Old Folks e Be Anything), con la big band di «Dakota» (un veloce Pick Yourself Up fatto ben danzare nel fluido e policromo arrangiamento, un brumoso e vulnerabile Weak For The Man, un’animata lettura del Meet Me At No Special Place di Nat King Cole), e nella combinazione archi-swing dell’eccentrico «’Round Midnight» (da Monk a Kern allo spumeggiante blues Hey Lawdy Mama e al Let Them Talk di Little Willie John, tra cauta confessione e lo shout à la Miss Rhythm). Conclusa con una solida prova live del 1961 con il quartetto di Norman Simmons («At Storyville», con il minaccioso blues Mean And Evil e il coinvolgimento del pubblico bostoniano nel pimpante When I Grow Too Old To Dream), l’esperienza Capitol fu seguita da quella di minor risonanza alla United Artists, per due lp in studio (il primo, «From Dakota With Love», arrangiato dallo stesso Simmons e comprendente una prima versione di Chestnut Street e un Supper Time reso estrosamente ma non privo di obliqui agganci alla lontana teatralità di Ethel Waters) e un altro live a Newport, con un’orchestra di Gildo Mahones («Live And Swinging», del 1963).
Nel 1965 Dakota Staton (che nel 1958 aveva preso il nome di Aliyah Rabia dopo il matrimonio con il trombettista musulmano Talib Dawud, già membro della big band di Dizzy Gillespie) si trasferì oltreoceano per cercare di rivitalizzare la carriera, conquistando il pubblico europeo con la sua eccitante vocalità e quel vistoso, magnetico charme scenico che sarebbe sopravvissuto fino nei dolorosi anni del tramonto, immortalato nel documentario newyorkese di Gabriella Morandi, Jazzwomen. La permanenza a Londra fu documentata da «Dakota ‘67» (etichetta London), con robuste formazioni inglesi arrangiate da Tony Osborne o Joseph Spence, interpretazioni inebrianti e un Moon River rompicollo. Dopo un breve ma significativo passaggio dalla Verve (la suggestiva e a tratti esplosiva miscela pop-soul-blues di «I’ve Been There» del 1970, in gran parte arrangiata da Melba Liston) e la fase jazz e funk delle produzioni di Sonny Lester, illuminata anche dall’incontro con la big band di Manny Albam (con un Cry Me A River che vibra nervoso e febbrile e il blues Country Man di Big Maybelle percorso con volitiva voracità), i Muse «Dakota Staton» (con Houston Person), «Darling Please Save Your Love For Me», «Isn’t This A Lovely Day» (di nuovo con Norman Simmons e un repertorio che attinge a Dinah e a T-Bone), ritrovano la cantante nei primi anni Novanta, invecchiata nel segno di una abrasività bluesy, ansiosamente colloquiale. Nel berliniano title tune dell’ultimo album, con la sua voce irrequieta e «di strada», tra bruna e cinerea, Dakota toglie ogni eleganza e leggerezza al brano, che allontana dal ricordo (pur apparentemente indelebile) del Fred Astaire di Top Hat: accumulando tre chorus dallo swing muscoloso, sembra invece cercargli una prospettiva verace e insieme ironica. Si ascoltano piccole deviazioni dal testo, ai limiti dell’incongruo, e colloquiali ripetizioni, tocchi parodistici (un «my dear» dal colore quasi britannico, quasi «stiff upper lip»), accentazioni sui margini di un perlaceo singhiozzo, e l’effetto è quello di un monologo bizzoso e irresistibilmente frettoloso, nevrotizzato, nel solco – in fondo – di quella grande tradizione comico-musicale nera che comprende Nellie Lutcher, Pearl Bailey, Little Miss Cornshucks.
Luciano Federighi
[da Musica Jazz, febbraio 2019]