«Contrast». Intervista ai Tupa Ruja

Un progetto artistico che mette insieme diversi idiomi musicali, ideato nel 2006 da Martina Lupi e Fabio Gagliardi. Parliamo con loro del nuovo interessante disco e di tanto altro.

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Come nasce il progetto Tupa Ruja e quali sono i vostri obiettivi artistici?
Il progetto musicale Tupa Ruja è del 2006, nato con il mettere insieme il didgeridoo e la voce, due tra gli strumenti più antichi della storia.
È un progetto che si è distinto nel tempo per le sue caratteristiche di ricerca di sonorità, lingue, dialetti, ritmi, strumenti appartenenti a culture diverse e lontane tra loro, con una sperimentazione che talvolta supera la tradizione. Nel tempo abbiamo avuto diverse collaborazioni importanti, tra le quali quella con il pianista Alessandro Gwis, su prestigiosi palchi internazionali. Il 2022 è stato poi un anno decisivo: con la nuova formazione in quartetto abbiamo vinto il Premio Alberto Cesa dedicato alla World Music, sul palco del Folkest.
I nostri obiettivi artistici sono quelli di riuscire a trasmettere sempre, con verità, la nostra musica, senza dover scendere a compromessi di mercato, che spesso tendono ad interferire con le scelte personali. Partendo da questo presupposto, vorremmo che la nostra musica, sia attraverso i concerti live, sia attraverso i dischi, viaggiasse sempre più lontano e raggiungesse vette sempre più alte.

Cosa significa Tupa Ruja?
Tupa Ruja è un nome composto da due parole di un dialetto sardo e la traduzione letterale più significativa è rifugio rosso. Abbiamo scelto questo nome durante un viaggio in Sardegna, poiché la parola Tupa, “rifugio” ci ha rimandato all’ immagine di un luogo solitario in cui potersi ritirare per creare, mentre il colore rosso ci ha riportato alla mente la terra rossa dell’outback australiano, luogo di origine del didgeridoo.

Fabio, come mai hai scelto il didgeridoo come strumento?
Era il 1999, avevo 17 anni e vivevo a Genova, dove studiavo e praticavo arti marziali. Durante un seminario di kung fu che si teneva in cima ad un monte sulle alture liguri, sentii un suono che non riuscii subito a decifrare, ma che come una calamita mi attirava verso sé. Arrivato all’origine del suono, vidi due persone che si esercitavano in una forma di Tai Chi Chuan, e un ragazzo che accompagnava i loro movimenti, emettendo dei suoni mai sentiti prima di allora, soffiando all’interno di un tronco di legno cavo. Ancora non ne ero consapevole, ma ero di fronte allo strumento che mi avrebbe cambiato la vita. Sono convinto che più che scegliere io il didgeridoo come strumento, sia stato lui a scegliere me.

Tupa Ruja nasce come duo. Oggi, però, mi sembra che la formula sia cambiata e che, nel tempo, avete sempre di più allargato ad altri artisti. Mi sbaglio?
Il nostro duo resta sempre il nucleo del progetto musicale, e capita che in concerti più minimali ci si esibisca in tale formazione. La scelta di includere nel progetto altri musicisti è stata nel tempo dettata da un desiderio di arricchimento, e nata dalla necessità di accompagnare i brani scritti da Martina con l’armonia, dando anche a Fabio la possibilità di non dover tenere in piedi tutta la parte ritmica e avere la libertà di spaziare in altre sonorità con diversi strumenti.

Già in questo vostro ultimo album, «Contrast» ci sono diversi ospiti. Vorreste parlarci di loro?
Alla ricchezza sonora ed espressiva del nuovo album hanno contribuito ospiti di grande rilevanza artistica; Javier Girotto, Alessandro Gwis, Michele Gazich e Marco Siniscalco. Il sax soprano, epico, di Javier Girotto ha viaggiato sulla strada maestra del basso di Marco Siniscalco, che ha curato l’arrangiamento de La distanza, con un’armonia complessa e ricercata. È l’unico brano dell’album eseguito senza la presenza degli altri musicisti del gruppo, e rappresenta la fotografia di un’emozione intensa, di un sentimento di vuoto, di mancanza, espresso dapprima nella scelta di vestire il testo e la mia voce solo con l’armonia a tratti cupa e ridondante del basso, per poi librarsi in una sensazione di esplosiva esternazione, regalata dalle note suggestive e penetranti di Javier Girotto.
Sax soprano e quena di Girotto sono gli strumenti che hanno caratterizzato anche Oua, la canzone in lingua genovese scritta da Fabio Gagliardi, (una delle due canzoni dell’album che non sono state scritte da Martina Lupi), arrangiata con il quartetto al completo. Il testo struggente di Fabio è esaltato dalle note di Girotto, che hanno in sé tutta l’eredità linguistico-culturale della sua terra l’Argentina e il carattere unico e distintivo del suo modo di fare musica, che hanno ampliato e connotato la dimensione sonora ed espressiva del brano.
Il pianista Alessandro Gwis, già componente del gruppo dal 2017 al 2021, ha donato la sua ingegnosa e brillante interpretazione nel brano Nina tu eres, scritto da Martina Lupi per la propria figlia Nina, che fonde al ritmo di chacarera, una rigorosa struttura armonica e ritmica alla freschezza di un testo profondamente ispirato e sognante in lingua spagnola.
Il violino di Michele Gazich, in D’ali, un brano di Martina Lupi in italiano con una inserzione in lingua turca, ha regalato suggestioni gitane e mediorientali come fossero un’eco, un riverbero che proviene da molto lontano, quasi un urlo che avvolge di sacralità e mistero un testo che afferisce a quell’aspetto della vita che non si limita al visibile, ma che solo attraverso i sogni o alcune rivelazioni si può riuscire a percepire e concepire.

Perché avete scelto Contrast come titolo?
Contrast è la canzone tradizionale in lingua friulana che abbiamo riarrangiato in occasione della nostra partecipazione al Folkest. L’abbiamo scelta in virtù del suo significato allegorico: il carnevale, simbolicamente inteso come la pulsione di vita che si contrappone alla morte. Due concetti contraddittori che contraddistinguono l’esistenza umana. Un archetipo che si inserisce perfettamente nel momento storico che viviamo, in un mondo caratterizzato da violenza e guerra. La morte intesa come nemico che risiede nell’animo umano, negli abissi profondi dell’essere, si manifesta nel momento del carnevale quando nel pieno dell’espressione della lussuria, delle forme pacifiche di arte e convivialità, viene respinta da una forza generatrice più potente, che rimanda il suo inesorabile arrivo ad un tempo diverso.

Qual è il filo rosso che lega i dieci brani di questo lavoro?
L’ album narra emozioni profonde e delinea un percorso esistenziale che porta alla luce i tratti espressivi della personalità eclettica e poliedrica di Martina Lupi. Attraverso un’indagine autobiografica nel sentire sono nati i testi e le melodie delle canzoni, in un periodo in cui esternare e dare forma a consapevolezze interiori, ha rappresentato fortemente il desiderio di raccontare e di celebrare il potere salvifico e consolatorio che ha la scrittura, anche musicale. Il tessuto narrativo ed espressivo, sebbene diverso per ogni brano, è accomunato dall’intento di esplorare profondamente e spiritualmente un percorso di vita. Canzoni come La distanza, Mi alma, My Perfect Breath, Nina tu eres e Como o ar do mar, sono fotografie di momenti che parlano di desiderio, di mancanza, di emozioni che esaltano l’importanza della condivisone e della forza, che nasce in ognuno di noi quando si vive nutrendosi di esse. In D’ali e in Oua, (canzone, quest’ultima, scritta da Fabio Gagliardi), si racconta lo struggimento della perdita, e ci si riferisce a quell’aspetto spirituale della vita, che non si limita al visibile, ma che solo attraverso i sogni o alcune rivelazioni, si può riuscire a percepire e concepire. L’aspetto spirituale è poi fortemente presente nel brano Los elementos, in cui il testo racconta la percezione sottile di un rapporto strettamente personale e condizionante con la natura e i suoi elementi, esaltato dalla ritmica rituale e preponderante del didgeridoo, del tamburo sciamanico, delle percussioni, e da suoni più contemporanei che creano un’eco, un reverbero, e dove la voce diviene espressione di una reminiscenza antica.

I vostri testi sono sempre molto belli, affascinanti. Perché utilizzate, molto spesso, lingue latine?
Grazie per l’apprezzamento nei confronti dei testi, fa molto piacere. Scrivere e cantare in lingue e dialetti diversi è un’ulteriore ricerca nelle sonorità: ogni lingua ha una sua musicalità e sicuramente le lingue latine come lo spagnolo e il portoghese sono per natura più affini alla mia espressività, oltre alla mia lingua madre, l’italiano. Aver studiato il latino ha avuto sicuramente un peso importante nella familiarizzazione con le varie pronunce. Attraverso i dialetti poi sembra di poter esprimere le emozioni in modo ancora più intimo e diretto.

La vostra musica viene definita world music. Siete d’accordo con questa classificazione?
Il nostro progetto è un luogo sonoro dove far incontrare espressioni, linguaggi, ritmi, tecniche vocali, musiche di diverse culture, anche geograficamente lontane tra loro. Siamo generatori di contaminazioni, di sonorità e generi, amiamo la fusione e la ricerca, che affonda le radici nella musica tradizionale per giungere laddove la sperimentazione, crea nuove forme e territori sonori ancori diversi e inesplorati. Per questo non siamo facilmente inclini a essere classificati o collocati in un genere prestabilito. Ci sentiamo liberi di spaziare anche grazie alle scelte dei collaboratori di cui ci avvaliamo, che a loro volta creano suggestioni e portano parte del loro mondo musicale all’interno del nostro progetto, che si arricchisce di conseguenza. Talvolta si tratta anche di un progetto cantautorale  poiché i testi  pur scritti in lingue diverse, contengono sempre aspetti intimi e personali.

Qual è il vostro rapporto con la tradizione nella musica?
La musica tradizionale è per noi “significato”, “sacralità”, “rito”, “collettività”, “comunicazione”, “guarigione”, “sentimento”, “formazione”, “codice”, “disciplina” e “libertà”. La funzione della musica nelle tradizioni di tutto il mondo ha a che fare con gli aspetti più intimi dell’essere umano e con quelli strettamente legati alla socialità. La musica fin dalla comparsa dell’uomo sulla terra, ha permesso anche di superare limiti terreni, trascendendo la realtà fisica e inducendo a sperimentare stati di coscienza di livelli diversi. Tra gli aborigeni australiani, il didgeridoo, strumento che vanta millenni di storia, era usato per accompagnare i rituali di passaggio maschili, ed era riconosciuto come strumento sacro. Il ruolo della musica in tal caso era funzionale, e stessa cosa valeva per il canto: per gli aborigeni dell’Arnhem in Australia, i canti non venivano mai composti, ma solo scoperti. Tutto era narrazione della creazione; mito, storia, musica, attività coreutiche, rituali, avevano funzione simbolica, erano un veicolo per vivere e tramandare la tradizione.
Indipendentemente dalle differenze culturali riscontrabili attraverso le impostazioni della voce nelle tecniche vocali, l’uso delle poliritmie, le ritmiche o i bordoni, l’utilizzo dei microtoni, la scelta delle improvvisazioni e i diversi tipi di schemi, esistono coincidenze e parallelismi tra le varie tradizioni culturali e musicali nel mondo. Anche l’Occidente, per anni escluso dalle indagini degli etnomusicologi nella classificazione di World Music, vanta una delle tradizioni musicali più sofisticate al mondo. Basti pensare ad esempio, al fenomeno del Tarantismo e delle altre tradizioni musicali italiane, o alle musiche tradizionali della Spagna, del Portogallo, della popolazione Inuit in Canada, del Sud America. Studiare la musica tradizionale utilizzata nei riti, nelle danze, al pari della letteratura, della poesia, è di gran lunga più rilevante che studiare le “grandi” opere classiche europee, per conoscere e comprendere il motivo che, da sempre, ha spinto l’uomo a fare musica.
Il nostro modo di fare musica affonda le radici nella tradizione, e non solo per la scelta degli strumenti o per la ricerca della sonorità vocali, ma anche e in modo importante, nell’approccio, istintivo, naturale e terapeutico, che fa parte della nostra capacità espressiva e che desideriamo non perdere mai.

Utilizzate anche degli strumenti che appartengono ad altre culture. Qual è il vostro approccio con queste culture?
Il nostro approccio con le diverse culture madri degli strumenti che utilizziamo è di profondo rispetto, anche se suoniamo tali strumenti in modo non tradizionale ma sperimentale.
Ad esempio, per quanto riguarda il didgeridoo, oggigiorno si sente dire che il suo uso sia tabù per le donne nella società aborigena. Tuttavia l’interdizione rituale dello strumento è caratteristica delle culture aborigene del sud e del centro dell’Australia, dove il didgeridoo risulta importato solo di recente e dove non è uno strumento tradizionale. Spesso capita che individui di questi gruppi protestino ufficialmente per l’esibizione pubblica di donne che lo suonano (come è capitato recentemente all’attrice Nicole Kidman).
Ad ogni modo, le popolazioni dell’Australia settentrionale, dove il didgeridoo è autoctono, non manifestano problemi riguardo all’uso dello strumento da parte di donne non aborigene, in quanto non ritengono sensato imporre norme comportamentali indigene alla società non indigena.  Scegliere di utilizzare determinati strumenti presuppone uno studio accurato e approfondito della cultura da cui provengono. Entrambi suoniamo il didgeridoo e crediamo che divulgare la conoscenza di una determinata cultura sia un atto di profonda responsabilità.

Invece, qual è il vostro rapporto con il jazz?
Io, Martina, ho avuto la fortuna di avere un padre amante e cultore del Jazz, che fin da piccola mi ha trasmesso l’amore per la musica, nonostante fosse medico di professione e non musicista. Grazie a lui ho iniziato presto lo studio della musica e avuto l’opportunità di assistere a numerosi concerti live anche da bambina; la nostra casa era luogo di incontri e jam session indimenticabili, con musicisti di fama internazionale, da tutto il mondo. In alcune di queste occasioni conobbi, all’età di 16 anni, Javier Girotto, Alessandro Gwis e Marco Siniscalco, dopo averli apprezzati su prestigiosi palchi insieme con Michele Rabbia, nella loro formazione Aires Tango, divenuti nel tempo amici. Girotto, Gwis e Siniscalco, sono tre dei quattro ospiti che ho fortemente voluto nel nuovo album e Alessandro Gwis. La collaborazione con jazzisti del loro calibro, dona al nostro progetto una veste di raffinatezza e complessità nonostante il jazz non sia una via marcatamente intrapresa, ma una trama armonica, che in alcuni arrangiamenti ha permesso alla nostra musica di assumere influenze e contaminazioni decisamente ricche e interessanti. In passato fu ospite di un nostro concerto con Alessandro Gwis, alla Cavea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, il maestro Antonello Salis, che suonò la fisarmonica su Los elementos, uno tra i nostri brani più sperimentali. Fu un concerto incredibile, in occasione dell’Etno Jazz Night. Ho sempre amato del Jazz l’approccio dei musicisti con il proprio mondo musicale: l’unicità espressiva, il dialogo musicale spontaneo, l’ascolto sensibile tra tutti i membri del gruppo, la creatività, la tecnica unita all’espressione emotiva; tutti aspetti che caratterizzano anche il nostro modo di fare musica. Una modalità che segue la strada maestra dell’interpretazione e della rielaborazione personale, in grado di suggerire grande libertà di espressione e sperimentazione.

Qual è, rispettivamente, il vostro background culturale?
La mia formazione musicale (Martina) inizia con lo studio del pianoforte all’età di sette anni e del canto successivamente intorno ai dieci. Inizialmente ho avuto diversi insegnanti di pianoforte classico: il direttore d’orchestra Marco Morrone, la musicista russa Olga Maximenko e proseguito poi con un approccio jazzistico con i grandi Claudio Colasazza e Alessandro Gwis. Il pianoforte è lo strumento che utilizzo per comporre le mie canzoni e a volte per accompagnarmi al canto, mio primo amore, da sempre la mia forma d’espressione più diretta e naturale. Ho studiato impostazione della voce classica con la cantante americana Susan Lang, e proseguito con la cantante d’impostazione jazz, Diana Torto, e seguito masterclass di insegnanti di fama internazionale, per poi approdare allo studio di diverse tecniche vocali, in particolare tuvane, con il maestro Tran Quanto Hai, che fu maestro anche di Demetrio Stratos. Studiare Lettere con indirizzo spettacolo mi ha consentito di sostenere diversi esami di Etnomusicologia e Storia delle Tradizioni Popolari, materie che ho anche approfondito sul campo, attraverso l’assidua partecipazione a feste popolari del Sud Italia principalmente in Campania, Calabria e Salento, durante le quali ho intrapreso lo studio delle danze e di alcuni strumenti tradizionali e successivamente studiato canti e percussioni africane con importanti insegnanti del Senegal. Il diploma di Attrice Multidisciplinare nel 2006, in seguito alla vincita di una borsa di studio messa a disposizione dalla Regione Lazio, è arrivato in un momento importante della vita, in cui ho avviato con fermezza la mia professione musicale e artistica, esperienza fondante, durante la quale ho conosciuto Fabio Gagliardi.
Io, Fabio Gagliardi, ho praticato tanti anni di arti marziali: Tae Kwon Do, ottenendo il grado di cintura nera 2° dan e Kung Fu, avvicinandomi non solo agli usi e costumi delle culture orientali, ma anche alla musica tradizionale, attraverso lo studio del dizi (flauto tradizionale cinese) e del dagu (tamburo tradizionale cinese). Durante un seminario di kung fu sulle alture di Genova ho sentito per la prima volta il suono del didgeridoo e all’età di diciassette anni ne ho iniziato la pratica come autodidatta. Mi sono avvicinato successivamente al mondo delle percussioni africane studiando con l’insegnante senegalese Badou N’Diaye e dei tamburi a cornice con Andrea Piccioni, approfondendo lo studio delle percussioni tradizionali del sud Italia, partecipando a varie feste popolari, soprattutto in Salento, studiando con vari insegnanti del luogo. Ho studiato canto armonico prima con Andrea Simone a Roma, successivamente con il M° vietnamita Tran Quang Hai, approfondendo le tecniche del sygyt e del kargyraa. Nel 2006, grazie ad una borsa di studio della Regione Lazio, ho ottenuto il diploma di Interactor, attore multidisciplinare.

Quali sono i vostri progetti futuri e quali sono i vostri obiettivi?
Dopo aver fatto la presentazione del nuovo disco alla Casa del Jazz lo scorso 4 aprile con la formazione in quartetto, con Mattia Lotini alle chitarre e bouzouki e Stefano Vestrini alla batteria e con gli ospiti Marco Siniscalco e Michele Gazich, stiamo preparando vari concerti per l’estate in giro per l’Italia. In duo stiamo inoltre gettando le basi per un nuovo lavoro che tornerà all’essenza del nostro progetto artistico, che contempla l’unione di due soli strumenti: la voce e il didgeridoo, melodia e ritmo. Un progetto tanto minimale quanto ambizioso, che ci stimola molto. Martina sta già lavorando ad un suo disco cantautorale che dovrà uscire il prossimo autunno, accompagnata al pianoforte da Alessandro Gwis, (con il quale porta avanti il suo progetto “Il suono della distanza” su prestigiosi palchi. La produzione artistica sarà di Michele Gazich, che nel disco suonerà anche il violino.
L’obiettivo per il futuro rimane sempre creare, suonare e ricercare la bellezza in ogni forma.
Alceste Ayroldi

 

 

 

 

 

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