Così scriveva nel 1986 il poeta francese André du Bouchet nella sua opera Ici en deux e che, come fu notato al tempo dalla critica, confermava la vocazione di «riparare il mondo» attraverso il gesto artistico, che fosse musica, poesia o pittura. E l’idea di curare attraverso la bellezza è ciò che conduce due tra i più importanti musicisti europei contemporanei come Dominique Pifarély e François Couturier a ritrovarsi insieme, dopo più di venticinque anni di destini incrociati e intersezioni variabili, a registrare un album ricco di musica fragile e abrasiva allo stesso tempo. «Preludes and Songs» (ECM) è uno di quei progetti da curare con la grazia del lasciarsi sorprendere, perché la sorpresa è a fondamento dell’incontro dopo tanto tempo tra due artisti maturi, che si raccontano e raccontano la trasformazione come cifra dell’identità: «L’idea», spiega espressamente Pifarély, «non era di tornare a dove ci eravamo fermati, ma di iniziare da un punto nuovo che tenesse conto di ciò che avevamo conquistato durante questa lunga pausa. E per questo dovevamo prestare la massima attenzione alle rispettive personalità, dato che provenivamo dalla costruzione di idee e forme differenti. Volevamo a tutti i costi rispettare i nostri percorsi intrapresi e trovare un punto di passaggio tra l’uno e l’altro». L’aria d’attesa, per l’appunto, evocata da Du Bouchet e al quale non a caso Couturier si ispira per due epigrammi lirici dell’album, Le surcroît I e II, è riassunta in questa parola che si riferisce all’indeterminatezza di qualcosa che aggiunge valore a qualcosa d’altro. L’aggiunta è, primo luogo, nel modo del tutto originale in cui il duo, che aveva ampiamente esplorato sonorità astratte e paesaggi metafisici nel 1998 con «Poros», accosta e trasforma fino a rendere irriconoscibili per lunghi intervalli di tempo alcuni grandi classici della tradizione popolare e jazz: dalla Chanson des vieux amants a Solitude, da I Loves you Porgy a Lament o A Nightingale Sang in Berkeley Square. Per intercettare le traiettorie lungo le quali il violinista e il pianista si sono inseguiti per tanti anni occorre un po’ ripercorrere il catalogo dell’etichetta di Monaco, dove sono rintracciabili le rispettive curiosità espressive. Se Pifarély ha stretto, al di là dei progetti solistici, un lungo sodalizio con Louis Sclavis e si è interessato alle possibilità dell’elettronica nel circuito della musica contemporanea, Couturier ha portato avanti progetti più ancorati all’acustica tradizionale per suoni, ma d’avanguardia per scelte stilistiche. Al di là dei molti riconoscimenti raccolti, il suo Tarkovskij Quartet è arrivato a registrare tre album seminali, anche grazie a una musicista del calibro di Anja Lechner (ospite delle nostre pagine a dicembre), incline a ibridare il rigore formale dell’impostazione classica con le incursioni nell’astrattismo improvvisativo e atonale.
Alla fine, «Preludes and Songs» si articola con una tale personalità di idioma e peculiarità di interplay da far dimenticare quasi che si è di fronte spesso a standard; ci si acclimata piuttosto come dentro a una forma concerto in cui il virtuosismo si mitiga in fughe, soste e riprese coerentemente articolate e bilanciate. Couturier e Pifarély, nel rileggere i brani, sembrano quasi voler dare alcune premesse e conclusioni logiche al già noto e al già ascoltato, giocando a disorientare e riorientare l’ascoltatore dentro melodie conosciute ed espandendone i confini, attraverso il superamento dell’idea che l’improvvisazione si svolga, come da tradizione, da tema a ripresa.
Il primo ad arrivare, in una fredda giornata invernale di Parigi, all’appuntamento con Musica Jazz è Dominique Pifarély, con il quale inizia una breve conversazione su musica, poesia ed elettronica; e, quando arriva – di lì a pochi minuti – Francois Couturier, sorprende il calore del saluto tra i due, più a loro agio a suonare che a raccontarsi, come a voler riparare l’inaccessibile creatività musicale dalla angustia delle parole, una ritrosia sciolta nella disponibilità umana e solare del tempo a nostra disposizione. Come sul palco e nell’album appena uscito, anche quando chiacchierano sembrano inseguirsi, integrarsi, talvolta emendarsi, scambiarsi sguardi come avessero a che fare con la musica, termine d’elezione di due anime che – come diranno – non possono neanche immaginarsi in una vita diversa da quella vissuta.
Dominique, bentrovato sul nostro giornale. Siccome è qualcosa che riguarda anche il progetto di «Preludes and Songs» con François può essere interessante capire il tuo legame con la poesia e se essa abbia dei punti di contatto con la musica. Anche recentemente hai partecipato a un progetto, Baldwin en transit, dove le due forme venivano fuse
DP: Grazie! In primo luogo, ci tengo a precisare che quello non è un mio progetto originale,ma di Stéphane Payen, io ne sono stato solo un piccolo ingranaggio ma lieto di farne parte. Resta il fatto che, come dici, nel corso della mia carriera ho realizzato molti progetti legati alla poesia, compreso uno con François quasi vent’anni fa. Ho realizzato tre progetti, due legati a poeti francofoni, Jacques Dupin e André du Bouchet, e uno di un poeta tedesco, si chiamava «Polka Project». Questo per dire quanto musica e poesia no siano poi così distanti: in generale, mi piace nelle forme dell’espressione artistica tutto ciò che ha a che fare con il ritmo, l’astrazione. Questi elementi sono fortemente evocativi per me e la compatibilità, in questo senso, tra poesia e musica è evidente, sviluppano un perfetto contrappunto insieme.
Tu hai utilizzato per scrivere la tua musica anche l’elettronica. Recentemente, riascoltavo un interessante confronto tra Quincy Jones e Herbie Hancock della fine degli anni Ottanta in cui raccontavano come la strategia è quella di governare e non essere governati dalla tecnologia. Che posizione hai al riguardo?
DP: Hanno ragione! Quello che mi interessa della tecnologia, in particolare, è il modo di trattare il suono in tempo reale, questo mi sembra il dato centrale. L’elettronica può diventare un vero e proprio partner per la sua capacità di reazione con l’esecutore, può fornire degli stimoli; per questo non si tratta solo di modificare o rimodulare il suono prodotto da uno strumento. Ci sono molte opere di musica contemporanea che si focalizzano proprio sull’elaborazione del suono in tempo reale, che in francese chiamiamo «suivi de partitions», prosecuzione della partitura. Questo nuovo tipo di scrittura è, per esempio, studiato e praticato all’IRCAM di Parigi. Ciò che è fondamentale è la sorpresa: la necessità di dover interagire con macchine che elaborano ciò che ho suonato e che trasmettono una immediata risposta. Ho realizzato un po’ di musica con questo metodo, per esempio con Michele Rabbia, ma anche con un autore francese che legge i propri testi, François Bon. Detto questo, è mio interesse continuare a suonare il violino, ma se ciò che suono viene elaborato dal computer che mi rimanda informazioni impreviste tutto diventa molto interessante.
Ben arrivato anche a François, che ci da modo di entrare subito nel vivo di «Preludes and Songs». Quel che appare evidente ai primi ascolti è che l’impianto improvvisativo ha una concezione molto nuova. Come avete lavorato su questo?
FC: Bentrovati! Rispondere è allo stesso tempo semplice e complicato. Se parliamo in generale di jazz, lì ci sono dei vincoli determinati dalla griglia armonica, dai modi che tu puoi interpretare su un certo accordo per produrre un racconto e una emozione. Possiamo chiamarla improvvisazione idiomatica, nel senso che ha sue regole particolari, come ogni linguaggio. Quello che abbiamo fatto con Dominique è un po’ diverso perché non ci siamo dati regole, abbiamo lasciato che accadesse il fatto musicale e consentisse alla testa di dirigere le dita. Abbiamo cercato di mantenere, come nelle suite, una coerenza tra la testa e la coda del brano, anche per consentire all’ascoltatore di capire che stiamo transitando da un punto A a un punto B.
Nell’album affrontate alcuni temi jazz tradizionali con una riscrittura originale, interpolandoli a vostre composizioni. Che tipo di scelte avete operato?
FC: Abbiamo lavorato in modo diverso in ogni pezzo, non c’è una idea unitaria portata avanti nella riproposizione di vecchi standard e nuova musica. Nella Chanson des vieux amants, per esempio, c’è Dominique che ricama a lungo intorno al tema; in altri casi abbiamo scelto di scrivere un basso continuo sulla melodia e per creare una sorta di effetto straniante per l’ascoltatore, che ha l’impressione di conoscere a tratti la melodia, domandarsi dove l’ha già ascoltata prima. E questo è l’obiettivo di fare nuova musica con vecchi standard, a nostro parere. Ne disco c’è per esempio un brano di Duke Ellington molto esemplare che è Solitude, con il tema che è stato interamente riarrangiato da Dominique. Non c’è uno sforzo nel nascondere la melodia, anzi è molto riconoscibile e il violino suona come se si trovasse di fronte alla griglia armonica tradizionale, ma io con il piano gioco a spostare il piano sonoro in un «altrove» meno tradizionale. Dopo di che suono un ritornello in modo completamente libero, in modo che abbia una connessione con il pezzo, pur non rispettandone affatto la struttura e, al termine della mia improvvisazione, cerco di riportare l’ascoltatore al tema in modo che dica: «Ah, ma era Solitude!».
Da un punto di vista strettamente compositivo che ruolo hanno le radici del jazz, nel modo di pensare la musica?
DP: Potrai chiederlo a cento musicisti e avrai cento risposte diverse, quindi ovviamente rispondo per me. La risposta è solo relativa a un certo modo di fare pratica: quella tecnica sul mio strumento e quella improvvisativa. Ed è quando entro in connessione col mio strumento, con questo tipo di esercizi che le radici vengono fuori in modo quasi naturale. Sono però convinto che, quando si parla di radici, sia il pubblico ad avere un ruolo attivo nel riconoscerle, trovare evocazioni e connessioni. Quando suono è chiaro che metto in gioco me stesso, cioè tutto quello che ho imparato, ascoltato, studiato e che ha un suo corrispettivo nel fatto improvvisativo.
FC: Sono completamente d’accordo con Dominique. Quando suoniamo c’è una sorta di background, di busto, anche quando non ne siamo strettamente consapevoli. Aggiungo che Dominique, a mio parere, è un jazzista fantastico, uno che ha suonato a lungo con Martial Solal. Entrambi abbiamo suonato molta musica diversa e sappiamo come farlo, come dire che – alla fine – siamo più jazzisti che musicisti classici. È evidente che il linguaggio jazz influenza la nostra espressione estemporanea, per Dominique non è importante che si tratti di jazz o altro, quelle sono etichette che magari possono aiutare un ascoltatore un po’ «settario».
DP: Sono d’accordo con quello che dice François, ma a una condizione molto specifica: vedi, io non voglio restare intrappolato nella questione tra musica jazz e musica classica. Non mi piace definirmi jazzista, però naturalmente parlo solo della mia personale esperienza, della tradizione di strumentisti e musicisti che ho frequentato nel corso della vita.
FC: Probabilmente è lo stesso modo di vedere le cose, ma con il verso rovesciato. Il che è interessante. Capisco molto bene il suo punto di vista e non c’è alcuna rivendicazione intorno alla parola jazz, su cosa sia o non sia. A questo proposito mi viene in mente la frase del giornalista di Le Monde, Francis Marmande, quando ha ascoltato il disco: è una musica che forse non assomiglia al jazz ma che non può essere suonata da musicisti che siano estranei al jazz.
Come considerate la possibilità che in futuro le vostre composizioni possano essere interpretate da altri musicisti? E’ una musica che può essere tramandata e suonata o resta strettamente legata alla vostra visione interpretativa?
DP: Per quello che mi riguarda, scrivendo molta musica, lo faccio per esecutori specifici, questo significa che penso a chi sono, alle loro possibilità peculiari. Così come ho scritto musica per François, per esempio in questo disco, riutilizzando e adattando il materiale che avevo per un altro progetto. Per esempio, Vague è apparso in un progetto per quartetto del 2016 («Tracé provisoire», ECM), mentre Les ombres è un brano che mi piace riscrivere in diverse versioni, perché si apre a nuove prospettive, anche da un punto di vista acustico. Quel che cerco di far sopravvivere è la coerenza nella scrittura per un gruppo specifico di musicisti. Ciò non toglie il fatto che sarebbe estremamente interessante che qualche altro musicista si riappropriasse di questo materiale, per vedere come può evolvere.
FC: Per questo disco, nello specifico, non ho molto da aggiungere perché la maggior parte delle composizioni di «Preludes and Songs» sono di Dominique. Però sono d’accordo sul fatto di ragionare con attenzione sul destinatario della musica che si scrive. Avete spesso parlato su Musica Jazz dei miei progetti con Anja Lechner, soprattutto in duetto: ecco non è la stessa musica che avrei scritto se, anziché lei, ci fosse stato Dominique. Dico anche, con grande serenità, che Dominique è molto più compositore di me, ha una maggiore dimestichezza e facilità di scrittura; io non ho la stessa elasticità, riesco a comporre solo per un progetto particolare. D’altronde, considera il fatto che non suonavamo insieme da tanti anni; il primo disco che abbiamo fatto insieme era musica molto, molto contemporanea e astratta. Poi nel corso del tempo abbiamo seguito traiettorie diverse, fatto esperienze musicali eterogenee e quindi è stato bello ritrovarsi in questo progetto.
DP: Giusto! È come, per così dire, una vecchia coppia che si ritrova dopo una ventina d’anni, un modo di riprendere un discorso dove si è lasciato, ma riempiendolo di tutto quello che è avvenuto durante un lasso di tempo tanto lungo. Il che implica una cosa del tutto evidente in questa musica ed è che ciascuno ha dovuto fare dei passi verso l’altro.
Come avete lavorato insieme sui brani, che hanno un’articolazione piuttosto complessa come Le surcroît I e II oppure Vague? Vi raccontate prima l’obiettivo finale, il tipo di atmosfera cui tendere?
DP: In realtà, quelli che hai citato non sono brani difficili in sé per la struttura, che è piuttosto elementare per noi. Ma la difficoltà consiste proprio in questo, perché di suo il brano è breve e ripetitivo e quindi sta tutto nell’interplay tra noi due e nell’interpretazione con cui cerchiamo di renderlo più sfaccettato, tirando fuori qualcosa che alla base non c’è.
FC: Anche nel caso di Le surcroît I e II: quelle sono due piccole miniature, molto brevi. Le avevo inserite nel nostro programma di prove, poi abbiamo concordato sul fatto che suonassero molto bene e le abbiamo inserite nel disco. In questo caso, ho scritto le parti di pianoforte per le improvvisazioni di Dominique.
DP: In effetti, è spesso l’ambivalenza tra improvvisazione e scrittura che può dare all’ascoltatore un’idea di complessità che invece non c’è, si tratta di brani semplici e per quello affascinanti, si prestano a una poliedrica varietà di gamme interpretative.
FC: La mia preferenza, infatti, per tornare a Vague, ma in generale all’intero programma dell’album, era che la maggior parte dei brani fossero scritti da Dominique: poi ci abbiamo lavorato insieme e continuiamo a farlo, specie perché sono ricchi di atmosfere vaghe o astratte. Suonare in due ha significato lavorare complessivamente sulle strutture e sui modi di improvvisare affinché i pezzi suonassero in modo simile, coerente. Partiamo da un punto, poi lo giriamo e rigiriamo, cambiamo insieme le strutture finché non sembrano funzionare.
Come avete lavorato sul tempo rispetto alla parte melodica per trovare il giusto equilibrio? Alle volte sembra dissolversi in corone lunghe, altre volte è assolutamente preciso. Richiede una grande esperienza ed intesa musicale.
FC: Non saprei. Per quanto riguarda il pianoforte, per me il fatto più interessante dello strumento non è tanto il suo aspetto ritmico, ma la capacità di creare climi ed espressioni che, nel caso di questo album, sono particolarmente moderne da un punto di vista armonico. In «Preludes and Songs» la scrittura è piena di obbligato che si alternano all’improvvisazione: questa è la struttura di tutti i brani, per cui spesso gli ascoltatori possono non riconoscere se ci si trovi nell’uno o nell’altro momento musicale.
DP: Aggiungo, in generale, che il tempo è una specie di andata e ritorno costante che fa parte della pratica quotidiana del jazz, ma il tempo deve trovare un proprio bilanciamento con l’espressione, senza che l’uno prevalga sull’altra, per avere un buon risultato.
Siete due colonne portanti, da molto tempo, di ECM: come credete che abbia influenzato quel suono nello sviluppo della musica europea e non solo?
FC: Posso risponderti con la solita, famosa battuta, dicendo che il suono di ECM è la cosa migliore dopo il silenzio… Resta comunque un grande onore quello di poter far parte di questa «scuderia», che nel corso dei decenni ha dato modo a molti artisti di sviluppare la propria carriera e la propria creatività dentro quel contesto così attento a ogni dettaglio timbrico, di risonanza dello spazio.
DP: Ciò che io trovo davvero interessante è che questa etichetta ha dato spazio a nuove espressioni e a nuovi musicisti, il che vuol dire far entrare nei circuiti di produzione anche alcuni strumenti che si sono rivelati molto importanti nel corso del tempo (l’oud, la fisarmonica, il koto giapponese). Il discorso riguarda anche i violinisti come me, che difficilmente avrebbero trovato una cura del suono così attenta, come viene richiesto dalla musica che scrivo: questo certamente consente anche un nuovo modo di ascoltare meglio le varie possibilità degli strumenti in termini di dinamica; lo stesso vale per il pianoforte e altri strumenti più comuni.
Da ascoltatore, «Preludes and Songs» ha un’atmosfera diffusamente introspettiva, non dico triste ma certamente intima, notturna. Come riuscite a condividere emozioni così «private», per così dire?
DP: Non è semplice rispondere a questa domanda, perché si fronteggiano stati d’animo diversi. In realtà, per il solo fatto che suoniamo insieme siamo felici e c’è un sentimento condiviso di gioia, non c’è un ragionamento a monte per cui scegliamo di andare in una direzione, qualcosa di consapevole che ci induce a creare tristezza o introspezione, anche se naturalmente ci possono essere dei climi particolari con quel tipo di temperatura coloristica nello sviluppo della musica.
FC: Certo, non si può dire che facciamo musica danzante, spesso sono anche le dissonanze, i clusters a creare un certo clima introspettivo, questo è innegabile …
Come cambia con il passare degli anni il vostro rapporto con la musica?
FC: Sono una persona che, come chiunque, sta invecchiando e che fa questo lavoro da oltre cinquant’anni. Resta la mia ragione di vita, anche se a volte il corpo ha difficoltà a tenere il passo, gli spostamenti possono essere un po’ più faticosi, il dolore ai polsi può affliggermi, ma non vogliamo far altro che continuare a suonare. Viviamo per quello e in particolare per suonare davanti a un pubblico, che è il mio più grande piacere, specie quando si riescono a catturare momenti magici di condivisione; questa corrispondenza è facilitata dalla formazione in duo, come nel caso di questo album con Dominique. Mi piace lavorare insieme agli altri e mi piace lavorare moltissimo: bisogna continuare a suonare per cercare e trovare insieme tante risposte. È un tale piacere della vita, che ho deciso di non fermarmi finché non sarà proprio necessario.
DP: Confermo! Da sempre mi piace lavorare, il passare del tempo l’ho sempre letto come un’opportunità concreta per migliorare. Quindi proverò a non darla vinta al tempo: quando sarà finita la mia vita come musicista, sarò pronto per iniziare un’altra vita da musicista!
François, sei in debito di una domanda, perché la conversazione è iniziata con una che ho fatto a Dominique e dunque ne approfitto. Nel tour italiano di fine 2024, hai accompagnato Anja Lechner, suonando anche un brano di Karl Friedrich Abel, che fa parte del suo ultimo album da solista. È curioso come un brano formalizzato della tradizione barocca sia riuscito ad andare, dopo l’esposizione del tema, completamente da un’altra parte con la tua improvvisazione. Questa può essere una strada per infondere una nuova vitalità alla prassi esecutiva classica?
FC: Non credo che questo sia il punto nodale della faccenda. L’effetto che hai notato deriva esclusivamente dall’originalità di questo duo: Anja è una superba musicista classica che, come ben sai, ha appena registrato un cd su Bach, Hume e Abel; è musica che suona regolarmente e che le piace moltissimo, anche quando si trova a condividerla con me. È grazie a questo tipo di piacere che nulla ci è proibito. Anche in questo caso, come con Dominique, è un venirsi incontro. La cosa bella sta nelle peculiarità musicale di ciascuno. Quindi, se io adoro improvvisare e mi trovo su un palco con una splendida solista classica come Anja, la sua musica è per me l’inizio perfetto per intraprendere il mio viaggio e, allo stesso tempo, provare a restare coerente con ciò che ha suonato lei prima di me.